venerdì 31 dicembre 2010

Idiosincrasie

In questo periodo in cui le liste, che paiono essere state inventante da Fazio e Saviano ma che, come ha raccontato Umberto Eco nel 2009, erano già molto popolari nel medioevo, riscuotono un così grande successo anche tra le riviste che scimmiottano ogni cosa, anch’io, come ho già fatto diverse volte in passato, consegno la mia lista di fine anno. 
È costituita dalle parole, e anche dai nomi, che non vorrei più risentire nel 2011, ma che di sicuro mi toccherà risentire ancora infinite volte. 
Diciamo che più che una speranza è un grido di nausea, di desolante protesta, di totale rifiuto per ciò che siamo diventati, che ci hanno fatto diventare, che ci hanno costretto ad essere.

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mercoledì 29 dicembre 2010

Mah...

Non è il momento di tirare le somme, e tanto meno ne ho l’intenzione. Sta di fatto però che è passato quasi un anno dal rovescio lavorativo e di nuove propettive non ne vedo nemmeno l’ombra. 
Un anno di blog, migliaia di mail per la ricerca di nuovi clienti, telefonate in ogni parte d’Italia, decine di preventivi finiti prima ancora di cominciare, colloqui inutili in partenza, un discreto aumento della pressione sanguigna sia mia che di mia moglie. 
Un anno vissuto con periodi di incosciente felicità famigliare, misti ad altri fatti del più profondo pessimismo cosmico.
La crisi è nera, non c’è dubbio, ma la grafica esiste ancora, i giornali, specialmente di settore, non prosperano è vero, ma ci avete fatto caso a quante migliaia di testate specialistiche esistono in italia? Dall’organo dei produttori di fischietti per arbitri, al giornale di categoria dei pescatori di frodo, ogni realtà, anche minima, ha la sua rappresentazione cartacea, eppure non siamo riusciti a spuntare nemmeno uno schifo di lavoro. 
O meglio, solo un catalogo al quale ho lavorato oltre due mesi e qualche piccola brochure per una testata regionale che, in tutto, hanno fruttato quattromila euro lordi scarsi.
Così non è possibile vivere, e non è possibile nemmeno contare sulla pensione di mia madre che, in cambio, vorrebbe l’anima e chissà cos’altro.
Questo blog mi ha aiutato a sfogare la rabbia e il pessimismo dei primi momenti, a condividere speranze poi svanite, velleità sfumate e mali comuni, ma ora mi sembra solo un esercizio inutile e autoreferenziale. Non lo abbandonerò, perché sono un testardo e ho deciso che oltre alla discesa dovrà raccontare, prima o poi, la risalita, per far comprendere ai miei figli che pure le cose brutte devono avere una fine, anche se, a differenza del bel libro di Holiday Hall, in questo caso la fine (non) è nota.

lunedì 27 dicembre 2010

Veterani del natale

Sopravvivere al natale non è facile. Credo sia uno dei rischi che prendiamo più a cuor leggero, forse perché non ci rendiamo conto dei pericoli insiti nelle lucine colorate, nelle barbe finte da babbo natale e i pranzi no limits.
Ma sono sopravvissuto anche a questo. Posso dirlo con l’orgoglio di un veterano che, da quindici anni, combatte contro il sonno, la bulimia, i costumi da babbo natale di carta-stoffa, le barbe finte che prudono in modo insopportabile, i giochi da montare, i biscotti da mangiare, le tazze di latte da bere, gli ho, ho, ho controvoglia. Meriterei almeno tre stellette e un lungo congedo illimitato conquistato duramente a suon di vigilie con i suoceri e natali con i miei e viceversa.
Non mi sono mai tirato indietro; ho giocato sfiancanti partite all’ultimo sangue di mercante in fiera, tra mio cognato che vuole vincere la posta a tutti i costi per rientrare dei soldi della benzina consumata per raggiungere i suoceri, o del panettone che, suo malgrado, ha dovuto portare, e mio genero che affronta qualsiasi gioco di carte come un texas hold’em da due milioni di dollari.
Sono sopravvissuto, non senza conseguenze, ai pranzi di mia suocera e, in particolare, ai suoi famigerati “ravioli fatti a mano” che parevano fatti di malta bastarda e ripieni di nervetti. Ho ingollato brodi color arancione che parevano umori di cadaveri umani, mi sono rotto i denti con torroni di cemento bianco, ho sopportato gli infiniti capricci di nipoti antipatici e ululanti come sirene da nebbia.
Solo la morte di mio padre prima, e mia suocera poi, pace all’anima loro, ha interrotto questa giostra perversa, questo girone dei dannati del natale che non riuscivo a far diventare mio, della mia famiglia.
Oggi lo vivo con maggiore tranquillità, ma sempre con la palla al piede di una madre che devo invitare malgrado tutto e che sembra faccia apposta a farmi impazzire per dodici ore di seguito. È affetta dai normali acciacchi dell’età, ma in condizioni di salute generali più che buone, eppure, come una ragazzina viziata, vuole sempre essere al centro dell’attenzione. Quindi, come e peggio di una principessa sul pisello attempata e patetica, dice che la bella sedia in legno anatomica e con braccioli che le ho riservato non va bene, “mi fa tirare tutto il nervo della gamba”, quelle imbottite stile diner americano della cucina, andavano bene fino all’anno scorso: “sono le uniche sedie dove mi sento davvero comoda”, ma quest’anno non più. Chissà per quale motivo le procurano mal di schiena. Ho provato con la sedia rossa del mio studio ma non andava bene nemmeno quella, allora, come ultima speranza, le ho fatto provare quella che uso per lavorare al computer: una mediocre sedia dell’ikea, una di quelle con il pistone a gas che le fa salire e scendere. Pare che per quest’anno sia di suo gradimento, a differenza del divano che, a suo dire, ha la seduta troppo profonda e le dà fastidio alle gambe.
Risolto il problema della sedia, ecco che cominciano quelli legati al pranzo natalizio. Per non disturbarla troppo (ma una volta non erano le nonne che amavano esibire la loro abilità culinaria proprio in queste occasioni?), mia moglie le ha chiesto di cucinare solo il brodo per i ravioli. Una preparazione che ha richiesto almeno una settimana di studi, esperimenti, piani strategici su quale potesse essere il negozio migliore per comprare la carne e, soprattutto, di quali animali. Gallina vecchia fa buon brodo, questo lo sanno anche i muri, ma però, secondo me, puzza di morto. Avrei preferito il pollo ma, a detta di mia madre, la gallina è meno grassa!? E allora mettici la gallina. Poi è subentrato il conciliabolo se mettere subito tutte le carni a bollire, oppure buttarle in pentola secondo il loro tempo di cottura. A questo punto, mia moglie che stava per impazzire, le ha detto di cucinarlo come voleva, male che vada, possiamo sempre condire i ravioli con olio e grana, o la passata di pomodoro. Sono d’accordo con lei, la salute mentale è più importante di un piatto di ravioli in brodo.
Altra prova che ci tocca superare ogni anno è quella sulla qualità del cibo. A caval donato non si guarda in bocca, ma mia madre non riesce a fare a meno di criticare qualunque cosa, anche la più raffinata prelibatezza nasconde immancabilmente qualche difetto. Quindi: gli antipasti erano salati, il formaggio acquistato nelle marche questa estate, che ho ribattezzato “ciao sono io” per la pungente personalità del suo profumo simile all’odore di piedi di un maratoneta, era naturalmente troppo nauseante per il suo fine odorato, i ravioli artigianali del plin, “abbastanza buoni”, il polpettone un po’ troppo asciutto, e poi non ci vanno mica i wurstel, dimenticando che abbiamo impostato il pranzo in modo che potesse essere a misura anche dai nostri figli.
Pare aver apprezzato solo una specie di panettone artigianale siciliano che ci ha regalato la madre di un compagno di scuola di E. Ma ho il sospetto che l’abbia gradito solo perché era l’unica cosa non comprata o cucinata da noi.
Ma questo è ancora sopportabile per chi la conosce. La vera tortura comincia con i giochi da tavolo. Naturalmente lei odia e disprezza la tombola o mercante in fiera perché li giudica “giochi d’azzardo” che diseducano i ragazzi al valore dei soldi. Abbiamo ripiegato sul Monopoli, un classico dalle regole semplici e il divertimento assicurato. Ma non per noi. Mia madre non compra nessuna proprietà, non le scambia e non le vende. Ci si attacca come se fosse una questione di vita o di morte e, prima di pagare l'affitto a un altro giocatore, vuole vedere e rivedere il valore dei terreni e degli immobili. Malfidente e taccagna si separa dai soldi finti del monopoli come fossero fruscianti biglietti appena usciti dalla zecca italiana con i quali fare la spesa. Non rispetta mai il suo turno e continua a confondere gli altri giocatori tirando e ritirando i dadi e spostandosi utilizzando i segnaposti degli altri. Continua a propinare consigli sul risparmio e la morigeratezza, dimenticando che vince chi è più spregiudicato e senza scrupoli. Non costruisce mai case sulle sue proprietà perché “costano troppo”, ogni volta che passa per il via si meraviglia che la paghino chiedendo: “ma non è che ci devi capitare esattamente sopra? Basta anche che ci passi solamente?”. Che è una domanda perfettamente lecita, ma ripetuta ad ogni giro del tabellone, può anche portare alla pazzia.
Ma, per fortuna, anche questo natale è passato.

venerdì 24 dicembre 2010

La solita fregatura quotidiana

Dopo oltre due mesi di lavoro il catalogo è andato in stampa.
Non che me ne freghi molto; in questo momento tutto il mio essere è teso esclusivamente alla sterile lotta per la sopravvivenza. E, proprio per questo, l’infinito balletto sulla cifra da fatturare che, proprio oggi, si è ridotta a duemilatrecento euro lordi (netti saranno forse millecinquecento), mi ha lasciato sfinito.
La delusione maggiore in questa faccenda è l’aver scoperto il miserabile gioco con cui il direttore mi ha defraudato di ciò che sarebbe stato mio di diritto. È duro da accettare, proprio perché mi sono sempre fidato di lui come ci si fida di un vecchio zio, di una persona che ha visto crescere i tuoi figli, come io ho visto diventare grande la sua.
Capire di essere stati usati nel momento in cui si è cercata una mano tesa, un salvagente nel mare in tempesta, una faccia amica, non è mai piacevole.
Tutto comincia con la proposta a un importante editore, di cui l’ex direttore è consulente esterno, di un progetto come, per esempio, questo catalogo.
Verrà quindi firmato un contratto, nel quale è contemplato il compenso per il direttore che si occuperà, in piena autonomia, della realizzazione del lavoro pronto per andare in stampa.
Qui entro in gioco io che, come in un subappalto della Salerno-Reggio Calabria, mi occupo di fare quello per cui viene pagato l’ex direttore. Come in un normale subappalto, dovrebbe stornare parte del compenso per pagare le mie prestazioni. Invece, essendo ligure, gli è difficile accettare una cosa del genere ed ecco che allora inventa prestazioni non comprese nel contratto, cercando di addebitarle ora al cliente, ora all’editore.
Infatti come si spiegherebbe altrimenti che ho fatturato direttamente all’editore, scrivendo, su disposizione dell’ex direttore, “elaborazioni e produzioni fotografiche per...”. Allora chi è stato pagato per l’impaginazione?
Ciliegina sulla torta, l’editore non accetta fatture pro forma, che emetto da vari anni per non dover anticipare costantemente l’iva. Quindi mi tocca datarla 3 gennaio e incassarla, se tutto va bene, a fine marzo 2011. Non c’è che dire, proprio un affare.
Non importa, è natale, e io, come uno stupido scolaretto, ho lo stomaco allegramente sottosopra, aspettandomi chissà cosa. Mi basterebbe che babbo natale portasse un po’ di lavoro, quel tanto che basta per sopravvivere dignitosamente, ma ormai lo sanno tutti che babbo natale non esiste.
Auguri a tutti voi.

mercoledì 22 dicembre 2010

Fanculo a tutti!

