lunedì 28 febbraio 2011

Fobie

Questa mattina seduta dal dentista grazie a una vecchia assicurazione medica che credo non potrò rinnovare. Almeno fintanto che le cose non cambieranno.
Bene, se non fosse che il dentista è la mia peggior fobia. Non solo l’idea del dentista mi atterrisce a morte, ma anche il sentire i denti in bocca mi crea disagio. Non sopporto nemmeno che altri parlino di denti o dentisti e tantomeno riesco a vedere film o telefilm in cui qualcuno va dal dentista o parla di denti.
Il Maratoneta, per esempio, è un film che riesco a guardare solo se so di non avere nemmeno una carie, e comunque la scena in cui Lawrence Olivier tortura Dustin Hoffman mi mette non poco a disagio. Denti di Salvatores non l’ho mai voluto vedere e, visto che le liste piacciono così tanto, vogliamo aggiungerci The Dentist di Brian Yuzna, La Piccola Bottega degli Orrori di Frank Oz, Tom Hanks in Castaway quando si estrae un dente con la lama di un pattino da ghiaccio, o la comica di Mister Bean nella quale si trapana e stucca i denti da solo?
Ho pensato molte volte al perché di questa irrefrenabile fobia e forse, scavando nei ricordi, penso di poterla attribuire con una certa sicurezza a quando avevo sette otto anni e mio padre, quasi tutte le sere, mi faceva sedere sulle sue ginocchia, mi immobilizzava le braccia e, con un fazzoletto di cotone bianco, mi allargava i canini inferiori a forza di muscoli. E mio padre di muscoli ne aveva mica da ridere. 
Ricordo ancora l’angoscia di questa operazione, i fazzoletti immacolati macchiati dal mio sangue e mia madre, seduta nella poltrona di fronte, che sovrintendeva.
Certi ricordi andrebbero cancellati, ma non è facile. Chissà perché sono sempre queste cose traumatiche a perseguitarci tutta la vita, mentre quelle piacevoli sono sempre così rare e difficili da far affiorare alla memoria.
È facile dire che si deve vivere nel presente e non indulgere in ricordi, belli o brutti che siano. Ma è anche vero che sono il frutto delle nostre esperienze di vita. E allora, negare i ricordi non sarebbe come negare sé stessi?
PS: il prossimo appuntamento è per mercoledì.

giovedì 24 febbraio 2011

Oh no! Di nuovo nel culo!

Le cose in realtà sono piuttosto semplici.
Lunedì, l’ex direttore dice che ha intenzione di valutare seriamente la proposta di rilancio di una rivista e che avrebbe intenzione di affidarmi parte della realizzazione e il restyling grafico. Dico che sono in grado di sostenere sulle mie spalle tutta la rivista senza alcun problema, ma lui tergiversa.
Martedì dice che vorrebbe portare all’editore qualche pagina del nuovo progetto; poca roba, solo un paio di rubriche e un servizio da tre quattro pagine. “Non ci mettiamo certo a lavorare senza avere la certezza di portarci a casa il malloppo”. Poi dice che vuole dividere la realizzazione del giornale, non per una questione di scarsa fiducia, ma perché è saltato fuori l’ennesimo caso umano.
Si tratta di un grafico che ha avuto un incidente in moto, si maciullato una gamba, che ora è dodici centimetri più corta dell’altra, e che si sta facendo curare da un russo che allunga le ossa eccetera.
Che posso dirgli? Che c’ero prima io? Che io le gambe le ho entrambe ma non so come mantenere la famiglia? Chissà perché quando parlo delle mie condizioni nessuno mi prende mai sul serio. Forse dovrei fare un po’ di scena, piangere qualche lacrima, ma non sono il tipo.
Mercoledì: salta fuori che il caso pietoso si è messo a fare il restyling da solo, e continua a sfornare rubriche, servizi e prove di copertina che l’ex direttore mi sottopone come se io potessi esserne felice. Questo, a casa mia, si chiama fare le scarpe a qualcuno. Che faremo poi sulla gerenza del giornale? Scriviamo che il restyling l’ha fatto lo zoppo e io mi limito a fare l’esecutore?
Stronzo io e la mia ingenuità, pensare che in fondo tutti hanno bisogno di lavorare, specialmente nei momenti di difficoltà, e scoprire che appena ti volti, quello a cui hai appena fatto del bene cerca di infilartelo nel culo. Davvero fantastico.
Ma ormai la mia strada è rivolta alla ricerca della serenità; non voglio più incazzarmi, semmai provo un grande sconforto e una grande malinconia verso questo modo di vedere la vita. Sono stufo del “io fotto te prima che tu fotta me”. Lo trovo così meschino e triste. Preferisco di gran lunga abbracciare la filosofia de Il grande Lebowski: “Quando capisci che è meglio vivere la vita filosoficamente senza fottere nessuno, allora hai raggiunto lo zen del Drugo”.

