lunedì 26 aprile 2010

Limbiate

Oggi mi è toccato il solito viaggetto a Limbiate dal commercialista. Tra andata e ritorno sono cinquanta chilometri. Tutti mi dicono di cercarne uno a Milano, ma non mi dispiace fare un giretto in auto. Almeno è una scusa per usarla: in cinque anni avrò fatto sì e no ventimila chilometri.
Quando sono andato in officina per il tagliando, il meccanico non ci voleva credere, tanto che ho dovuto mostrargli personalmente il contachilometri e poi non la smetteva mai di ridere e strizzare l'occhio ai colleghi, come se fossi un un fenomeno da circo.
Tornando al commercialista, il destino vuole che a Limbiate abitasse una coppia di buoni amici di mio padre che, ogni tanto, ci invitavano a cena. Lei era mezza egiziana, con i capelli rossi, e il marito un tipo magro ma tutto muscoli che, ogni mattina, andava a lavorare a Milano in motorino. Avevano tre figli e facevano una gran fatica per tirare avanti.
Erano i primi anni '70, e io un tredicenne con una pettinatura tipo i cantanti italo-americani dei casinò di Las Vegas. Come al solito, dopo qualche anno, mia madre cominciò a essere gelosa, pensando che questa amicizia avesse qualcosa di torbido, ma questo succedeva con qualunque donna si avvicinasse a meno di cinque metri da mio padre.
La cosa che mi meravigliava di questi inviti a cena, era l'impressione che il viaggio di ritorno fosse sempre più breve rispetto a quello di andata, ed è la stessa impressione che provo ogni volta che vado dal commercialista. Chissà da cosa dipende? È chiaro che è solo un inganno, un'alterazione percettiva, ma non sono mai riuscito a spiegarmi come possa accadere.
Il secondo quadro è quasi terminato. È completamente diverso dal primo e non ho ancora deciso se sia meglio o peggio.

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