Ci siamo, ormai natale è alle porte. Oggi è l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie e, come un’amara beffa, anche il giorno che, con ogni probabilità, vedrà approvata quella riforma della scuola che sarebbe legittimo, quella sì, definire criminale.
Invece, secondo il gorverno, i criminali chi sarebbero? Gli studenti, i precari, i disoccupati, i terremotati, i sommersi dall’immondizia che hanno la sfacciataggine di scendere in piazza a dimostrare la speranza di un futuro che appare nero come il petrolio anche a chi, come me, ha intorno ai cinquant’anni.
È notizia di ieri, ma nota da tempo e, la fonte (Bankitalia), più che autorevole. Il 45 per cento della ricchezza in Italia è in mano al 10 per cento delle famiglie, con una disparità degna dei peggiori esponenti mondiali del cosiddetto capitalismo. E, cosa ancor più grave, è che i figli occuperanno nella stragrande maggioranza dei casi, la medesima posizione dei genitori; chi è di famiglia ricca si arricchirà sempre più, mentre chi è nato povero, con ogni probabilità rimarrà tale. 
Con buona pace del buon Gustavo Zagrebelsky che insiste convinto nell’affermare che non esistono caste in italia, ma giri: di amicizia, di interessi politici, economici eccetera.
So che una delle leggi fondamentali dell’economia che ogni grande imprenditore italiano ha sempre tacitamente seguito è questa. Ogni industriale ha sempre interesse, anche a scapito di una quota di profitto, di far sì che esista sempre una certa percentuale x di disoccupazione, perché questo gli fornisce un enorme potere contrattuale sui lavoratori.
Facile capire allora perché un fascista, capogruppo del partito di maggioranza che ha espresso un presidente del consiglio che altro non fa se non scopare di notte e dormire di giorno, come il peggiore degli studenti che tanto ama bacchettare, non trovi di meglio da dire ai genitori di tenere a casa i figli, giacché, nei cortei, è nota la presenza di potenziali assassini. Già, proprio come in 1984 di Orwell.
Varrebbe la pena, credo, tenersi sempre appuntate sulla scrivania, queste poche righe del, fortunatamente, scomparso ex presidente della repubblica e grande insabbiatore, Francesco Cossiga. Sono virgolettate perché sono le sue esatte parole:

"Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano".

E allora, caro Saviano, di fronte a gente che ragiona così, a che serve la tua democrazia, la tua civiltà, il tuo predicare dal calduccio di un nascondiglio protetto e sicuro? Prima di fare la morale ai giovani bisogna mettersi sul loro stesso piano, scendere in piazza in mezzo a loro, prendere le manganellate dalle "forze dell'ordine", che saranno anche composte in maggioranza da giovani in cerca di un lavoro malpagato e pericoloso, ma non per questo sono autorizzate ad un uso della forza sproporzionato e fascista.
Non posso che augurarmi una impossibile e utopistica rivoluzione alla francese, ma ormai lo sfascio è totale, la corruzione dilagante, siamo al “si salvi chi può”. Appunto, chi può. E chi non può che fa?
Buon natale.

lunedì 20 dicembre 2010

L'invito della domenica

Domenica siamo stati invitati a pranzo dal “lungo”, con cui, insieme al “corto”, rappresentavamo l’incarnazione vivente della famosa canzone dello Zecchino d’Oro: Il lungo, il corto e il pacioccone.
Siamo stati amici per oltre trent’anni. A presentarci fu il “corto”, suo compagno di scuola e mio amico d’infanzia.
Ricordo ancora la volta che mi disse: “Voglio farti conoscere questo tipo; uno un po’ strano ma simpatico”. E l’amico si presentò un pomeriggio in sella a un caballero regolarità elaborato che filava come il vento. Lo guidava come fosse una Bentley da collezione, senza esibirsi in nessuna delle cazzate che si fanno quando si ha tra le mani un motorino. Guidava pulito, preciso, essenziale e questo mi è subito piaciuto.
Intenderci è stato naturale e immediato, mi sentivo spesso più affine a lui che al “corto”, che pure conoscevo da molto più tempo. L’unico difetto che aveva era quello di essere un po’ troppo svagato e distratto e, in particolare, l’essere succube assoluto di ogni ragazza. E chissà perché, forse per la sua aria svagata, o l’apparente mancanza di atteggiamenti maschilisti che spesso si accompagnano all’adolescenza, di ragazze ne ha avute parecchie.
L’amicizia si è spezzata a causa di tante piccole cose che mi ero stufato di sopportare. Presentarsi a mani vuote ogni volta che lo invitavo a pranzo o cena, salutare la nascita dei miei figli senza nemmeno un pensiero da poche lire, essere schiavo della propria taccagneria e mascherarla con la distrazione o la svagatezza, fino al tempestarmi di telefonate per venirci a trovare in vacanza e, dopo essere arrivato la sera prima in camper, scappare come un ladro la mattina dopo senza nemmeno aver preso un caffè insieme, accampando scuse inconsistenti e stravaganti per mascherare i capricci della moglie.
Da quella volta è passato un bel po’ di tempo, fino a quando, come niente fosse, chiama per una delle rare uscite serali. Gli dico chiaro e tondo che ci sono rimasto molto male, ma se il “lungo” ha un pregio, è che è impossibile litigarci. Però deve aver capito perché non l’ho più sentito per un anno intero.
E così arriviamo a venerdì scorso, quando ci invita a pranzo. Penso che, dopo aver provato sulla mia pelle quanto sia meschino essere cancellati dai parenti per sgarbi mai commessi, sia un modo per chiederci scusa, per farsi perdonare, per riallacciare un rapporto di amicizia.
Accetto, compro qualcosa da portare e ci metto anche uno dei miei poster numerati. Non lo faccio per umiliarlo, faccio solo ciò che mi è stato insegnato e che la mia educazione mi sussurra. Tanto so che non riuscirebbe a comprendere il senso di una cosa del genere. E, come tutte le volte che voglio fidarmi, che accordo fiducia, rimango nuovamente fregato. Al nostro arrivo c’è già un’altra coppia con figlio piccolo e, in seguito, si aggiungerà anche la sorella della moglie.
Potrò essere anche uno snob demodè, ma credo sia doveroso avvertire gli ospiti di quali saranno gli eventuali altri invitati e non, invece, trovarseli davanti a sorpresa, come se fosse un party organizzato da qualche organizzazione umanitaria aperto a chiuque si trovi a passare di lì. Tra l’altro, conosco di vista l’altra coppia e mi è sempre stata moderatamente sul cazzo.
Pazienza, mi sorbisco quattro ore di cazzate e di cafonerie varie, faccio buon viso a cattivo gioco e cerco pure di essere simpatico, ma questa è proprio l’ultima volta, sono stufo di farmi prendere per il culo: dagli amici, dal lavoro e dalla vita.

venerdì 17 dicembre 2010

Auguri

Come il telo che una mano pietosa stende ipocritamente sui cadaveri, questa mattina anche Milano, per l’ennesima volta, è avvolta da un sudicio lenzuolino bianco. Una coperta da quattro soldi, troppo corta per coprire anche la tristezza.
Chiuso, forse, il catalogo, mi ritrovo a buttare il mio tempo pensando a qualcosa da fare. Gli auguri, pochi, li ho spediti via mail ieri e, quasi tutti, hanno già risposto.
Gli anni scorsi, questa degli auguri, era un’incombenza, quasi un dovere verso clienti, conoscenti e parenti. Quest’anno mi sento come gli zingari che suonano il violino sulla metro. Una scocciante interruzione alle attività altrui. Un seccatore che approfitta degli auguri per elemosinare un po’ di lavoro, per ricordare a chi sta cenando al calduccio del ristorante all’ultima moda, che fuori, a spiarli dalla vetrina, c’è sempre un barbone che chiede, invidia, che reclama la sua fetta di torta.

giovedì 16 dicembre 2010

Manager del cazzo!

È una giornata bellissima, tersa, luminosa. È un po’ una fregatura perché stana la sporcizia dagli angoli di casa che l’eterno crepuscolo dei giorni scorsi nascondeva così bene. È come la fiamma dell’onestà che illumina lo sporco dell’anima. Ma, a differenza degli angoli del nostro appartamento, la mia anima, o meglio, da buon ateo dovrei dire la mia coscienza, è pulita come un A4 extra strong.
Almeno sono soddisfatto di aver mandato in tipografia la rivista-catalogo. 
Dopo oltre due mesi di lavorazione non posso che considerare che, quale che sarà il mio compenso, avrò lavorato in perdita. Ma non importa, lo si fa per restare nel giro, per far vedere che si esiste ancora. Ma a chi? Mi sembra incredibile che sia passato quasi un anno senza combinare praticamente niente. Speravo in un cambio di rotta politico che invece non c’è stato, sento tutti che dicono, compresi gli operatori di Casa Moratti (una storia che racconterò un’altra volta), che tutto è immobile in attesa di un cambio radicale, che nessun imprenditore serio osa muovere più un dito e, intanto, quelli come me muoiono lentamente, giorno per giorno, consumando quelle poche scintille di dignità ed entusiasmo rimaste. Ecco la cosa che più mi fa rabbia e paura: perdere, giorno per giorno, l’entusiasmo, la voglia di fare, la stima di me stesso.
Poi penso a questi manager con cui abbiamo lavorato per impaginare il catalogo. In teoria uno strumento per incrementare le vendite natalizie, in pratica, un inutile sperpero di denaro, perché ormai non potrà più essere stampato prima della fine dell’anno, quando i giochi sono fatti.
Eppure il tempo ci sarebbe stato eccome. È dai primi giorni di ottobre che ci lavorariamo sopra e avremmo potuto chiudere agevolmente entro la fine del mese. Perché non è stato possibile? Perché per ogni pagina sono state realizzate almeno dieci bozze con continui cambi di prodotti, di immagini, di testi, ognuno dei quali ha richiesto ogni volta almeno una settimana lavorativa affinché il mezzo manager, il grande manager e, infine, il capo dei capi, ponderassero le loro decisioni. Ognuno a delimitare l’orticello del proprio potere, ognuno a pisciare sull’alberello per difendere il proprio territorio. Ognuno che ha pensato ai cazzi suoi e nessuno che abbia pensato agli interessi dell’azienda. Magari parlerò anche per invidia, che ne so, ma questa gente non è onesta, non è corretta, non è competente, e però si porta a casa stipendi di tutto rispetto, mentre io non porto a casa un emerito niente, e questo mi fa molto incazzare.

mercoledì 15 dicembre 2010

Ipocondria

Non so cos’abbia preso a mia moglie. No, sto mentendo, invece lo so. È colpa della sua passione. Ma passione non è la parola giusta; mania? Forse. O meglio ancora, un’ipocondriaca, maniacale passione per la medicina e, in modo particolare, per le malattie.
Mia nonna, che pure ha vissuto tanto a lungo da dimenticarsene, non l’ho mai sentita parlare così frequentemente e febbrilmente di malattie proprie o altrui.
Ormai è un’appuntamento fisso della giornata. Qualunque giornata.
Un’orrida lista che si srotola di prima mattina, durante la colazione, quando inizia a parlare delle malattie o i by-pass dei vicini di casa. Naturalmente, segue il bollettino dei suoi malesseri quotidiani: mi fa male il piede, non riesco nemmeno a camminare, ho dormito male, sono rimasta sveglia dalle due alle sei, ho mal di gola, mangio ma non ingrasso, mi fa male la schiena, non ci vedo più, ho tutto il lato sinistro che non funziona bene, mi fa male un dente, devo andare a farmi vedere questo neo, mi si sono gonfiate le ghiandole sul collo, non riesco a piegare il ginocchio, mi si è gonfiata una mano, devo farmi togliere questi fastidiosi porretti, sarà più di un anno che non faccio un esame del sangue, mi gira la testa, ho avuto il raffreddore per tutta la notte, mi fa male la pancia, ho fatto troppa cacca, non riesco a fare la cacca, ho un fungo sull’unghia del mignolo, mi sono fatta male buttando la pattumiera nei cassonetti, ho sempre mal di testa, sento un’oppressione sul petto, ho la pressione alta, mi sento stanca e via di seguito. Queste e altre rarissime e misteriose malattie o sintomi sconosciuti ma tutti premonitori di terribili gravissime e incurabili malattie, si susseguono a rotazione ogni giorno dell’anno da così tanto tempo che non ricordo più se mai è esistita una volta in cui mia moglie abbia detto: “Oggi mi sento proprio bene!”.
Naturalmente, per svariate volte durante la giornata, ci sono gli aggiornamenti, ovvero le malattie che hanno colpito persone che conosciamo anche vagamente di vista.
La mamma della tal compagna di E. si è ammalata di cancro, sembrava fosse finita e invece pare che si riprenda, anche se è gonfia come un materassino. L’ex insegnante di C. ha rischiato di morire per un aneurisma o qualcosa del genere. Pensa che aveva già fatto più di una tac e altri esami e non si erano accorti di niente. L’hanno presa per i capelli. L’avevo detto che G (un nostro vicino di casa) aveva il cancro. Quando cominciano a indossare, estate e inverno, quegli insulsi berrettini da baseball significa che stanno facendo la chemio e si vergognano a farsi vedere pelati. Ma lo sai che ieri mattina si è bloccata la metro perché a uno è venuto un infarto? Pensa che la mamma di E. stava pulendo il bagno quando è scivolata e ha battuto la faccia sul rubinetto della vasca da bagno. Era una maschera di sangue, non so quanti punti hanno dovuto darle! Sì, sai, la mamma di quella bambina che è nata senza tiroide. C’è poi quell’altro bambino che ha la sclerosi e non riesce più ad andare a scuola ma è costretto a seguire le lezioni da casa con internet. Sua madre mi ha detto che non durerà ancora per molto, forse due o tre anni, ma non c’è proprio da sperare. Hai sentito M? ha avuto dei problemi. Secondo me deve esserle venuto qualcosa di brutto, perché è un bel po’ di tempo che non si fa sentire. Sai, in fondo L. è anche così, un po’ strafottente, come reazione alla morte del papà. Erano molto legati e gli è venuto un colpo all’improvviso, capirai. Ma lo sai che ho incontrato A. e si è rotto di nuovo una mano? Sì, sì, è la mamma di quella che aiuta il maestro di karate, mi sa che ha un cancro, e pensare che era una così attiva, e non avrà neanche sessant’anni. Ho sentito A., mi ha detto che al lavoro da lei se ne stanno andando come birilli, tutti di brutte malattie. Ma ti ricordi di M.? Quella che lavorava alla Rusconi? Pensa che era andata finalmente in pensione, e un giorno, mentre puliva le finestre di casa è caduta di sotto ed è morta.
Pare impossibile, ma ogni giorno accade qualcosa di veramente terribile a qualcuno. Fatti che raccontano conoscenti, amici, amici di amici, conoscenti che hanno sentito dire che quella persona che abbiamo visto di sfuggita non so quanti anni fa è stata affetta da qualcosa di quanto meno curioso.
Eppure mia moglie non ha nemmeno cinquant’anni e, malgrado tutto, è in buona salute, ma invece di spendere il suo tempo godendosi la vita, non trova di meglio da fare che spaventare se stessa con le disgrazie altrui.