mercoledì 23 febbraio 2011

Chi è senza peccato...

So già che ciò che sto per scrivere non importerà a nessuno. E so pure che chi segue questo blog lo fa perché, forse, si diverte a leggere i fatti miei.
Ma è anche vero che, per me, questo blog si è trasformato in una terapia. Un po’ come si vede in certi film americani nei quali, solitamente, un gruppo di persone è seduto in cerchio e ognuno a turno racconta di sé: “Ciao, Mi chiamo Roger e sono disperato...”.
E visto che è mia intenzione raggiungere in qualche modo un certo equilibrio psicologico, devo trovare il modo di liberarmi di tutto ciò che m’infastidisce, devo per forza esorcizzare le mie idiosincrasie, e questo blog è al momento l’unico strumento che ho a disposizione.
Ecco quindi che, accantonato per sempre il mafioso pelato, ho bisogno di chiudere il discorso anche verso altre persone e cose di cui ho parlato.
La Repubblica - intesa come quotidiano - è stata per me la prima vera memoria culturale autonoma. Era il 1976, ero in terza media e avevo la mania dei primi numeri. Il numero uno di Capitan America, di Alan Ford, Maxmagnus, l’ultimo numero del Times e via dicendo. Qualcosa di abbastanza tipico negli adolescenti, almeno credo. Così mi rivedo ancora che, all’uscita da scuola, compro questo nuovo quotidiano: nuovo nel formato, nella grafica, nei contenuti, e lo sfoglio mentre torno a casa.
Mi è piaciuto, non so perché, mi ci sono affezionato e l’ho seguito spesso. Non tutti i giorni, ma quando accadeva qualcosa d’importante l’ho sempre comprato. Al liceo lo alternavo a Lotta Continua, Il Male e qualche volta il Manifesto. Non ho mai sopportato invece il Corriere della Sera, ma non ho intenzione di buttarla in politica, perciò accontentatevi di sapere che è un quotidiano che non mi è mai piaciuto.
De la Repubblica ho sopportato - come si sopportano le scappatelle di un’amante - l’infatuazione verso Craxi e il partito Socialista, i flirt con l’ex PCI poi PDS, le simpatie per l’insopportabile e spocchioso D’Alema, le trombonate intellettual-filosofiche di Eugenio Scalfari. Tutto per poter continuare a leggere una serie di firme che altri quotidiani si sognavano: Giorgio Bocca, Pietro Citati, Miriam Mafai, Gianni Brera, Tiziano Terzani, Altan, Natalia Aspesi, Emanuela Audisio, Stefano Rodotà, Vittorio Zucconi, Umberto Eco, Giorgio Odifreddi eccetera.
Ho sopportato la folgorazione sulla via del revisionismo storico di quel voltagabbana presuntuoso, novello Paolo di Tarso, di Giampaolo Pansa (che poi ho scoperto provenire dal Corriere della Sera!).
Ricordo i titoli durante il rapimento Moro, quando frequentavo il liceo Artistico nell’ex convento a fianco della chiesa di San Marco nell’omonima via. Si salivano le scale strette a due a due, aggrappandosi alla sottile ringhiera di ferro, con i giornali sotto al braccio per discutere in classe, organizzare assemblee, manifestazioni e compagnia bella.
Forse per questo oggi mi dà così fastidio assistere al lato più becero e commerciale di questo giornale; alla filosofia di una mano lava l’altra, del favore all’amico e all’amico dell’amico, all’ossequio dell’inserzionista, al trionfo del giornalismo delle mezze calzette.
