mercoledì 30 giugno 2010

Che razza di estate

Sarà un'estate strana, forse la più strana di tutte. Non come le pigre, afose e interminabili giornate delle mie vacanze scolastiche. Giornate passate nella penombra delle tapparelle abbassate, delle tende che si muovono lievi nella poca corrente d'aria, delle lame di luce nelle quali svolazza pulviscolo invisibile. Niente ipnotico ciklet-tunf che proveniva dalla fabbrica dietro casa, nessun rumore di piatti e posate dalle finestre aperte del cortile del condominio.
Questa è un'estate di sensi di colpa, di caldo appiccicoso, di giornate passate a torturarmi il cervello per trovare una soluzione che al momento sembra non ancora nata.
La fabbrica della mia infanzia è stata sostituita da un condominio di cubi di vetro colorato, ed è saltato fuori che il cliket-tunf che segnava le mie giornate estive ha contaminato le fondamenta con i suoi scarti produttivi, molto più facili da nascondere sotto terra che da smaltire legalmente.
Le tende non danzano più e il pulviscolo nelle lame di luce si è trasformato in polveri sottili che uccidono lentamente, come Milano.
Unico rumore di fondo che ormai accompagna tutti i giorni dell'anno è quello del traffico, incessante e prepotente; camion pieni di terra che rimbalzando sui rallentatori fanno trasalire il cuore come un tuono improvviso, antifurto che suonano a intervalli regolari per ore e ore, imperterriti, fino a consumare tutta l'energia delle batterie, ma continuando con voce sempre più gracchiante a ripetere il loro verso sgraziato, quasi come i piccioni zoppi e pervicacemente intenti, giorno dopo giorno, a corteggiare con quell'insopportabile gruu-gruu femmine indifferenti.
Il caldo rende sempre più pazza quella lunatica della figlia di A., vecchia compagna delle scuole medie tornata a vivere insieme alla madre, che se è in buona, canta le canzoni di Biagio Antonacci a squarciagola, ma quando la giornata gira storta allora sì che sono vaffanculo urlati ai quattro venti fra lei e quel cerbero che l'ha partorita.
Ho voglia di andarmene via, almeno per le ferie d'agosto ma, allo stesso tempo, mi sento un incosciente. Penso che con quei soldi potremmo tirare avanti almeno un paio di mesi, ma che è ingiusto che i bambini passino tutto l'anno in mezzo a questo che, per chi non ci è abituato, potrebbe sembrare un vero inferno.
Mia madre, unica fra tutti i nonni ancora viva, mi guarda con un misto di commiserazione, compatimento e soddisfazione, come per dire:
"Lo sapevo che con quel lavoro campato in aria prima o poi finivi male! Dovevi fare l'idraulico, come dicevo io. E poi, ti sembra davvero necessario andare in vacanza in questa situazione? Hai visto? Hai buttato via i soldi dalla finestra, tu e i tuoi libri, i tuoi film, tutta quella roba elettronica, tutti quei regali per i bambini!".
Se già la situazione è un disastro, quando sono costretto a vedere mia madre, si aggiunge anche la calamità. Ha l'innato potere di mandarmi in bestia, lei e la sua pretesa di perfezione, il suo credere di sapere sempre tutto, il suo essere così permalosa e meschina anche verso i suoi nipoti e senza motivo.
l'Italia, oltre che una nazione fondata sulle partite iva, è un paese fondato sui nonni. Non lo dico io, lo dicono le statistiche. Quasi tutte le famiglie con figli si appoggiano ai nonni per la gestione dei figli, per quelle faccende che chi lavora spesso non riesce a fare e, molto spesso, anche per un sostegno economico. Bene, per noi è sempre stato l'opposto. Io ho dovuto essere sempre a servizio dei miei, accompagnarli per visite e ospedali, per commissioni e acquisti. Ho dovuto tappezzare locali, aggiustare scaldabagni, appendere quadri, spostare cucine, imbiancare soffitti. Fino a che ce l'ho fatta.
Mia moglie invece copriva i buchi finanziari del padre che si faceva rubare il motorino un mese sì e uno no, che lasciava il frigorifero vuoto al quindici del mese perché preferiva spendere la pensione in altri modi.
Oggi che il momento di difficoltà è arrivato davvero, i genitori di mia moglie sono passati a miglior vita, lasciando alla sorella prediletta e approfittatrice quel niente che possedevano, mentre mio padre se n'è andato nel fiore degli anni come una rockstar lasciandomi in balìa di mia madre e mia nonna, che è un po' come ereditare il castello di Frankenstein.