martedì 14 dicembre 2010

L'umana vanità

Non ne avevo parlato fino ad oggi per una sorta di imbarazzante scaramanzia.
Io stesso mi sorprendo in atteggiamenti che non mi appartengono, ma le delusioni sono tali e tante che uno alla fine le prova tutte.
Insomma, da quando con mia moglie abbiamo rispolverato la voglia, o il bisogno di fare qualcosa di artistico e di cimentarci nuovamente con ciò che ci aveva accompagnato per tutti gli anni del liceo, in modo da aprire maggiormente il ventaglio di potenziali possibilità lavorative, non era ancora successo alcunché di eclatante. Sì, qualche pubblicazione su siti e blog sull’arte, una mostra collettiva di un paio di giorni, ma niente di concreto, nulla di economicamente rilevante.
Fino a qualche giorno fa quando, una galleria, fra le centinaia che abbiamo contattato via mail, si fa sentire per telefono. È di Torino, zona centrale, la curatrice si definisce interessata al nostro lavoro e vorrebbe vedere e toccare i nostri lavori di persona.
Cazzo! La fantasia comincia a galoppare verso mostre personali, quotazioni, richieste, e la realizzazione di un sogno: vivere grazie alla passione di fare ciò che più desideriamo. Non abbiamo grandi ambizioni, ci basterebbe fare gli artisti da “mezza classifica”, quelli quotati quel tanto che basta per vivere senza problemi, senza le rotture di scatole della notorietà. È un film, è la fantasia, e sognare, per ora, non costa nulla. Credo che ognuno covi il proprio sogno, più o meno megalomane, e credo sia giusto che ognuno continui a coltivarlo, a sperare che un giorno, prima o poi, possa avverarsi.
Soldi non ce ne sono, ma intraprendiamo comunque questa trasferta torinese carichi di tele e sculture. Non torniamo a Torino da più di vent’anni; dai tempi di una gita organizzata dal dopolavoro della rai. L’impressione è quella di una periferia degradata a ridosso del centro. Vialoni larghi, lunghi e malinconici anche nel basso sole invernale, tanti barboni che, a Milano, probabilmente siamo stati più bravi a nascondere sotto il tappeto. Mi spiazzano questi viali che si incrociano ad angolo retto, la loro larghezza, sproporzionata alle dimensioni di una città che appare caotica e allo stesso tempo cortese. Sarà la suggestione, ma sembra davvero di respirare un’aria da ancien régime. Le bottegucce di esoterismo si mischiano alle panetterie che espongono in vetrina fasci di grissini. L’impressione è che ci siano ancora tante “botteghe”, un microcosmo variegato e vivo che Milano ha ormai dimenticato, ma anche una vena di tristezza, un freddo apparente, forse per le montagne coperte di neve che incombono dagli squarci tra le case.
Suoniamo alla galleria che sta in un bel palazzo d’epoca. La curatrice è una signora sui sessanta, elegante, i capelli grigi non tinti tagliati a caschetto lungo. Ci fa accomodare e, dopo le solite cazzate per rompere il ghiaccio, cominciamo a mostrare i lavori. Comincio con una serie di stampe digitali con interventi manuali vari. È roba un po’ forte e mi rendo conto che invece di rompere il ghiaccio ho srotolato sul tavolo un vero e proprio iceberg. Riarrotolo di gran carriera, mentre mia moglie estrae le sue tele. La signora mi pare indifferente, come se non le importasse nulla di ciò che le stiamo mostrando e aspettasse invece di vedere quello a cui è davvero interessata. Infatti quando le mostriamo i robot in materiali riciclati si rianima, li dispone sul pavimento per osservarli meglio.
Dice che da anni organizzano una rassegna artistica in una località ligure e che sarebbe interessata a esporre i robot. Dato che però ci sono delle spese da affrontare (movimentazione delle opere, catalogo, manifesti, ufficio stampa, eccetera) ad ogni artista selezionato devono richiedere un contributo di trecento euro.
Eccola là, che devo dire? Che il novantanove per cento degli italiani che si reputano artisti pagano e pagherebbero qualsiasi cifra per una misera mostra? Che dovrei fare la fine dei tanti sedicenti scrittori che pubblicano le loro impareggiabili opere a proprie spese?
No, proprio non mi va di fare quello che è andato per suonare e che finisce per essere suonato. Dico che sono molto lusingato dall’offerta e che una delle opere sia stata così gradita, ma per ora ci siamo già esposti economicamente per la realizzazione dei lavori e non ce la sentiamo di esporci ulteriormente.
Sembra delusa, e meravigliata. Probabilmente sono in pochi a rifiutare la possibilià di esibire il loro narcisismo dietro il pagamento di una cifra nemmeno così esosa. Confesso che se non navigassi in acque così torbide e profonde un pensierino ce l’avrei anche fatto. Ma la ragione di fondo è che nella mia vita non ho mai comprato né il diritto al lavoro, né la possibilità di essere ciò che non sono. Tutto quello che è stato, che ho fatto, che ho guadagnato, che sono diventato, è stata una strada in salita, nessuno mi ha dato spinte, nessuno mi ha permesso di attaccarmi al suo carro, nessuno mi ha mai offerto un sorso d’acqua.
In un mondo come il nostro è da stupidi comportarsi così, lo so, ma non voglio e mai vorrò vedere il mio nome su una di quelle patetiche cartoline in cui pseudo artisti si incensano inanellando partecipazioni a mostre misconosciute e critiche da parte di insigni cialtroni.

venerdì 10 dicembre 2010

Rassegnazione o accettazione?

Non è che mi faccia piacere parlare sempre della dottoressa Kübler Ross e le cinque fasi di elaborazione del lutto e dei traumi psicologici, ma è solo per dire che mi sento più che mai nella quinta fase, ovvero quella della rassegnazione.
In effetti il termine esatto riportato su wikipedia sarebbe “accettazione”, ma sento che, per quanto mi riguarda, è molto più adatto rassegnazione.
Accettazione è una parola che non mi è mai piaciuta. Non potrò mai accettare, per esempio, la morte dei miei cari, ma rassegnarmi alla loro mancanza. Posso rassegnarmi al fatto di essere stato rovinato da un piccolo ometto presuntuoso, ma non lo accetterò mai fintanto che il mio cervello non sarà assalito da qualche malattia degenerativa che possa impedirmi di ricordarlo.
Le parole sono importanti e tra accettazione e rassegnazione passa una bella differenza. Per questo posso rassegnarmi ai rovesci della vita, ma non significa che li debba accettare.
È un po’ come accettare il fatto di arrivare sempre troppo presto o troppo tardi alle occasioni che la vita riserva. Posso rassegnarmi, ma accettare è un termine che implica un obbligo: o accetti oppure no, o mangi la minestra o salti la finestra.
Per esempio, nel 1968 ero solo in prima elementare, e quindi non ho avuto nemmeno la lontanissima percezione che il mondo stava cambiando. Quell’estate ero in colonia a Pinarella di Cervia e cantilenavo assieme ai compagni quella che sembrava una stupida filastrocca: “Lu-ce, svo-bo-da, lu-ce, svo-bo-da” senza avere la minima idea di cosa potesse significare. Anni dopo ho capito che Luce stava per Dubcek, e svoboda il cognome di Ludvik Svoboda. Era probabilmente una conseguenza della cosiddetta primavera di Praga, durata un refolo di vento; il 21 agosto i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia, schiacciando quella breve illusione di libertà.
E io cosa ne sapevo? Un emerito niente. Solo una cantilena che avrò sentito in qualche telegiornale. Troppo in anticipo sui tempi, ho vissuto nella mia bambinaggine un momento così importante.
I Beatles si sciolsero più o meno nel 1970, me li hanno scippati a otto anni mentre muovevo i primi passi nella musica "seria". Quando al liceo ho acciuffato per i capelli gli ultimi scampoli del progressive rock, già stava arrivando il punk e l’elettronica degli anni ‘80. Anche questa volta, troppo giovane per essere un hippy o un figlio dei fiori.
Potevo fare l’indiano metropolitano, o buttarmi nella sinistra extraparlamentare ma, gli anni di piombo, mi hanno sorpreso quattordicenne e, onestamente, le manifestazioni di quei tempi mi facevano cagare sotto. Preferivo prendere le cose di striscio, leccare le briciole, andare ai concerti, cazzeggiare al Macondo, ma ero troppo vigliacco, o troppo giovane, per rischiare le manganellate, o partire per l’India in cerca di non so cosa. Altra occasione in cui sono stato maledettamente in anticipo sui tempi.
Mi sono invece sentito in ritardo quando ho cominciato a lavorare in un mondo, quello della comunicazione, che, appena qualche anno prima, vedevo come un lontano miraggio. 
Non è stato facile: tanta fatica, tanta gavetta, tante umiliazioni e frustrazioni. Ma alla fine ci sono riuscito, complice un periodo squallido culturalmente, ma in cui giravano tanti soldi. Milano era la città da bere, Craxi il suo padrone e c’era una specie di frenesia, di elettricità, di eccitazione che ci faceva correre come burattini impazziti.
È durato una decina d’anni. Troppo poco per permettermi di affermare la mia personalità, per consolidare la situazione lavorativa.
Poi è arrivata tangentopoli e la crisi finanziaria, la prima guerra del golfo e le difficoltà di rimanere a galla dopo aver appena imparato a nuotare.
In questo caso non si è trattato di anticipo, ma di ritardo. Come diceva Jannacci, se me lo dicevi prima... se solo arrivavi prima...
Oggi non so se devo parlare di anticipi o ritardi, di combinazioni, di sfiga, di karma o, più semplicemente, dare dello stronzo a me stesso.
So che la rassegnazione che mi sta prendendo non è una cosa buona, non è positiva. Forse si sta trasformando in quell’altra brutta parola: accettazione.

giovedì 9 dicembre 2010

Le case che parlano

Chissà, forse è un sintomo della vecchiaia. Si torna un po’ bambini. O forse è che non sono mai cresciuto veramente, ma tutte le case che ho abitato mi hanno sempre parlato.
Quella dei miei genitori per esempio. Proprio davanti alla portafinestra della cucina, sul pavimento, c’è una grossa vite nera, inclusa come un fossile in una mattonella del pavimento. Chissà come ci è finita; forse durante la lavorazione, quarant’anni fa e, per uno strano scherzo del destino, proprio quella mattonella è finita nella nostra cucina. Ogni tanto andavo a guardarla, come una curiosità da museo o da wunderkammer, felice di ritrovarla sempre lì e domandandomi ogni volta come diavolo fosse finita proprio nella nostra mattonella. Con il passare degli anni è diventata una presenza rassicurante, un punto fermo, un’abitudine. So che c’è, che sarà sempre lì ogni volta che andrò a cercarla e questo mi rende felice.
Nel salotto invece, proprio vicino alla finestra, a ridosso della parete, c’è una mattonella del pavimento di marmo che d’inverno diventa calda. L’ho scoperto perché ci si accovacciava sempre il mio cane, che stupido non era. Può sembrare un mistero, ma più semplicemente si tratta del tubo del riscaldamento che passa proprio lì. Però è divertente far sentire ai miei figli quel calore misterioso che sale dal pavimento e vedere i loro occhi meravigliati da un fenomeno all’apparenza così inspiegabile.

domenica 5 dicembre 2010

Massima

Diffidate degli uomini piccoli, spesso sono solo dei piccoli uomini.
Vogliono sempre dimostrare ciò che nessuno ha mai chiesto loro.

giovedì 2 dicembre 2010

L'abito fa il monaco?