Ormai è troppo facile per me prendermela con la solita Sara Chiappori. Una che scrive ogni articolo allo stesso modo, usando sempre il medesimo schema, con tutti quegli aggettivi sempre fuori luogo e ridondanti, pulitina e precisina come la secchiona del liceo, che poi non ha niente di meglio da fare che andare a cercarsi su internet come un adolescente infoiato. Ho dato una scorsa alle statistiche del blog: in meno di un anno le chiavi di ricerca riferite a Sara Chiappori sono oltre cinquanta, seconde solo a Uomo in Mare. E chi volete che vada mai a cercare una giornalista che scrive una marchetta alla settimana nella cronaca locale se non lei stessa?
Adesso si è aggiunto questo Gabriele Galimberti a cui “D”, il supplemento femminile di Repubblica, ha pagato un viaggio intorno al mondo durante il quale, questo brillante giornalista, incontra degli emeriti sconosciuti spacciati per creativi, artisti eccetera, ponendo loro domande di una banalità stupefacente come ad esempio: “Se non qui, dove vorresti essere? Che cos’hai di urgente da dire al mondo? Primo pensiero appena sveglia?”. Roba forte, insomma.
Ma la cosa che mi ha colpito di più, è che questo acuto inviato porta lo stesso cognome di Umberto Galimberti, il colto filosofo e psicoanalista che da anni tiene una rubrica sul medesimo giornale.
E che sono, tutti omonimi?
O piuttosto, anche loro, “utilizzatori finali” del solito sistema delle baronie?
E tutta quella sfilza di artisti, architetti, stilisti, event manager, designer emergenti o già emersi - un po’ come gli stronzi nell’acqua - non sono forse anche loro beneficiari di favori, debiti e inciuci vari?
E Cinzia Sasso? Giornalista di Repubblica che abitava da ventidue anni in un appartamento di proprietà del Pio Albergo Trivulzio, in Corso di Porta Romana 116, pagando due noccioline di affitto, ovvero 572 euro al mese più 3.480,00 euro di spese condominiali?
E che ora sa solo gridare al complotto e alla macchina del fango di Berlusconi. Chi ti ha agevolato? Chi ti ha introdotto in questa ruota della fortuna che al posto di aiutare i vecchi e gli indigenti procurava case a ricchi, famosi, figli di e giornalisti, a prezzi ridicoli?
E Saviano? Che interviene spesso e volentieri su Repubblica per dirci che l’acqua è calda? “In Campania c’è la camorra; la camorra è un’organizzazione internazionale; la camorra ha ormai permeato anche il nord Italia; la politica è scesa, e ancora scende a patti con le mafie e la criminalità organizzata; le stragi sono di stato; Berlusconi è cattivo”. Ma cosa pensa, che a parte lui e Fabio Fazio, il resto degli italiani vivono sulla Luna?
Mi convinco sempre più che, al di là delle belle parole, tutto gira allo stesso modo: favori agli amici e agli amici degli amici, clientelismo, baronie, raccomandazioni, ossequio agli inserzionisti e montagne di marchette nascoste nelle pagine della cosiddetta cultura, degli spettacoli, nei dorsi locali. Mi piacerebbe sapere come definiscono tutto questo sistema di valori i giornalisti di sinistra quando sono loro stessi a farne uso e a sguazzarci dentro.
L’unica cosa che mi consola è che qualche settimana fa hanno svuotato il negozio in via della Spiga di Scavia. Cinque milioni di euro il bottino. Ricordate? Il papino di Maria Elisabetta Scavia, la rampolla che scrive libri pruriginoso-storici, anche lei in un'ottima posizione nelle chiavi di ricerca del blog.
Come si dice? Chi è senza peccato...