martedì 29 giugno 2010

I colori dei ricordi

Stavo riflettendo su quanto i nostri ricordi siano influenzati dalle loro rappresentazioni.
Lo so, una riflessione di questo tipo è, in parte, figlia della mia professione, del mio modo di pensare per immagini, per colori e forme.
Mi spiego meglio: per esempio, i miei genitori li ricordo al cinquanta per cento in bianco e nero e, per il restante cinquanta, a colori.
Foto nove per quattordici centimetri, di quel bianco e nero intenso, brillante, dettagliato e con i bordi frastagliati. Mio padre con gli sci sulla neve, mia madre con la gonna al ginocchio e il maglioncino scuro, ancora mio padre nel ritratto posato che si faceva dal fotografo, i bambini del cortile della casa di ringhiera ritratti dal padrone del negozio di ferramenta con l'hobby della fotografia, il matrimonio con pochi parenti e i loro vestiti strani che, in bianco e nero, sembrano tutti dello stesso colore. Anche i loghi della Fanta, della Coca-Cola e del Martini che si intravedono nel locale dove si è svolto il pranzo di nozze, non appaiono nei loro colori brillanti, ma in toni di grigio di diverse intensità, molto meno appariscenti, sguaiati e invadenti di quanto siano oggi.
Mia nonna è quasi tutta in bianco e nero. Nelle foto da giovane, in cui a vent'anni si appariva come un quarantenne odierno, con quei vestiti alla charleston, strani e un po' brutti, che sui corpi dei contadini vestiti a festa sembravano tende con le frange. Mia nonna in vacanza a Casamicciola che si fa fotografare vicino a un pattino su cui è seduta mia madre da piccola. Mia nonna che ha attraversato quasi cento anni con la forza di uno shuttle al rientro nell'atmosfera: dritto come un fuso, incandescente come una palla di fuoco, malconcio e annerito ma integro nella sua struttura. Due guerre: austriaci sul Piave, tedeschi sul Tagliamento, i bombardamenti a Milano e tutto buttato alle spalle con una spolveratina al cappotto, via la polvere e qualche calcinaccio, e avanti verso il futuro, senza paura.
Poi arrivo io, prima in bianco e nero, al mare, in braccio a mio padre, sulla mia automobilina a pedali, poi al parco Lambro nei colori sfalsati e brillanti come un libro per bambini della Kodak Instamatic, alla festa per il mio compleanno, mentre con un arco e la freccia con la ventosa minaccio mia nonna che mangia la torta. Io, a carnevale, vestito da indiano, in casacca e pantaloni turchesi e un gran copricapo di piume colorate in testa. In colonia nel luglio del 1969, qualche giorno prima dello sbarco sulla Luna dell'Apollo 11, mentre nella pineta di fronte al mare, supplico i miei genitori di riportarmi a casa.
Le foto dei matrimoni di parenti vari con tutti quei vestiti blu e le camice bianche, i vestitini di pizzo delle bambine, i pantaloncini all'inglese dei bambini.
Poi il liceo, la riscoperta del bianco e nero, della concezione artistica della fotografia, dello sviluppo e la stampa fatte in bagno, il fascino dell'apparire dell'immagine sulla carta e, quando sovraesposta, l'imbrunire inevitabile come di un sole che ha compiuto il suo ciclo giornaliero. Gli amici, le ragazze, la scuola, Milano, tornano magicamente in bianco e nero, appesantendo a volte, quel clima di piombo degli anni '70, che poi così di piombo, a pensarci bene, non era, ma questo l'ho già detto. E ora i miei figli, rigorosamente nati, e cresciuti a colori. I colori brillanti, nitidi e precisi delle Kodachrome e Ektachrome prima e il digitale di oggi: alieno, freddo, manipolabile e intangibile.

lunedì 28 giugno 2010

Il destino è quel che è...