Comincio proprio a scocciarmi che il mio piccolo sovrappeso (novantacinque chili per un metro e ottanta non credo mi rendano un’attrazione da circo), sia diventato un argomento di conversazione come il tempo o la partita di domenica scorsa.
Ieri, per esempio, chiama con skype un vecchio collega di mia moglie, in pensione da qualche anno. È in partenza per le maldive; come si diceva una volta: “Bisogna davvero vederle prima che l’oceano se le inghiotta”. È uno a cui piace spendere in cose belle e costose: tv bang & olufsen, iphone, indumenti in cachemire. Ha un paio di maglioni che non mette più, uno di missoni e l’altro in cachemire, chiede se li vogliamo per mio figlio, “Mica per tuo marito, non ci entra di sicuro. Ma adesso quanto pesa?”.
Ma guarda un po', il solito argomento di conversazione. Non glielo dico, sono cazzi miei, io non ti chiedo quanto ce l’hai lungo o se ti tira ancora.
L’altro giorno, il direttore, che mi telefona esclusivamente durante il pranzo e la cena, mi chiede cosa sto mangiando. “Due barrette ai cereali” rispondo io. Lui si fa molto interessato, so che la moglie lo tiene a stecchetto e so anche che è uno a cui non piace ingrassare.
“Ah, quelle barrettine della kellogg’s, e come sono? Poi non ti viene fame? Ma sei dimagrito?”.
Che noia dover parlare sempre di queste cose, doversi ogni volta sottoporre a una radiografia malcelata da parte di tutti quanti, come passare attraverso dei maledetti body scanner che ti riducono ai minimi termini.
E riparlando del direttore, salta fuori che il catalogo, che all’inizio avrebbe dovuto rendere un tot di euro cash e poi invece qualche euro in più ma fatturato, oggi è calato nuovamente alla cifra cash, ma fatturata. Fra un po’ andrà a finire che dovrò pagare io.

mercoledì 1 dicembre 2010

L'alfa e l'omega

Mia moglie dice che ogni cosa deve avere il suo epilogo, la sua fine. Come la neve che cadeva questa mattina, come il mezzo toscano che fumo dopo pranzo, come i momenti belli e quelli brutti, come la nostra esistenza che viviamo da immortali perché la morte non deve apparire.
Così, dice lei, anche questa fase buia e drammatica dovrà avere il suo omega, un termine, un’inversione. E questo è certo. Tutto sta nel capire se sarà un epilogo a lieto fine, o qualcosa di ancor più drammatico, così imprevedibile da non essere nemmeno lontanamente immaginato.
Voglio credere allora che, come passerà l’inverno, anche questo immeritato purgatorio possa finire, in bene o in male, ma finire una volta per tutte.

martedì 30 novembre 2010

Il bicchiere della staffa

E così pare proprio che questa volta l'agenzia delle entrate abbia ragione.
Mi sono bastati dieci minuti, una mail alla cassa autonoma dei giornalisti e una telefonata, per capire che ciò che detraevo da anni in dichiarazione, in verità non era detraibile.
Mi domando solo come mai la commercialista non sia stata in grado di risolvere la situazione in quattro mesi e, soprattutto, come in tutti questi anni abbia continuato a sbagliare così clamorosamente.
Mi ha garantito che si farà carico di sanzioni e interessi. E volevo pure vedere.

lunedì 29 novembre 2010

Senza dignità

Lei si offre di pagare i regali di natale dei ragazzi: “Non preoccupatevi, ci penso io per i soldi, li compro io i regali di natale”.
Poi però pretende di decidere quali sono quelli adatti e quali no. Non c’è rispetto per i desideri: “Questo lo compro, è carino, ma questo è una schifezza e ha già il cassetto pieno di bambole, non ne serve certo un’altra. E poi quella barbie con l’automobile, costa cinquanta euro! Ma lascia perdere, è anche un gioco da maschio, solo per avere un’altra bambola che poi butta in un angolo dopo averle tolto tutti i vestiti!”.
Non si accontenta quindi di collaborare, di aiutare senza chiedere nulla in cambio, senza pretendere di guidare le scelte, senza per forza sostituire la volontà altrui. No, non le basta, vuole comandare, decidere il cosa e il come, ciò che è degno dei suoi soldi, dei suoi emolumenti e ciò che invece non li merita.
“Non preoccupatevi, ci sono io, vi aiuto io”. E così mi ritrovo un nuovo padrone in casa, che vuole decidere dell’aspetto e dell’utilità di ogni cosa per cui apre il borsellino, che pretende favori continui, che, come ho sempre giustamente temuto, vuole comandare, vuole sottomettere alla sua autorità, al suo potere.
Ho sempre pensato che, al contrario di mio padre, uomo di destra ma di infinità onestà, rettitudine e generosità, mia madre abbia sempre rappresentato il fascismo più degenere, vigliacco, sottile, insidioso, cattivo, moralmente corrotto. Non è l’ordine ciò che cerca, ma la sottomissione totale. La stessa che lei ha nei confronti di qualsiasi autorità, dal classico “signor dottore” rivolto al più incapace dei medici, al “signor professore” che ha sempre, a prescindere, diritto e ragione. La tranquilla prigionia di sottostare a chiunque decida al posto suo, a chiunque le dica cosa si deve e non si deve fare, il masochistico e ambiguo piacere di obbedire all’autorità, godendo per questo del diritto di soggiogare economicamente e psichicamente chiunque cada nella sua sottile e infida ragnatela.
In questo momento, oltre a non godere di alcun aiuto alla famiglia da parte dello stato che invece, attraverso l’agenzia delle entrate, continua a torturarmi con richieste assurde e meschine, né dall’associazione dei giornalisti di cui, con vergogna faccio parte, che richiede contributi pensionistici al di sopra di qualunque altra categoria, né da amici o conoscenti, scomparsi come fossi un appestato, non posso nemmeno contare sull’unico genitore e parente rimasto. Anzi è la persona da cui devo più riguardarmi.
È per questo che, sole o neve, freddo o caldo, le mie giornate si stanno trasformando in tristi processioni in cui non sono più nemmeno padrone di decidere di che colore comprare le scarpe a mia figlia.

giovedì 25 novembre 2010

Silenzio

A volte il silenzio è terribile. Stranamente, sento il ticchettio degli orologi nei silenzi improvvisi del traffico.
Sembrano quei pomeriggi infantili trascorsi in camera mia a ordinare le automobiline in file precise, disposte a quarantacinque gradi sul tappeto rasato. Lì i camion e i veicoli industriali, là le auto comuni e di fianco i veicoli di soccorso.
Ma questo è un silenzio triste, o almeno mi pare, le stanze amiche di questa casa sembrano fredde, indifferenti. Quanto vorrei sentire suonare il telefono, uno squillo che anticipi qualcosa di nuovo, qualcosa di buono.
Via via che i nostri ultimi risparmi svaniscono mi riesce sempre più difficile sorridere ai miei figli. La piccola comincia già a sentire la frenesia del natale e io mi maledico perché dovrò chiedere a mia madre dei soldi che in tutta la mia vita non avrei mai voluto avere.
Sembra una tristissima favola russa e pure questo mi fa incazzare. Ho sempre amato la battuta, il gioco, lo scherzo e invece mi ritrovo a dover scrivere queste stronzate lacrimevoli.

mercoledì 24 novembre 2010

Pensiero fisso

Ho passato tutta la giornata a modificare impaginati e proporre innumerevoli copertine per il catalogo che sto impaginando col direttore.
Non riesco a capacitarmi di come, uno come lui, pronto a scoppiare in furibonde scenate per una quisquilia, riesca trovare la pazienza per seguire questi pazzi che, prima dicono e poi disdicono.
Ogni singola pagina è stata fatta e disfatta per almeno sette, otto volte, e il bello è che tutto questo è servito a preparare il materiale da presentare al “mezzo capo”. Poi, se tutto va bene, verrà presentato al “grande capo” per l’approvazione finale.
Non c’è che dire, proprio un bel modo di lavorare.
Ma sono tempi in cui si accetta tutto, anche di rifare la stessa pagina per dieci volte. Se non altro ho l’illusione di lavorare, di muovere le mani come se niente fosse, come se tutto fosse normale.
Ma qui non c’è niente di normale. Passata quasi una settimana, posso dire che anche l’ultimo preventivo che ho presentato è sfumato come la puzza di una scoreggia. 
Del giornale dell’organizzazione umanitaria non so ancora nulla, eppure la vera opera umanitaria sarebbe quella di far lavorare qualcuno che ne ha realmente bisogno, ma tant’è, non sono un povero afgano (con tutto il rispetto che nutro per i diseredati del mondo intero), e si vede che qualche nipote o figlio del cugino, o qualche cognato, avevano più necessità di me.
Lo scoglionamento è ormai al setttimo cielo, e alterno momenti di profonda tristezza ad altri in cui una rabbia nera e profonda mi sfigura l’anima.
“Tutto questo prima o poi dovrà pur finire” continuo a ripetere a me stesso senza credere più a un pensiero che, da fisso, sta assumendo i connotati della fissazione.

lunedì 22 novembre 2010

Schizofrenia?

“Allora?”.
“Allora che?”.
“No, dico in generale, insomma le solite cose...”. 
“E che ti devo dire? Non succede niente, io mi sbatto come una trota sull’argine, ma quello che ci guadagno sono solo dei gran mal di testa. Adesso pure la mattina appena sveglio. È un mondo in cui chi non riesce a nuotare annega, nessuno che tiri un salvagente, nemmeno una camera d’aria. Altro che la solitudine dei numeri primi, questa è la solitidine del disoccupato”.
“Ma i progetti in sospeso, le promesse, i preventivi...”. 
“Ma quando mai! L’ultimo preventivo che ho fatto era così basso che mi sono pentito di averlo fatto nel momento stesso in cui ho cliccato su invio. Eppure, fino a oggi, è il silenzio. Quel catalogo che doveva essere stampato entro il 20 novembre sono ancora qui a farlo e disfarlo. Ogni settimana è quella della chiusura, e poi si passa a quella dopo come se niente fosse. Hai mai provato a ritardare una consegna anche solo di mezza giornata? Apriti cielo! 
La rivista umanitaria è andata molto probabilmente ad aiutare qualche nipote o amico di un amico. Se ci pensi è pure comica, io che ho più bisogno di aiuto che mai, inculato da una rivista umanitaria!
Anni e anni di tasse pagate fino all’ultimo centesimo, con una pressione mai inferiore al quaranta per cento, versamenti a un ordine professionale forte con i deboli e debole con i prepotenti, il commercialista che, me ne sono accorto la settimana scorsa, ha più che raddoppiato i suoi onorari nel giro di cinque anni, quando invece il lavoro veniva valutato sempre meno.
Sono stato una vacca da mungere per chiunque e oggi non esiste il minimo ammortizzatore sociale per uno come me. E poi devo sentire la solita manfrina del povero lavoratore dipendente che spesso e volentieri è invece assenteista e con tre lavori a nero.
“Però non sei corretto a parlare così, mi sembri acido e astioso verso il mondo intero, mentre il motivo di tutto ciò sei stato solo tu, tu e il tuo orgoglio, l’inflessibilità nell’accettare condizioni che oggi molti si vedono costretti loro malgrado ad ingoiare”. 
“C’è proprio bisogno che me lo ricordi? Ci penso tutti i giorni, tutto il giorno. E anche se avevo promesso di non parlare più del mafioso pelato, non riesco a non pensarci. Per esempio, perché continua a mandarmi i suoi giornali di merda? Conoscendolo bene credo lo faccia di proposito, probabilmente gode pensando che ogni volta che vedo la sua faccia idiota nell’editoriale mi accorcio la vita di qualche minuto. 
Nemmeno un anno fa, quando mi sono fotografato per il nuovo sito avevo qualche filo di bianco nella barba. Oggi è diventata quasi tutta bianca. Solo una combinazione? Può darsi, ma sono il primo a non crederci. Comincio a provare vergogna verso i miei figli, una sensazione tristissima, un padre che non sa come farà a tirare avanti nei prossimi mesi, che in un anno non è riuscito a trovare niente più che una manciata di euro. Che per il secondo natale di seguito non potrà portarli al mare nemmeno per un fine settimana, che deve contare i soldi per i regali. Patetico! Melodrammatico, ridicolo!”.
“Ma come, proprio tu, che hai sempre sputato sulle convenzioni, sui conformismi, parli come un cantante neomelodico, ma cosa pretendi?”. 
“Ma vai affanculo pure tu, và”.