martedì 22 febbraio 2011

Schizofrenia

Per quanto io e il mio cervello - volontariamente o fisiologicamente - siamo ormai costantemente tesi verso la ricerca della serenità come novelli Siddharta, è il mio corpo a incarnare - giustappunto - la ribellione, l’anima terrena.
Emicranie a ripetizione, bronchite pressoché cronicizzata, acufene, denti doloranti, coliche ricorrenti. 
La rivincita della merda sulla mente, del sangue contro la parola, del dolore contro il pensiero.
Vivo questa schizofrenia nell’attesa che l’ex direttore presenti le cinquanta pagine alle quali ho dedicato gratuitamente dieci giorni della mia vita o che almeno concluda l’accordo per la realizzazione e il rilancio di una testata piuttosto conosciuta, ma in costante perdita.
Queste sono al momento le mie prospettive, ciò in cui ripongo le mie serene speranze, la mia voglia di rivincita, l’alfa di una nuova vita.

lunedì 21 febbraio 2011

Confuso e dubbioso

Devo ammetterlo, sono un po’ confuso. 
Confuso, ma in viaggio lungo una nuova strada. Che sia merito delle letture di questi ultimi tempi? O più semplicemente la dimostrazione pratica della teoria dell’elaborazione del lutto della solita Elisabeth Kübler Ross? Se così fosse, non ne sarei tanto felice.
Possibile che l’essere umano sia così facilmente prevedibile? Davvero i nostri sentimenti sono solo messaggi chimici fra neuroni? E il libero arbitrio? Come posso essere sicuro che i miei processi mentali siano solo miei e non il frutto di un riflesso condizionato come in un cane di Ivan Pavlov?
Non so quindi se la serenità che vado inseguendo sia il frutto di un processo comune, automatico e inevitabile, simile a quello di qualsiasi altro essere umano, oppure una scelta solo mia, una decisione ponderata e cosciente, una strada che ho scelto di imboccare volontariamente.
Ma perché allora porsi una domanda simile se il risultato rimane pur sempre il raggiungimento della tranquillità?
È molto semplice: non voglio una serenità e una tranquillità imposte dal mio inconscio, non voglio seguire la strada che chiunque - povero o ricco, colto o ignorante, sensibile o rozzo - raggiungerebbe comunque, prima o poi, volente o nolente. 
Così non ci sto, non accetto di essere solo un pupazzetto voodoo in mano al mio inconscio, non voglio essere un robot a cui basta girare una chiavetta chimica o psicologica per farlo muovere. Neppure quando l’orologiaio è il mio stesso sé.

venerdì 18 febbraio 2011

Il possente boscaiolo

Odio questo limbo. Quest’attesa che strappa l’anima ma che, al tempo stesso, non vorrei finisse mai. Perché ho paura; paura di sapere se l’ex direttore riuscirà a vendere quelle cinquanta pagine e il progetto che ci sta dietro; perché questo significherebbe sapere se riuscirò a sopravvivere per qualche mese ancora, se riuscirò a portare in vacanza i figli e fargli passare questa maledetta bronchite. Significherebbe sentirmi più virile, capace di provvedere alla famiglia, come un possente boscaiolo canadese.
Ma fino ad ora tutto tace e non so cosa pensare.