venerdì 19 novembre 2010

Sogni a occhi aperti

Non m’importa se anche questo ennesimo preventivo finirà nel limbo del “sarebbe potuto essere e invece...”. 
O meglio, mi importa eccome, ma il disincanto è diventato un sentimento così forte che toglie ogni speranza e fantasia.
Ho voluto affrontare comunque questo progetto come un esercizio di stile, un banco di prova, una palestra per verificare se sono in grado di affrontare un lavoro così complesso, fatto di ideazione creativa e della sua trasposizione in annunci stampa, affissioni, brochure istituzionali fino ad arrivare ad un possibile spot.
È un’impresa complessa, che non ho mai avuto l’occasione di affrontare e, proprio per questo, voglio fortemente mettermi alla prova.
Sono due giorni che non dormo rotolandomi nel letto, provando e riprovando claim, immaginando visual nella mia lavagna mentale e ripetendo all’infinito, fin quasi a impazzire, il nome della campagna.
Questa mattina alle cinque è finalmente giunta l’illuminazione, il concetto che credo vincente o almeno di buona qualità, affiancato da due o tre alternative. Sono passato allora all’organizzazione vera e propria del lavoro: sinergie fra professionisti, tecniche di realizzazione, modalità di presentazione dei layout.
Il risultato è una faccia ridotta a uno straccio del pavimento, ma anche la convinzione che ce la potrei fare, che sono riuscito a creare un’alternativa valida alle vecchie campagne e che potrei realizzarla senza troppi problemi.
Peccato che per ora sia poco più che un sogno ad occhi aperti, ma se solo mi dessero il via so che partirei come un missile.

giovedì 18 novembre 2010

Vendere aria

Non ho fatto altro che proporre un preventivo, eppure, dopo il solito panico iniziale da salto nel vuoto - "Non riuscirò mai a gestire un lavoro così complesso e che coinvolge professionalità così diverse!" - il mio cervello si è messo a lavorare giorno e notte. È sempre così, a differenza di uno stipendiato, ché quando stacca non ci pensa più, questo è il principale difetto del freelance; non stacchi mai, nemmeno quando dormi. E non lo dico per scherzare, questa notte non ho fatto altro che sognare me stesso immerso nella ricerca del giusto concetto, dello slogan perfetto, del valutare se utilizzare fotografie, illustrazioni o la semplice grafica.
Ad ogni nuovo lavoro diventa un pensiero fisso, un tarlo costante; non esiste altro se non la tensione di raggiungere un risultato soddisfacente.
Io non so come si comportano le agenzie pubblicitarie di alto livello, anche se mi sono fatto un'idea abbastanza precisa, ma sono sicuro che le tante analisi di mercato, le infinite parole vuote che girano intorno ad un semplice concetto, le relazioni piene di numeri, statistiche e roba del genere, non sono altro che la giustificazione per chiedere tanti, tanti soldi per una semplice idea.
Ma ci pensate? Provate a dire al cliente: "Dunque, questa è l'idea che intenderemmo venderle, secondo noi potrebbe funzionare, ma non possiamo averne nessuna certezza matematica. Il suo prezzo è diecimila euro".
Perché in soldoni, il succo della questione è questo; vendiamo idee. Idee che magari sono sopraggiunte nel giro di un paio d'ore o, nel peggiore dei casi, in qualche settimana, e sempre nei momenti più inaspettati: seduti sul cesso, mentre guardiamo un film, nel dormiveglia prima di cadere addormentati, mentre compriamo il giornale o ci stiamo tagliando le unghie. Il resto è poca cosa, qualche esecutivo che non richiede capacità particolari, qualche riga di presentazione, tanto fumo fatto di vuote parole in inglese, ricerche di mercato inutili, statistiche che lasciano il tempo che trovano, segretarie con le cosce in mostra, sale riunioni elegantemente minimal, bei vestiti fatti a mano e quella finta, ipocrita aria da creativo svagato che, sotto la giacca di Armani, si è messo la prima t-shirt che gli è capitata sotto mano acquistata a Londra, Tokio o New York e il solito Rolex submariner in bella mostra.
Chi pagherebbe volentieri diecimila euro per un'idea che mi è venuta mentre leggevo topolino al gabinetto, o dieci minuti prima di addormentarmi, mentre mi rotolo nel letto e mi gratto i coglioni?

martedì 16 novembre 2010

Ha da passà 'a nuttata...

Sono solo 84 pagine, ma di sicuro le più lunghe della mia carriera. Ogni settimana pare sia quella buona per chiudere il catalogo poi, tra un cambio di foto, un taglio di pagine e rifacimenti vari, passano le settimane.
È lo scotto da pagare quando il lavoro viaggia attraverso troppi intermediari prima di arrivare a me, che sono l'ultima ruota del carro.
Tempo fa, quando il committente non capiva i motivi per cui una pagina era fatta come era fatta, mi incazzavo e combattevo su ogni colore, ogni taglio fotografico e ogni neretto. Mi seccavo la bocca a forza di discutere, di spiegare il perché e il per come, di giustificare ogni singola scelta. Oggi piego la testa e accetto di peggiorare il lavoro secondo le richieste di chiunque stia sopra di me. Quello che conta è sbarcare il lunario, incassare i soldi (se va bene fra tre mesi) e cercare di non complicarsi la vita.
Probabilmente questa sarà (forse) la settimana buona per finire questa tela di Penelope che, a forza di fare e disfare, ha più rattoppi che stoffa, ma non importa, quello che conta è che il cliente sia felice e l'editore soddisfatto.
Nel frattempo ho ricevuto l'ennesima richiesta di preventivo, ma visto che tutte le altre volte che ne ho parlato, tutto si è risolto in una bolla di sapone, questa volta, per scaramanzia, non voglio dire nulla.

lunedì 15 novembre 2010

Il grande fratello

C’è qualcosa che non va. Mi sento controllato. Come un respiro sul collo che mi fa voltare all’improvviso senza scorgere niente più che un’impressione.
Naturalmente parlo in senso metaforico, ma è come quando si sentono degli occhi puntati alla schiena. Di solito ci si azzecca.
Eppure non ho niente da nascondere, anzi, ormai la mia vita è in piazza da quasi un anno e ho il sospetto che ne siano al corrente tutti quelli che mi conoscono anche solo di vista. Forse è la deformazione da film di fantascienza. Sapete, il grande complotto, gli alieni tra noi, i servizi segreti, dio, o chissà chi altro.
Forse lo strumento che pensavo servisse a cambiare la situazione lavorativa, a divulgare al mondo capacità ed esperienza, mi si è rivoltato contro. Forse ci siamo abbandonati voluttuosamente e impazientemente fra le braccia di un grande fratello malvagio senza rendercene conto.
Una manciata di anni fa, il massimo dell’apertura al mondo di una famiglia media come la mia, era rappresentata dal telefono. E, tra l’altro, era uno strumento che incuteva pure una certa soggezione. Esisteva un galateo per l’intrusione nelle vite altrui; non si telefonava mai dopo le otto di sera, e nemmeno la mattina prima delle nove, e tanto meno durante l’ora di pranzo o cena. Se il telefono squillava, per esempio, verso le nove o dieci di sera, quasi sempre era una cattiva notizia. Qualche parente a cui era preso un accidente, lo zio emigrante che non si vedeva da vent’anni che era morto all’improvviso, la vecchia sorella della nonna che era stata ricoverata in ospedale.
Per le occasioni importanti c’era il telegramma, con il suo personale vocabolario dal quale dedurre se chi l’aveva spedito era un avaraccio o non badava a spese.
Ora il cellulare squilla nei momenti meno opportuni, così come il telefono; la casella mail è sempre piena di messaggi di chi vuole vendere il viagra indiano o pretende di allungare l’uccello con macchinette meravigliose che sembrano strumenti della santa inquisizione, o promette vincite milionarie in casinò virtuali.
Però se dovessi dire quali sono state le invenzioni che hanno caratterizzato l’epoca moderna, non avrei dubbi: il cellulare e internet. Il fatto è che probabilmente siamo ancora dei pionieri e, come i medici ottocenteschi consigliavano di fumare o ingurgitare bevande alla cocaina per mantenerci in buona salute, così anche noi forse ne facciamo un uso primitivo e sbagliato di queste invenzioni.
Ma che cazzo sto dicendo? Sarà il fatto di aver quasi prosciugato i risparmi e sentito il direttore che ha già messo le mani avanti riguardo il pagamento del catalogo (sai c’è l’anticipo delle tasse...) che mi fa delirare.

venerdì 12 novembre 2010

Il direttore

Il direttore sa come tenermi sotto pressione. D’altronde è il suo mestiere ottenere il massimo dalle persone. Peccato per gli orari, che sono quanto di più eterogeneo. Dalla mattina alle 8.30 alla sera alle 20 e oltre.
Confesso di fare una certa fatica a tenere il ritmo di questo sessantenne, ma finalmente sento di essere meno inutile di quanto non lo sia stato in questi ultimi mesi.
Peccato solo che quando finirà questo lavoro mi ritroverò punto e a capo.

mercoledì 10 novembre 2010

Scelte o destino?

Essendo nella quinta fase - quella dell’accettazione mista a depressione - delle cinque teorizzate dalla psichiatra Elisabeth Kübler Ross, mi trovo a ripensare, più spesso di quanto abbia mai fatto, a quali sono state le scelte, il destino, il karma, che mi hanno trascinato in questo indefinibile periodo della vita.
La prima considerazione è stata che, se non avessi deciso di intraprendere una “carriera solista”, questo momento non si sarebbe mai presentato.
Durante il liceo immaginavo il mio futuro immerso in una nebbia densa, dalla quale, affioranti in pozze di luce gialla, comparivano ora un lavoro in un’agenzia pubblicitaria, talvolta un’altro come fotografo, illustratore o roba simile.
La passione era forte, più di ogni altra, ma, contemporaneamente, povera di mezzi. Non potevo permettermi colori di qualità, materiale fotografico e tantomeno grafico. Mi arrangiavo come potevo, fra regali di natale, compleanno e molta inventiva.
Ma inventiva e buona volontà non sempre bastano. Puoi provare a piantare un chiodo con una scarpa, ma col martello è infinitamente meglio.
In verità è sempre mancato l’incoraggiamento, non solo economico, da parte dei miei, forse perché la mia scelta scolastica, fortemente voluta, non è stata omogenea alle loro ambizioni.
Inutile dire che la mia risposta negativa alla semplice domanda formulata una sola volta: “Vuoi continuare a studiare o ne hai abbastanza?” fatta a diploma ancora caldo, mi ha subito catapultato alla ricerca di un lavoro.
Col senno di poi, avrei potuto approfittarne per trascorrere qualche anno di cazzeggio, fingendo di frequentare qualche facoltà di cui nemmeno conoscevo l’esistenza. Mi sarebbe piaciuto provare con l’Accademia di Belle Arti di Brera ma, mea culpa, ero totalmente ignorante riguardo alle strade che avrei potuto intraprendere dopo il diploma, e il mio interesse era totalmente concentrato sulla mia ragazza e le passioni artistiche. 

Credo che questo sia il primo punto di svolta della mia vita, la prima vera pietra angolare. Una scelta condotta in piena solitudine che mi ha fatto imboccare, fra le le strade che si aprivano, quella in apparenza più facile. Forse.

Così, con un portfolio costituito da semplici esercizi di stile autoprodotti, cominciai a girare per agenzie e inviare curriculum. Il ritornello era sempre il medesimo: “Hai passione, sembri volenteroso, ma sei giovane, non hai l’esperienza che ci serve”. Ho collezionato così tante risposte simili da deprimermi sempre più e comportarmi come quei pazzi che vedono cospirazioni aliene dietro ogni angolo. In breve tempo giunsi alla resa incondizionata, accettando un colloquio nella multinazionale in cui lavorava mia madre, forte del fatto che fosse prassi comune assumere i figli dei dipendenti prossimi alla pensione. Feci un colloquio con una psicologa aziendale e giuro che ce la misi tutta, ma finì in niente. Non credo di essere risultato adatto al lavoro di squadra, e nemmeno all’obbedienza incondizionata.