mercoledì 16 febbraio 2011

L'ennesima commedia

Finalmente piove. L’unica misura valida - e per questo indipendente da un sindaco incapace - per abbassare l’inquinamento di Milano.
Bene, finalmente... proprio oggi che abbiamo un incontro con l’agenzia che ci rimbalza da prima di natale. È una formalità e lo sappiamo bene. Ci ricevono solo perché siamo presentati da un loro grosso cliente. Ci devono ricevere, anche se di noi non gl’importa nulla.
Il nome dell’agenzia è la solita combinazione di lettere e numeri. Pronunciato secondo lo spelling inglese assume significati molto profondi e intriganti, anche se per chi, come me, lo mastica poco, rimane pur sempre una specie di password alfanumerica.
Ma non voglio apparire spocchioso o snob verso l’idea di qualche brillante manager, figuriamoci. Semmai sono io ad essere fuori da questo tipo di logiche, io ad essermi posto fuori dal tempo. 
Come faceva quella pubblicità insopportabile? “Perché io vivo col mio tempo... con il progresso, la performance”(1). Beh, ammettiamolo, queste cose un po’ mi schifano. Se essere snob significa utilizzare termini italiani equivalenti invece di quelli americani, allora un po’ snob lo sono davvero.
Lasciamo stare il fatto che anch’io ho ceduto all’anglicismo quando ho rinominato la mia struttura, illudendomi che bastasse questo per ravvivare la mia vita professionale. E poi era anche per fare un omaggio a un maestro del cinema e a tendenze trasversali in cui mi sono sempre riconosciuto, ma questo per ora non c’entra niente.
Niente a che vedere, tanto per fare un esempio, con quei giochetti di parole infantili tipo: "T4-2", che si potrebbe leggere Tea for two.
Ci riceve un ragazzino in giacca e cravatta che forse non raggiunge i trent’anni. Sono meravigliato. Mi aspettavo uno di quei tromboni sui cinquanta sessanta e invece sono io a sentirmi vecchio e superato. Non ho nemmeno, non dico un completo, ma neppure una giacca, solo una delle quattro camice che mi ha regalato mia madre, un paio di jeans e delle nike di cinque anni fa come minimo. Il vecchio montgomery che si ricorda la prima presidenza del consiglio Craxi, mi fa sudare, mentre mia moglie, che in casa non tace un momento e alla quale, proprio per questo, ho affidato l’incarico di responsabile clienti, non apre bocca.
Comunque non riesco a rendermi antipatico questo ragazzino, perché non lo è. Sarà perché è un account - che poi starebbe per venditore, o responsabile clienti. A questa stregua, mio padre, che era un commesso viaggiatore per un’azienda tessile, si sarebbe potuto definire tissue account, ma lasciamo perdere.
Come sempre in tutti gli ultimi colloqui che abbiamo avuto, parte il solito pippone aziendale:
“Nella vostra struttura quanti siete?” Chiede lui.
“Per ora due - rispondo - ma in base alle esigenze che si presentano, siamo in grado di attivare una rete di professionalità che ci permettono di esaudire le più svariate... bla bla bla”.
Lo dico come si ripete la lezioncina imparata a memoria, con convinzione nel tono della voce e nel linguaggio del corpo, ma il primo ad annoiarsi al solito vecchio disco rotto sono proprio io.
“Ah, - dice lui - capisco, noi al momento siamo qualcuno più di centoquaranta”.
Nel frattempo i miei coglioni sono scesi nelle calze e ascolto con pazienza e un certo stoicismo questo ragazzino che decanta le mille facce della sua azienda, usando un tale numero di termini specialistici di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Gli squilla l’iPhone, ma educatamente lo spegne. Mi auguro che il vecchio e patetico nokia non si metta a suonare all’improvviso con quella suoneria da vecchio telefono a rotella per risparmiarmi l’umiliazione di tirarlo fuori dalla tasca.
Poi ci accompagna a fare un giro per l’agenzia che, manco a dirlo, alloggia in una vecchia fonderia ristrutturata. Fingiamo interesse e ammirazione, forse i medesimi che simula lui stesso, ma abbiamo già ben compreso tutti quanti che di noi non saprebbero che farsene.
A casa, o in studio, che poi è la stessa cosa, mi aspettano le ultime due pagine del lavoro per l’ex direttore, quello fatto sulla fiducia, o meglio, sulla speranza che possa interessare a qualche casa editrice a cui tenterà di piazzarlo. Mi convinco sempre più che ormai stiamo vivendo nel mondo parallelo degli esclusi, dei disoccupati, dei reietti, degli esiliati. Sembra lo stesso in cui si dibattono tutti quanti, ma nel nostro, il fatto che tutto vada sistematicamente storto, è una legge fisica impossibile da confutare.

(1) Faccio finta di non saperlo, ma lo diceva Claudia Schiffer in una pubblicità l’Oreal.

martedì 15 febbraio 2011

Ma che combinazione!

“Allora Siddharta aveva passato la notte in casa sua, tra vino e danzatrici, aveva affettato verso i suoi pari una superiorità di cui non era più ben sicuro, aveva bevuto molto vino e a tarda notte aveva cercato il letto, col cuore pieno d’una tal miseria che pensava di non poterla più sopportare, pieno d’un disgusto di cui si sentiva compenetrato come del tiepido, nauseante sapore del vino, della musica dolciastra e brulla, del riso troppo tenero delle danzatrici, del profumo troppo dolce dei loro capelli e dei loro seni. Ma più che di tutto il resto aveva schifo di se stesso, dei propri capelli profumati, del puzzo di vino della propria bocca, della stanchezza flaccida e inamena della propria pelle”.

Herman Hesse, Siddharta.

lunedì 14 febbraio 2011

Fanculo san Valentino!

Non amo e non ho mai amato certe ricorrenze. Feste per pasticcerie, negozi di intimo e fiorai. 
Come san Valentino: una festa in cui, all’originale scambio di messaggi d’amore - scritti di proprio pugno su carte profumate -, si sono sostituiti orribili baby doll con finestra sul culo, patetici peluches, slip ”brasiliani”, cioccolatini che evitano il disturbo di pensare una frase di senso compiuto per la propria donna/uomo. 
Festa per ragazzini foruncolosi e imbranati e ragazzette mitomani. Utile a superare timidezze adolescenziali e niente più.
Per quel che mi riguarda, oggi mi sento più vicino ad Al Capone e il suo massacro di San Valentino. Anch’io avrei i miei George “Bugs” Moran con cui mi piacerebbe regolare qualche conto e rimettere le cose in chiaro su chi ha torto e chi ragione.
Vedere poi mia moglie così disillusa, frustrata, avvilita ed esasperata e io che non posso farci un cazzo di niente, mi fa male, così male che non ho nemmeno più il fiato per respirare.

venerdì 11 febbraio 2011

Rosetta

Non so perché i miei sogni di questi ultimi giorni siano così vividi e reali e, soprattutto, così cinematografici, coinvolgenti, quasi hollywoodiani.
Ma non ho intenzione di essere analizzato per ciò che sogno; direi che per ora ho messo in piazza più di quello che avrei voluto e perciò non parlerò di questo, ma piuttosto di Rosa.
“La Rosetta”, con l’articolo davanti, abitudine irrinunciabile di noi nordisti, che non è la michétta o rosétta che dir si voglia, cioè un tipo di pane, ma una persona, una mia quasi coetanea.
Figlia di siciliani di scarsa cultura, una certa propensione a delinquere ed esperti in sotterfugi e scappatoie, è l’unica femmina di tre fratelli, uno dei quali ha trascorso buona parte della sua vita in galera e - appena uscito - non ha trovato di meglio che uccidersi in un banale incidente stradale. 
È stato per così tanto tempo in prigione, che nessuno quasi lo ricordava più, uno che, quando il padre era sul letto di morte, è arrivato col cellulare dei carabinieri per salutare il genitore. Non più di un paio d’ore, coi militari che presidiavano strada e cortile, mitra a tracolla.
L’altro fratello non abita più qui, ma ogni giorno accompagna la madre, manda affanculo la sorella, fuma sigarette sotto al portone e guarda tutti come se il mondo intero gli stesse sul cazzo.
Rosetta andava in terza media quando io frequentavo la prima o la seconda. Non era certo una bellezza, forse aveva pure un po’ di baffetti, ma non le mancavano sfacciataggine e un’educazione approssimativa. Pensandoci bene, già pareva una mezza matta. Forse per questo, lungo la strada da scuola a casa, amava cantare a squarciagola canzoncine come: “Vieni con me a Milazzo, mi farai vedere il...” e roba del genere. La trovavo piuttosto strana e un po’ mi metteva anche soggezione, così rallentavo il passo e la lasciavo a una ventina di metri avanti a me, che facesse pure i suoi numeri e cantasse le sue filastrocche. Credo che non ci fossimo nemmeno mai salutati.