Il secondo punto di svolta della mia vita.

Poi venne il giorno in cui una piccolissima agenzia si interessò a me. Specialmente per via del periodo passato a fare da assistente fotografo alla Fiera di Milano e quei pochi mesi di corso serale di fotografia al Cesare Correnti.
Cercavano un ragazzo che si occupasse della camera oscura e, a tempo perso, imparasse un po’ di grafica. Niente assunzione, solo un part time a ritenuta d’acconto. Manco a dirlo, durò poco: forse un paio d’anni, l'agenzia fallì  e mi ritrovai a spasso.
Ricomincio la ricerca e tornano le delusioni. Trovo lavoro in un’altra agenzia, ancora più miserrima, guidata da un ex alpino come fosse una caserma. Dopo un anno, poco prima di natale, oso chiedere un piccolo aumento. L’alpino risponde testualmente: “Ma quale aumento? Non lo sai che tanto dall’anno prossimo non lavori più?”.
Ho preso il mio assegno non sapendo nemmeno cosa rispondere e me ne sono andato. Non sono più tornato, ho denunciato l’alpino che, dal canto suo, per onorare l’arma a cui era tanto affezionato, mi ha accusato di furto. Ha perso, ma ho perso anch’io, ricominciando di nuovo da zero.
Altra piccolissima struttura. Si occupano di carte geografiche. La sede è ricavata in un angolo di un parcheggio interrato. Il cesso è disgustoso, ogni volta che un’auto entra o esce dal parcheggio tremano i vetri e l’odore è insopportabile, non c’è luce. Non resisto, non ce la faccio proprio a rimanere in questa tana di topi, non sopporto l’odore di ammoniaca delle cianografiche, me ne vado di mia spontanea iniziativa.
Nel frattempo mia madre incontra in ascensore il titolare di un’agenzia che lavora per la sua azienda. La scambia per una dirigente e, quando lei chiede se cercano un giovane grafico, lui dice di sì. Mi ritrovo in un ambiente discretamente pulito tranne che per la coscienza dei dipendenti. Non so perché, fanno di tutto per ostacolarmi, mi nascondono informazioni importanti, mi rendono la vita impossibile. Un giorno cado in moto sulla tangenziale. Mi ustiono un braccio, un avambraccio, il culo e l’osso del gomito mi spunta dalla pelle consumata dall’asfalto. Quando mi ripresento al lavoro mi dicono che non possono più continuare a pagarmi lo stipendio consueto. Sono disposti a tenermi, ma con una consistente riduzione. Li mando affanculo e quando esco mi sento più leggero e felice di quando ero entrato.
Torno di nuovo in pista. Capito per caso in una storica casa editrice di Milano. Una signora distinta mi propone di fare dei disegni tecnici per libri scolastici e non. È una cosa che mi prende di sorpresa, ma è un lavoro e decido di tentare. Mi si apre un nuovo orizzonte e, anche se non smetto di propormi come grafico e illustratore, comincio di nuovo a portare a casa un po’ di soldi. Allargo il giro ad altre case editrici scolastiche. Vado a ritirare il lavoro, lo faccio a casa e lo riporto. Non mi dispiace e amo dire che la scelta di lavorare come libero professionista non è stata una scelta vera e propria, ma un concatenarsi di coincidenze, un seguire un sentiero obbligato.

Questa è sicuramente la terza pietra angolare.

Lavoro per diverse case editrici scolastiche e altri piccoli clienti che ho facilmente incontrato da quando faccio il battitore libero. Uno di questi è fra i primi ad introdurre i sistemi macintosh nell’editoria e ci lavora mia moglie. Ogni tanto provo a sperimentare il computer e i primi rudimentali programmi di disegno. Li trovo comodi e molto più veloci dei rapidograph e delle squadre. Decido di fare il grande salto e compro il mio primo mac.

Quarta svolta, forse la più importante.

Dai disegni tecnici all’impaginazione il passo è breve, i programmi sono ancora piuttosto semplici da imparare e, in breve tempo, quasi tutti gli editori si convertono al digitale. Sono tempi fruttuosi, c’è molto lavoro, mi specializzo nell’impaginazione e nella progettazione editoriale. Col tempo il lavoro aumenta anche se il parco clienti funziona come una fisarmonica, contraendosi ed espandendosi ritmicamente, ma senza mai fermarsi. Dalla ritenuta d’acconto passo alla partita iva. Ormai ho abbandonato l’idea del posto fisso e, soprattutto, il campo delle agenzie pubblicitarie che, tra l’altro, sono piene di gente presuntuosa e molto distante da ciò che sono io. L’editoria è tutt’altra cosa, più alla mano, meno pretenziosa e permette di esprimere maggiormente la creatività del singolo, del battitore libero, come io mi sono sempre sentito.
È un modo di lavorare che concilia la mia indole solitaria, il mio carattere non facilissimo. Sono soddisfatto, guadagno ciò che basta per vivere come mi va. Non c’è sicurezza, d’accordo, ma sono andato avanti così per oltre vent’anni.
Poi è successo quello che è successo. Un cliente ha preso il sopravvento su tutti gli altri, ha monopolizzato il mio tempo, mi ha fatto guadagnare, è vero, ma è anche vero che al primo intoppo mi ha scaricato come i camper scaricano i loro wc chimici per strada.

Ecco quindi la quinta pietra angolare, credo la più importante di tutte, quella che mi costringerà, forse, a cambiare nuovamente vita. La più pesante da trasportare. E il problema è che non so dove portarla.

Adesso mi domando: ho sbagliato qualcosa in tutto questo? È stato tutto frutto di decisioni ponderate o, fin troppo spesso, delle circostanze, della combinazione, del karma o del destino? E se davvero le mie azioni non riescono a influenzare il corso della mia vita, cosa mi riserverà il domani?

martedì 9 novembre 2010

Lacrime

Non sono uno dalla lacrima facile. Non sono riuscito a piangere quando morì mio padre, né mia nonna, né per il dolore di una colica renale.
Ma ogni volta che penso a questa situazione di merda e al futuro dei miei figli, mi si riempiono gli occhi di lacrime. E una persona di quasi cinquant'anni non dovrebbe piangere per queste cose.

lunedì 8 novembre 2010

Piove, governo ladro!

Tuoni e fulmini a novembre sono qualcosa di imprevedibile e destabilizzante come un'eclissi di sole.
Spesso mi domando se chi è stato protagonista, volente oppure no, di cambiamenti epocali, ne abbia avuto coscienza.
Perché, alla faccia dei reazionari che le definiscono tutte cazzate, il tempo è cambiato, davvero.
Non è un discorso da ascensore, nel quale ci si lamenta cha non ci sono più le mezze stagioni (vero), ormai credo sia sotto gli occhi di tutti.
Non sarà così evidente come un conflitto mondiale, o una rivoluzione di popolo, ma forse le conseguenze saranno anche peggiori.
Non sono un fanatico dell'ambiente, non chiudo l'acqua quando mi lavo i denti, sotto la doccia ci sto quanto mi pare e ogni volta che uso il water scarico le cascate del niagara.
Ma qualcosa di vero in questa storia del riscaldamento globale deve esserci.
Alle elementari mi ci accompagnava mia nonna - come del resto è stata lei ad accompagnare quasi tutta la mia infanzia - estate e inverno, col caldo e col freddo. E noi bambini, almeno fino alle medie, si andava sempre in giro coi calzoni corti. Certe mattine d'inverno, quando i marciapiedi erano bianchi di brina e l'erba ghiacciata ché si spezzava quando ci si camminava sopra, me le ricordo eccome.
Una mattina ho visto un gatto acciambellato appena giù dal marciapiede. La testa appoggiata sulle zampe, gli occhi chiusi, sembrava dormire. Non so perché l'ho voluto toccare con un piede, è scivolato via con un rumore di minestrone surgelato che gratta sull'asfalto, senza che un solo pelo cambiasse posizione. Pareva un dischetto da hockey che scivolava sulla strada ghiacciata.
Non c'era anno che d'inverno non nevicasse, non c'era anno che insieme agli amici, non ci si lanciasse per la discesa del garage condominiale seduti sui sacchi dell'immondizia vuoti che scivolavano che era un piacere.
A carnevale faceva sempre così freddo che era impossibile uscire vestiti da indiani, zorro o cow-boy senza sopra il cappotto. Era una cosa che mi mandava in bestia e mandava in bestia anche mia nonna che doveva allacciarmi ripetutamente il cappotto che io slacciavo di continuo per mostrare il costume.
Oggi il maglione di lana lo mette solo chi ne vuole fare sfoggio, i miei sono sul ripiano più alto dell'armadio da anni, in attesa della prossima era glaciale.
Certo che se comincio coi discorsi sul tempo significa che sto invecchiando davvero. Almeno mi consolo urlando senza tema di essere smentito: "piove, governo ladro!".

venerdì 5 novembre 2010

Se, se, se...

All’inizio degli anni sessanta, i miei comprarono casa qui, dove finisce Milano e comincia Sesto San Giovanni. Una terra di nessuno, un quartiere appena nato, solo la strada asfaltata; per i marciapiedi aspettammo un bel pezzo.
Dopo qualche anno arrivò anche una chiesa nuova di zecca, con auditorium, bar, campetto di calcio e tutti gli annessi e connessi del caso. Una di quelle chiese modernamente anni settanta, dalle forme strambe, tutte cemento e vetri colorati. 
Dietro l’altare, il mosaico in pietre bianche e nere di un enorme cristo col dito alzato e un fare vagamente minaccioso capace, ancora oggi, di risvegliare i ricordi della mia infanzia.
Le scuole elementari le ultimarono esattamente nel momento in cui cominciai la prima, e le medie appena finito il quinquennio.
Eravamo uno dei pochi quartieri di periferia ad avere anche un cinema, un bel cinema, con galleria e platea. Oggi ridotto a chiesa di una qualche intransigente religione filocristiana che tanto piace a chi viene da lontano.
Per comprare casa i miei si indebitarono con un mutuo di vent’anni e si portarono in casa mia nonna materna che contribuì per quel poco che poteva in cambio di un terzo della casa a suo nome. Diceva che era la sua assicurazione per non finire in qualche ospizio quando sarebbe diventata troppo vecchia. E vecchia lo diventò davvero; morì a novantasei anni dopo essere andata a fare la spesa da sola fin oltre i novanta.
Quando ci fu l’occasione di comprare un monolocale nello stesso pianerottolo, mia madre ci buttò dentro tutta la sua liquidazione d’impiegata e un altro po’ di cambiali. Io feci quello che poteva fare un ragazzo di diciannove anni: imbiancare, sistemare, restaurare, tappezzare, installare. Fu ciò che feci nell’anno che trascorse tra il mio diploma al liceo e i primi lavori seri. Un anno sabbatico passato a fare il muratore invece che a girare l’Europa in treno come i miei coetanei.
L’ultimo grande sacrificio in ordine di tempo è stato l’acquisto del terzo appartamento del pianerottolo. Due locali comprati a peso d’oro da una coppia di giovani stronzi che, nel giro di qualche anno, si sono ritrovati eredi da nonni e genitori di vari appartamenti e case di campagna.
Ci abbiamo buttato dentro tutto ciò che mio padre, commesso viaggiatore, ci aveva lasciato - una misera liquidazione - tutti i nostri risparmi e quelli di mia madre.
Come un vecchio emigrante ottocentesco ho pensato che così avremmo avuto a disposizione tre appartamenti da due locali disposti nello stesso pianerottolo dove, in futuro, avrei potuto sistemare i due figli e noi, vecchi genitori.
Mi rendo conto che è un un conto della serva e che forse i miei figli preferiranno andarsene chissà dove, magari il più lontano possibile dai genitori. Forse avrei potuto investire diversamente i pochi risparmi, magari se la situazione non cambia sarò costretto a vendere a pezzi la mia vita, forse, se mia nonna avesse avuto le ruote, poteva essere un tram...