È vero che la sua non doveva essere una vita facile. Il padre, benché vestito sempre elegantissimo, con tanto di Borsalino, rappresentava comunque la parte arcaica e chiusa del mondo dal quale proveniva. Uso alle botte sia alla moglie che alla figlia. Facile ad accendersi come un fiammifero, erano proverbiali le scenate di vario genere che si consumavano tra casa, cortile e strada. E i fratelli non dovevano essere molto meglio, visto che la madre doveva rimproverarli quando si dimostravano troppo interessati al seno generoso di Rosetta. La sentivo dire alla portinaia, non senza un certo orgoglio, cose così: “Devo stare attenta, perché Rosetta è ddonna ddonna e si capisce che pure questi sono uomini”.
Ho perso di vista “la Rosetta” per un bel pezzo; ho saputo che si è sposata e che ha avuto un paio di figli, che il marito aveva lo stesso vizio del padre, che non sapeva tenere le mani a posto, che ha avuto diversi esaurimenti, che le hanno tolto i figli, che ha divorziato e che è tornata a vivere a casa della madre.
È in questo periodo che, per forza di cose, la incontro spesso in portineria e lei ha cominciato a salutarmi con un “ciao” che pareva racchiudere tutta la sofferenza di almeno vent’anni di una vita incredibilmente squallida e ruvida. Un ciao che pareva una mano tesa in cerca di un aiuto che non avrei potuto offrirle, un ciao che tremolava di un equilibrio instabile, pericoloso e disperato. 
Quando ha la Luna buona, Rosetta canta. La si sente fin sulla strada, quando il traffico concede un po’ di silenzio, o anche dal cortile, con la voce che rimbalza contro i muri stretti. Canta Biagio Antonacci, Ligabue e altra roba esclusivamente italiana.
Quando invece si sveglia col piede sbagliato sono più i vaffanculo e le sfuriate con la madre ciò che rimbomba all’esterno.
L’altro giorno l’ho incontrata in portineria, mi ero fermato per verificare come mai la serratura del portone non funzionasse bene e, purtroppo, ogni condomino che passava aveva il suo autorevole e inutile parere da esprimere. Finché non è arrivata Rosetta. A vederla da vicino mi fa ancora soggezione. Saranno quegli occhi inespressivi come quelli di uno squalo, o quella tensione enorme, avvertibile, che le scorre sottopelle, o quegli scatti della testa un po’ come fanno le lucertole. Il suo parere è stato che è colpa di “quelli”. Quelli sarebbero tutti e indiscriminatamente gli extracomunitari o, come li chiama lei, “bastardi, figli di puttana, ladri. Dovete morire tutti”. Accompagnando le parole con un eloquente croce fatta con la mano, come fosse un papa benedicente.
Sono scappato di corsa, mentre lei, guardando due nordafricani che passavano proprio in quel momento, sibilava fra i denti: “Guarda che facce, bastardi”.
PS: Naturalmente l'appuntamento di lavoro che avevo per oggi è saltato; rimandato a martedì prossimo.