giovedì 4 novembre 2010

Senza parole

Non so cosa dire. Come François Truffaut, che ho visto in un’intervista su Rai Storia, unico canale vedibile nella "generosa offerta" della tv digitale.
Truffaut diceva che, non avendo avuto un’istruzione classica, non amava molto parlare in pubblico delle sue idee perché, per esempio, quelli che gli potevano sembrare una brillante intuizione, o un importante concetto filosofico, probabilmente erano già stati esposti da qualche pensatore greco duemila anni prima o, in tempi più recenti, da qualche altro erudito moderno.
Questa affermazione già lo pone, almeno secondo me, su di un piano superiore alla maggior parte dell’umanità e me lo fa sentire così affine.
No, non oserei mai immaginarmi accanto a un maestro al quale tutti dovrebbero solo inchinarsi, ma lo sento affine per il suo atteggiamento verso la cultura cosiddetta alta. 
Anch’io non ho avuto un’educazione classica e non so se rammaricarmene, non so cosa sia un complemento oggetto, non ho idea di come fare un’analisi grammaticale, ma penso che le idee siano qualcosa di universale, un patrimonio comune, analisi grammaticale o meno.
Malgrado tutto ho espresso molte idee, forse troppe, magari banali, spesso inutili. Forse ho fatto male, oggi è meglio lasciar perdere, come è possibile combattere una cialtroneria così diffusa e imperante? 
Non vado più alle riunioni di condominio per non dover ascoltare le castronerie di quattro bifolchi atteggiati, e nemmeno alle assemblee di classe, nelle quali sembra che i genitori facciano a gara per apparire più stupidi dei figli. 
Sono stufo di inseguire la merda del diavolo solo per poter dare una vita decente ai miei figli, stufo di vedere un paese ridotto così, preoccupato per quale vita si prospetterà alle prossime generazioni.
Davvero non so più cosa dire.

mercoledì 3 novembre 2010

Penelope's style

Non è facile lavorare con l’ex direttore. Telefona a qualsiasi ora, ieri sera alle otto e trenta, non numera mai progressivamente gli impaginati, sposta gli elementi grafici, cambia le foto senza allegare quelle nuove, spesso si perde il materiale che gli invio con skype. Ma è sempre un piacere relazionarsi con lui. Dopo i rari scatti d’ira è capace di ridere e scherzare come niente fosse, di scambiare quattro chiacchiere sul tempo o sulle ultime imprese di quello che lui chiama “il berlusca”.
Ciò che fino ad ora non ho ben capito è se questo fare e disfare penelope’s style sia colpa del cliente o sua. In effetti non è molto importante. Non quanto portarsi a casa questo lavoro e relativi soldi.

martedì 2 novembre 2010

Lo specchio del tempo

E, la piccola, dice che halloween è la sua festa preferita, naturalmente dopo natale e il compleanno. 
È sempre stata una festaiola, per lei qualunque occasione è buona per fare baldoria, in special modo quando si tratta di feste liberatorie, pagane, trasgressive. Una cosa che, non posso negarlo, spesso mi provoca qualche pensiero destabilizzante.
L’anno scorso eravamo tutti malati e quindi halloween è andato a farsi benedire; niente zucca intagliata, niente ragnatele, nemmeno dolcetto o scherzetto dalla nonna, che abita nello stesso pianerottolo.
Quest’anno però doveva essere festeggiato come si deve, tanto più che mi trovo oggettivamente in sintonia col lato funereo della festa. 
Chissà perché il travestimento che mi è riuscito più facile non è stato da assassino, da mostro o da qualcosa di demenziale come un tubetto di dentifricio, ma da barbone. Intendiamoci però, un barbone con tutti i sacri crismi e cioè con i vestiti di una settimana, pieni di macchie di cioccolato, olio eccetera, i capelli sporchi e i pantaloni tenuti su con un bel pezzo di corda. A completare il tutto, un vecchio tascapane comprato a San Michele al Tagliamento quando ero piccolo, con all’interno la mia inseparabile bottiglia di pampero, una sciarpa vinaccia che ha visto tempi migliori, un paio di infradito lerce e puzzolenti e un vecchio berrettino militare dell’ex cecoslovacchia. Un po’ di trucco sotto gli occhi, sulle guance e il naso ha dato quel tocco di couperose che non può mancare. 
Il risultato finale è stato scioccante, come se lo specchio fosse una macchina del tempo che mostrava un futuro forse possibile, o forse no, ma di un realismo impressionante. L’ho presa sul ridere, che altro avrei potuto fare? 
Durante la cena, mi sono immedesimato in uno di quei barboni che la milano bene ama tanto invitare per una cena a natale o capodanno e che poi fa scomparire sotto il tappeto dell’ipocrisia per il resto dell’anno. Ho ruttato, ho mangiato con le mani, chiesto da fumare e toccato il culo a quella bella signora di mia moglie. In effetti è stato liberatorio, come togliersi la pelle morta dopo una scottatura al mare, la libertà di fregarsene degli altri, di comportarmi come mi pare. Ma è solo uno scherzo, una cosa divertente che ha divertito sia E che C, e anche mia moglie, che si è fatta palpeggiare fingendo imbarazzo. Divertente, ma solo per un giorno all’anno, come si diceva nei film di Alberto Sordi: “così tanto per divertire i piccoli!”.
Almeno spero.

venerdì 29 ottobre 2010

Senza titolo

E con oggi finisce anche quel misero part-time di mia moglie. Un mese di prova (a maggio), per cinque mesi di lavoro e tremila euro netti, che non hanno coperto nemmeno un terzo delle spese vive che abbiamo sostenuto durante questo periodo.
Il catalogo-rivista a cui sto lavorando con l'ex direttore assomiglia sempre più alla tela di Penelope: il giorno dopo si disfa quello che si è fatto il giorno prima, senza capire quando, e se finirà mai questo lavoro.
La rivistina per i commercialisti siciliani per cui avevo preparato un preventivo al limite della vergogna (450 euro per il progetto della testata e quello grafico e 10 euro a pagina per la realizzazione), sembra sfumata. È subentrata la solita tipografia con grafica incorporata. Avevo già parlato male dei tipografi, ma a quanto pare non è mai sufficiente.
Del giornale dell'associazione umanitaria non si sa ancora niente, ma perché essere ottimisti quando si ha la certezza che le cose andranno male comunque?
Eccoci quindi in pieno limbo, una punizione che dura ormai da quasi un anno, che ha prosciugato le nostre scarse risorse, che mi ha fatto perdere più capelli di quanti non ne abbia mai persi, che ci rende schiavi dell'aiuto economico di mia madre che, naturalmente, impone i suoi ricatti.
E il prossimo che mi dice di andare all'estero giuro che lo mando affanculo.

giovedì 28 ottobre 2010

Ancora Serpenti

Ho sognato di nuovo serpenti. Serpenti e vecchi compagni di liceo. Accostamento troppo facile. In passato, e anche in tempi più recenti, ho sempre considerato gli ex compagni degli esseri infidi se non degli emeriti bastardi, ma credevo anche di essere ormai vaccinato e infatti non ci ho mai pensato più di tanto.
Ciò che mi disturba in questo sogno è la banalità del mio inconscio. Davvero si limita ad associazioni così semplici? Mi sento tradito e deluso da persone che non vedo da trent'anni ed ecco che l'inconscio me li serve con contorno di serpenti? Tutto qui? Questo è il massimo che riesco a produrre? Abbastanza vergognoso per uno che immodestamente si definisce creativo ogni cinque minuti.
Allora la morale potrebbe essere che di creativo ci sia rimasto ben poco, oppure che, sotto sotto, la cosa non è così semplice come me la figuro.
L'unico fatto che non mi convince sono proprio i serpenti: i primi ad entrare dalla portafinestra del balcone erano snelli e di un bel colore bruno brillante, quasi aragosta. Sapevo che erano velenosi e quindi la mia preoccupazione è stata subito per i ragazzi. Li ributto giù dal balcone senza difficoltà, schifo o ribrezzo, ma voglio capire da dove arrivano e perché.
Salta fuori che forse è colpa dei giardinieri che hanno rivoltato la terra e sradicato un paio di alberi (cosa vera) dal giardino condominiale, e quindi, stanato involontariamente qualche nido di serpenti che, guarda caso, si sono rifugiati su un grosso albero tropicale come quelli che si vedono nei documentari alla tv.
Alzando lo sguardo vedo che tutti i rami sono letteralmente ricoperti e decorati di serpenti, come un albero di natale vivente. Sono di tutti i colori e le fantasie immaginabili, di ogni forma e dimensione. Alcuni grossi come boa, altri ricordano le lumache marine della Liguria e altri ancora non sono più grandi di un lombrico.
I compagni di liceo erano per strada, che aspettavano di andare non so dove e non so per quale motivo. Ma credo che in fondo fossero solo qualcosa di ornamentale, un surplus piazzato lì da un inconscio megalomane.
Poi, come sempre accade nei sogni, mi sveglio senza che la storia si concluda in qualche modo, razionale o irrazionale.
L'altra volta, era agosto, mi ero consolato con l'interpretazione che Jung dava rispetto al sognare serpenti e cioè un conflitto fra coscienza e istinti con la contemporanea presenza di energia vitale, legata a situazioni di disagio e insicurezza. Non c'è che dire, la fotografia rappresenta perfettamente il brutto periodo che sto vivendo e che, per ora, non vede sbocchi sufficientemente consolatori. Ma allora il nostro cervello, oltre ad essere una macchina meravigliosa, è anche, in una certa misura, così prevedibile nelle sue reazioni? Davvero chi vive situazioni di incertezza sogna le stesse cose? Davvero è tutto frutto di semplici reazioni chimiche? Davvero non abbiamo altra scelta se non essere e fare ciò che una semplice sostanza chimica impone?

martedì 26 ottobre 2010

Le regole di Walker

Che noia! Non capisco più questo modo di lavorare. Se dovessi credere al timone che ha preparato l'ex direttore, dovremmo chiudere il catalogo-rivista entro venerdì, ma rimangono ancora da impaginare almeno trenta pagine delle ottantadue totali.
Il fatto è che lavoro a singhiozzo. Un giorno mi martella dalla mattina alla sera alle otto, poi sparisce per un paio di giorni e, ogni volta che lo risento, ho il terrore di scoprire che il lavoro è saltato, oppure è da impaginare nuovamente perché il cliente ha cambiato idea.
Nel frattempo ho ricevuto una richiesta di preventivo per una rivistina di commercialisti siciliani, in cui mi chiedono a priori di essere trattati superbene perché letteralmente poverissimi. Mentre io invece sono qui che navigo nell'oro. Ma, come diceva non so chi in un episodio di Walker Texas Ranger, due sono le regole: mai farti vedere sanguinante, e l'altra non la ricordo.

lunedì 25 ottobre 2010

La roba

Gli oggetti, qualunque oggetto, ci sopravviveranno. Vecchi pettini di plastica, accendini bic, la scatola di sigari vuota, le scarpe invernali, quelle che abbiamo messo solo tre o quattro volte, lo stupido portachiavi in omaggio nella scatola di cereali, la penna della prima comunione col refill scarico.
Ognuno di questi insulsi oggetti ha un'aspettativa di vita di gran lunga superiore a quella della nostra fragilissima esistenza. Al massimo possiamo competere coi sacchetti biodegradabili, ma non è detto. Anche una misera scatola di fiammiferi dimenticata in un cassetto può ottimisticamente vantare un'aspettativa di vita maggiore della nostra.
Quel semplice sasso che usiamo come fermacarte esiste da qualche milione di anni e, dopo la nostra morte, aspetterà paziente per qualche altro milione di anni prima di trasformarsi in polvere.
Eppure viviamo come se fossimo immortali. La morte non esiste; al massimo è permessa quella violenta, ma la società dei consumi non contempla la vecchiaia e, tanto meno la morte naturale. Così continuamo ad accumulare robaccia che, come unico pregio, ha la possibilità di biodegradarsi dopo centinaia o migliaia di anni, quando noi saremo polvere da tempo. Ecco la nostra traccia nel mondo: una scia di pattumiera che erediteranno i figli e i figli dei nostri figli. Ciarpame che verrà buttato in discarica, roba che dopo di noi non avrà alcun motivo di esistere, oggetti dozzinali di cui nessuno saprà che farsene.
Domenica ho riordinato un paio di miseri cassetti che però contenevano una quantità di paccottiglia inutile che si accumula anche quando non vogliamo. Vecchi portachiavi, pezzi di ricambio inutilizzati, cavi elettrici che non buttiamo perché non si sa mai, un giorno o l'altro potrebbero tornare utili, ma non è vero. Più butto roba e più sembra formarsene di nuova. Esce da ogni anfratto, da ogni cassetto, da ogni mensola. Oggettini pacchiani che hanno il solo pregio di non distruggersi mai, di non consumarsi mai, che mi guardano ridacchiando e prendendomi per il culo. Mi pare di sentire le loro vocine querule: "Tanto quando tu sarai morto e sepolto noi saremo ancora qui, e saremo qui quando i tuoi figli e i figli dei tuoi figli saranno polvere".
Per questo vi getto via, bastardi, vi distruggo, vi riciclo.
Un tempo gli antichi portavano nella tomba ciò che possedevano di più prezioso: la spada, i gioielli, tutt'al più qualche oggetto di uso quotidiano. Oggi nella tomba cosa ci potremmo mai portare di davvero prezioso e utile? Il cellulare? Il blackberry, senza il quale molti sembrano non poter vivere? Il computer? L'iPod?, L'automobile? No, niente di davvero utile, niente di prezioso, niente di unico. Solo cose, identiche a quelle che hanno milioni di altre persone. La roba, come diceva Verga, niente di più.