martedì 8 febbraio 2011

Che ne sarà di me?

Lo confesso: l’idea di lavorare gratis, o meglio, senza prospettive certe di retribuzione, non mi fa impazzire. Anzi, mi fa pure un po’ incazzare.
Se da una parte mi illudo di non essere fuori dal giro, di mantenere attive le capacità grafico-editoriali, dall’altra so che lavorare in questo modo non può portarmi da nessuna parte. Sono stufo di mezze promesse, di fumosi contatti, di appuntamenti inutili, di preventivi perversi.
Perché non riesco a lavorare? Questa è la domanda che continua ad assillarmi più volte al giorno. Perché, malgrado una buona esperienza, discrete capacità e una ricerca a tappeto non riesco a impaginare nemmeno il giornalino della parrocchia?
Perché il destino è stato così stronzo? Perché si sono dovute allineare così tante circostanze negative da ridurmi in questo stato?
Perché mi è stata tolta la dignità di mantenere la mia famiglia? Cosa ne sarà del nostro futuro, soprattutto quello dei miei figli e, perché no, quello della mia vecchiaia?
Non pare, ma sono cose che consumano l’anima e il corpo.

lunedì 7 febbraio 2011

Universi paralleli

Una settimana pesante si è appena chiusa e una nuova, che non promette nulla di buono, si apre. 
Sì va beh, grazie alle solite conoscenze, per giovedì abbiamo un appuntamento in un’agenzia qui vicino. Ma penso si tratti più che altro del solito scambio di cortesie che non sortirà il minimo risultato.
Martedì avrò invece un probabile, ennesimo scontro con la commercialista. È una vecchia conoscenza di questo blog e, purtroppo, la ritengo anche una causa percentualmente nemmeno troppo minoritaria della perdita, come cliente, del mafioso pelato. 
Purtroppo ho mani e piedi legati; come posso andare alla ricerca di un altro commercialista? Quando mi chiederà qual è il mio giro d’affari attuale, cosa potrò mai rispondergli? Zero? Ecco perché, per ora, non posso che combattere con questa stupida troia che non vuole capire la situazione, che continua a spedire parcelle completamente impazzite e contro le quali devo costantemente combattere. Ma il commercialista non dovrebbe essere colui che tutela i miei interessi? Che indica la strada migliore, la più conveniente?
A volte mi domando come mai nella vita mi capitano cose così insensate, irreali, stupidamente controsenso. Come, per esempio, portare l’auto a fare il tagliando e ritrovarmi il giorno dopo con le frecce che lampeggiano impazzite a velocità parossistiche. Oppure non riuscire a venir fuori da questa schifosa bronchite che non mi fa dormire la notte e che pare voglia farmi scoppiare i polmoni. Oppure ritrovarmi a lavorare gratis con l’ex direttore su un progetto di cinquanta pagine senza nessuna prospettiva certa di effettiva realizzazione. O cercare di mettermi in contatto con l’art director, quello che pare Carl Marx con dieci anni in meno, e scoprire che si trova in Sudan o qualche posto del genere, per conto del “partito” a verificare come risolvere problemi legati all’approvvigionamento idrico e roba simile. O sentire l’insegnante di chitarra di C. che ci consiglia di farlo studiare composizione perché è un ragazzo di rara capacità e poi, sempre dallo stesso ragazzo, ritrovarmi due insufficienze nel pagellino del primo quadrimestre. 
Non so, mi sembra di vivere su diversi mondi, in due universi paralleli, in diversi spazio-tempo; uno in cui le cose cominciano nel modo giusto, secondo le regole che ci aspetteremmo, per poi trovarmi a concludere ciò che è iniziato come doveva in un altro mondo, in cui le cose vanno a rovescio, in cui il topo mangia il gatto e gli imbecilli comandano.

mercoledì 2 febbraio 2011

Andammo per suonare, ma fummo trombati

È un periodo in cui è inutile sperare. La speranza è morta come stiamo morendo lentamente tutti quanti, imprigionati in un paese in declino, insieme ai valori del capitalismo e di un consumismo che è ormai un fatto vecchio e superato.
Capire che le cose non possono più continuare a essere come prima, che non è possibile continuare a vendere automobili indefinitamente, che non si possono creare bisogni inutili per persone che non possono permetterseli, è abbastanza facile.
Qualche anno dopo l’uscita dei primi telefoni cellulari - carissimi da comprare e con telefonate che costavano anche mille lire al minuto - vedevo persone che chiedevano prestiti in banca o pagamenti rateali pur di possedere un oggetto completamente inutile rispetto ai loro bisogni; sapevano a stento parlare un italiano comprensibile, eppure tutta la famiglia accompagnava l’evento dell’acquisto del nuovo feticcio, del totem della comunicazione, come una volta decideva l’acquisto della nuova camera da letto o la cucina.
Forse è la mia posizione che mi permette di realizzare prima di altri che siamo sull’orlo del burrone, un piede già proteso nel vuoto, il brecciolino che cade di sotto, mentre da dietro, continuano a spingerci allegramente: “Comprate, connettetevi, l’auto nuova ogni tre anni, il telefono che fa tutto ma che non sappiamo far funzionare, la televisione 3d, la scarpa che respira, il dolcetto che ti uccide di colesterolo, l’orologio che se non ce l’hai sei una merda, vecchie costrette a vestirsi da lolite, ragazzine costrette a dare di sé l’immagine di una troia navigata, uomini che non sanno accettare di perdere i capelli”.
Sì, sono incazzato, inutile nasconderlo. Incazzato e scoraggiato. Perché il bresciano che è venuto a farci visita ieri, non ha fatto altro che promozionare i servizi di stampa della sua azienda. Che stupido! E io che credevo avesse intenzione di farci collaborare in qualche modo.
Ora non posso fare altro che lavorare gratis per l’ex direttore, sperando che i suoi progetti vengano prima o poi approvati da qualche editore.