venerdì 22 ottobre 2010

Gli ultimi sassolini

Se proprio dobbiamo toglierci tutti i sassolini dalle scarpe, allora togliamoli una volta per tutte, e poi non ne discutiamo più.
Del mafioso pelato ne ho già parlato tanto, troppo rispetto a ciò che vale, e cioè meno che niente.
Uno nato a Caltagirone da genitori profondamente meridionali che, avendo trascorso alcuni anni dell’infanzia in Toscana, rinnega le proprie origini, anzi, se ne vergogna ed esce con frasi come: “È un’idea che è venuta dalla mia Toscana”, mentre sorride come un ebete e gli occhi si fanno falsamente lucidi, che uomo è?
Uno che, in occasione delle premiazioni organizzate dalla sua miserabile azienda, si veste come se dovesse prendere la cresima, sempre con lo stesso completino gessato da mafioso di periferia e che, per di più, sale sul palco per mostrarsi, per fame di notorietà, per atteggiarsi a manager di successo, che uomo è?
Uno che insiste nel dire, malgrado gli si attorcigli immancabilmente la lingua e ne esca un qualcosa di comicamente irresistibile: “croisette”, tanto per far vedere che il Festival della Pubblicità di Cannes è il suo pane quotidiano, che uomo è?
Ma non è di lui che voglio parlare. Troppo facile dire che uno scarafaggio vive nella sporcizia e nei rifiuti, che un pidocchio succhia sangue a sbafo, che un insetto stercorario colleziona palline della merda altrui, o che la tenia sopravvive a spese dei suoi ospiti.
Voglio parlare di chi, volontariamente, si sottomette al padrone, ne fa l’interesse, sguazza nel doppio gioco e, a volte, anche nel triplo, col risultato di diventare schiavo, giullare e servitore.
Gente che si sottomette schiamazzando come una gallina, ma cagando ogni giorno l’uovo richiesto, accontentandosi di un pugno di mais e della sua stessa merda.
Una è M., la responsabile di redazione fin dalla prima ora insieme a me e al mafioso pelato. Figlia di un carabiniere, bionda come tanti siciliani, un viso quasi angelico piantato in un corpo da scaricatore di porto. Sempre pronta alla battuta greve, al linguaggio sporco, si meraviglia che le sue grandi tette non abbiano mai sortito alcun effetto nei miei confronti. Doppiogiochista di lungo corso, abile nel seminare malcontento quanto pronta nel riferire le lamentazioni altrui. Pettegola all’inverosimile, al solo scopo di rafforzare la propria posizione, me la sono ritrovata al mare, in una visita di cortesia durante le vacanze, senza capirne il motivo e senza ricavarne alcun elemento utile. L’ultima volta che l’ho sentita è stata per chiederle delle riviste che intendevo usare per la causa al mafioso pelato; mi ha mentito dicendo che erano esaurite. Da allora il silenzio.
S. è una ragazza di Trieste pazza come un cavallo, preda di crisi depressive tremende, strafatta di psicofarmaci, incapace in certi giorni, di capire le frasi più elementari. Come possa essere laureata in psicologia resta uno dei più grandi misteri insoluti della mia carriera lavorativa. Faccina smunta, corpo da contadina friulana, sorriso da Joker, lesbica per paura degli uomini. Anche lei, chissà perché, ci ha fatto la solita visita di cortesia durante le vacanze, accompagnata dall’amica così chiaramente gay da mettere soggezione. Dopo la cena, che ho offerto come si conviene a un gentiluomo, è scomparsa dalla faccia della terra.
C. è invece una ragazza dalla voce squillante e femminile come raramente capita di sentirne. Peccato che alberghi in una tipina slavata, smunta e bruttina, con tanto di occhiali da miope. Una voce che non deve ingannare, perché nasconde un carattere e un pensiero che definire reazionari è forse poco. Un’anima doppia, insensibile, ingrata. Le tante moine e birignao che scambiavamo durante le telefonate di lavoro, sono finite nella spazzatura insieme a me. Mai più risentita.
Altra C., ragazza sarda e, come tale, imprevedibile e frignona. Le telefonate con lei erano una sequela di lamentele, piagnistei e scaricabarile per mascherare la sua pigrizia. Di una permalosità esemplare. Ora lavora in un’altra redazione, è stata mandata in Canada per le Olimpiadi Invernali, ma mi ignora deliberatamente.
Parlare di T. è come sparare sulla croce rossa. Uno degli uomini più brutti che mi sia mai capitato d’incontrare. La mia stessa età, pochi capelli, un angioma mal nascosto dalla barba incolta, sovrappeso, bassotto e mal vestito. Pensavo fosse un emerito sfigato, uno di quegli sgobboni che non fanno altro che lavorare e spiare donne nude su internet. Poi salta fuori che è pure sposato e ha avuto il coraggio di fare anche due figli. Vedo su linkedin che ha frequentato medie e liceo una delle scuole private bilingui più prestigiose di Milano, ovvero l’Istituto Leone XIII. Qualche anno in giro per il mondo al seguito del padre ingegnere e un diploma triennale in giornalismo televisivo allo IED. Insomma, uno che si è dato da fare, tranne che durante la collaborazione col mafioso pelato, periodo nel quale non è mai riuscito a rispettare alcuna scadenza, scaricando le responsabilità verso tutto e tutti. Poi ho saputo che passava le sue giornate lavorative scaricando film, navigando in internet e imbambolandosi davanti al computer. Mi ha ispirato da subito un’antipatia genetica, comunque reciproca. Malgrado i bonus avuti per la sua formazione e che non ha saputo utilizzare come si deve, penso sia un coglione, stupido e sfigato. Senza malizia, s’intende.
Le altre persone che ho avuto modo di conoscere lavorando per il mafioso pelato, sono quanto di più insulso e intellettualmente inutile si possa immaginare, e quindi non valgono nemmeno il tempo di darne conto.
E con questo, se non subentreranno ulteriori novità, ho deciso di chiudere definitivamente il discorso mafioso pelato. Vorrei ci fosse anzi un modo per cancellarlo dalla mia mente, far sì che non ne possa nemmeno immaginare l’esistenza, cancellare l’esperienza di averlo conosciuto. Però, se un giorno dovessi incontrarlo per strada, sono certo che mi farei qualche mese di galera.
PS: si nota che sono ancora estremamente incazzato?

martedì 19 ottobre 2010

Per oggi va così

E io che pensavo di combinare chissà cosa con questo blog.
Che pensavo di svelare i segreti della comunicazione; segreti che avrebbero sbalordito le persone comuni. Io che credevo di sputtanare il mafioso pelato e tutti gli altri parassiti che vivono ai bordi del mondo dorato, quello fatto di tanti soldi di bella gente, feste, coca e compagnia bella. Io, quello che diceva: “Appena il pelato mi vuole inculare gli metto in piedi una causa che lo faccio piangere per tutta la vita”. Pensavo di valere qualcosa, di avere qualcosa da dire, di sfruttare la mia esperienza per migliorare la situazione in breve tempo.
Ero sempre io quello che diceva: “Beh, meglio così, perché il mafioso e tutti i suoi leccamenti di piedi, le sue brillanti idee per campare sulla presunzione altrui, mi hanno dato la nausea". 
Quello che pensava di suonare e invece è stato suonato. Quello che, come diceva er monnezza: “È come er cane Mustafà, che la pigliava in der culo e pensava de scopà”. 
Quello che, malgrado si leggesse tutte le sere Sun Tzu e la sua arte della guerra, ha perso invariabilmente tutte le battaglie. Niente lavoro, niente con il blog, niente con l’arte, niente nemmeno con i concorsi fotografici.
E tanto per chiudere in bellezza, a fine ottobre anche mia moglie tornerà a spasso.
Almeno l'operazione di mia madre è andata bene, e oggi è il compleanno di E. quindi ci penserò un'altra volta.

lunedì 18 ottobre 2010

Cominciamo bene...

C. chiede se mi sono ricordato di comprare quelle buonissime bistecche di manzo, E. si accerta invece se ci sono i dolci per fare colazione. Io penso che i soldi stanno quasi per finire e non potrò mai seguire la dieta salvavita che propugna la ginecologa di mia moglie.
Secondo lei, la rovina dell'umanità è stata la scoperta dell'agricoltura. L'unica vera e sana alimentazione adatta all'uomo era quella precedente; ovvero: carne, pesce, qualche vegetale crudo, uova, frutta selvatica. Il resto è puro veleno. "Se vuoi morire giovane e di cancro - dice - mangia pure la pastasciutta, la pizza, il riso, i cereali e i legumi, il formaggio, il latte, lo zucchero e i dolci. Ma poi non venire a lamentarti da me".
Ma è una dieta costosa da seguire, molto costosa. Come faccio a riempire lo stomaco che pare non avere fondo dei miei figli, a forza di bistecche e pesce? Come placherei la loro fame senza un abbondante piatto di pasta, o un panino ripieno di tutto ciò che contiene il frigorifero? Con due bistecche di manzo che ingoiano in massimo tre minuti, ci compro almeno tre o quattro chili di pasta. E non parliamo del pesce; un trancio di tonno o pesce spada che basta sì e no per una persona, costa come pranzo e cena a base di pasta, verdure o uova per quattro persone.
La ginecologa dice che ci si deve liberare dalla retrograda abitudine italiana del pasto, della mangiata in famiglia, dell'ingurgitare per il gusto di ingurgitare. Posso anche essere d'accordo: non ho mai sopportato quei pranzi infiniti del giorno di natale, o il cenoni a casa dei miei suoceri che ti facevano venire voglia di essere all'altro capo del mondo. Però sono al contempo un tradizionalista che crede che, almeno la cena, debba essere un momento in cui è riunita tutta la famiglia, il tempo in cui ci si scambiano le impressioni sulla giornata, le informazioni su ciò che si è fatto, si discute, si scherza e si parla di tutto. Per questo non ho voluto la televisione in cucina.
Non potrei concepire una casa in cui ognuno mangia un pezzo di grana, o un uovo sodo, solo quando ha fame. Sarebbe peggio di un canile, dove ogni bestia mangia da sola, ma almeno contemporaneamente a tutte le altre.
E anche ammesso che possa permettermi una diete fatta di carne, pesce e poco altro, davvero sarebbe una cosa sana? E il colesterolo? e la gotta? E il mito dell'alimentazione variata, della dieta mediterranea? E quel ciarlatano di Veronesi che, dopo aver propugnato le virtù della verdura e condannato le carni come portatrici di malattie, oggi ha accettato di essere a capo dell'agenzia per la sicurezza nucleare italiana? Cosa piuttosto strana per uno che, con la lotta a tumori e leucemie, ha costruito la propria fortuna non solo economica. D'accordo, forse non ho scelto l'esempio più cristallino, ma tutto il mondo non ha sempre inneggiato alla dieta mediterranea? Significa che sono tutte cazzate? Mia suocera ha passato la sua vita mangiando verdure bollite, poca pasta, quasi niente carne e si è guadagnata un tumore all'intestino che se l'è divorata, quello sì, in un paio d'anni. Mia nonna e mio suocero hanno mangiato tutto quello che, in teoria, fa male: carne, condimenti grassi, vino, pasta tutti i giorni, poca verdura, insaccati, eppure hanno tirato una 96 anni, e l'altro 89. Mio padre mangiava come un canarino, poco di poche cose, ed è schiattato a 59.
Non so cosa pensare, e non ho né i soldi e neanche la testa per seguire diete troppo strambe.
Cambiando discorso, come dicono al telegiornale, il lavoro con l'ex direttore prosegue, ma invece di darmi forza e fiducia, sembra quasi ottenere l'effetto opposto. Sento che monta nuovamente un senso di inutilità, di fallimento, di ineluttabile disgrazia. Ricominciano i sogni malati, fatti di insufficienze scolastiche dei figli e di occasioni lavorative che sfumano inevitabilmente appena riapro gli occhi. In più mia madre mancherà al compleanno della nipotina perché ricoverata in ospedale. Non sono molto preoccupato, anche se, malgrado la nostra totale incompatibilità caratteriale, non posso non considerare che è pur sempre l'essere che mi ha messo al mondo.
Non c'è che dire, proprio un bell'inizio di settimana.