È stato un fine settimana di fuoco in cui L. mi ha gettato nella paranoia più totale attribuendomi problemi di salute dalle terribili, se non letali, conseguenze. Devo ammetterlo, sabato sono uscito con i bambini e, forse per il caldo, forse perché qualche problemino davvero c'è, sono tornato a casa con le mani così gonfie che parevano due zamponi freschi. Sarà il cuore, saranno i reni, sarà ritenzione idrica, sarà quello che sarà. Come diceva il dottor Frederick Frankenstein in Frankenstein Junior?
"...non ho creduto mai al destino, e non lo griderò... bene, va bene hai vinto, hai vinto, mi arrendo, griderò, griderò, il destino, il destino, il destino è quel che è, non c'è scampo più per me..."
Il destino genetico di ognuno di noi è quello che è, poco serve affannarsi per cambiarlo.
Ho smesso di fumare qualche anno fa, sono sovrappeso ma mangio discretamente poco a parte qualche eccezione in cui divento una specie di idrovora, ma accade sempre più raramente, non pratico nessuna attività fisica, questo è vero, però non mi va di trasformarmi in uno di quelli che conducono una vita timorata e finiscono sotto un tram in perfetta salute. Il mio motto è: Non voglio morire, ma voglio anche vivere.
Un po' come il personaggio di Bentivoglio (il Mario di Caserta), in Puerto Escondido, quello che sul pulman aveva un orecchio terribilmente malandato e che, parlando con Diego Abatantuono, diceva:
"Da una parte ci stanno quelli che pensano che si possono cambiare le cose con la volontà, diciamo, e allora gocce, cotone, antibiotici che fanno malissimo... dall'altra parte ci stanno invece quelli che pensano che tutto accade, anche nella malattia, la malattia deve solo fare il suo corso, hai capito? E poi accade, naturalmente, uno guarisce".
"Oppure gli marcisce un orecchio, come nel tuo caso, perché..."
"Ma questo è tutto un altro discorso..."
"E certo, no, tutto un altro discorso..."
"Vuoi che parliamo della morte?"
"No, no, no, grazie, no".
Ecco, io non sono uno di quelli che pensano che è tutto karma, destino, e nemmeno uno di quegli altri che credono che la medicina possa tutto, compreso sconfiggere la morte in cambio di una vita che vita non è. Credo piuttosto che siamo come una mozzarella: ognuno ha una scadenza, la sua scadenza, oltre la quale la vita si trasforma in un calvario di ospedali, medici, interventi, medicine, ricoveri, disperazione e vite rovinate di chi ci sta vicino.
A proposito di calvario, chiamo la scuola di C. per sapere quando inizierà il corso di recupero di matematica. la risposta è stata:
"il 30 giugno dalle 11,15 alle 13,15".
"Bene - rispondo - poi?".
"Poi basta".
"Come basta? Una lezione sola? E cosa può recuperare uno che è stato rimandato?"
"Non è un problema nostro" mi hanno risposto.
È vero, non è un problema loro. È un problema di mio figlio. Se avesse studiato, se non avesse perso i pomeriggi con la chitarra in mano davanti al computer, ora non sarebbe un problema nemmeno nostro. E proprio perché non entra il becco di un quattrino, ora dovremo pure pagare qualcuno che gli faccia un mese di ripetizioni.

venerdì 25 giugno 2010

Cupio dissolvi

Che dire? Che per una volta sono praticamente senza parole? Mi viene in mente solo una citazione: cupio dissolvi. Mi frullava in testa da un po', ma non sapevo di preciso il significato esatto, così ho fatto una rapida ricerca. Salta fuori che è una citazione latina tratta da una lettera di san Paolo o, più correttamente,  Paolo di Tarso; quel tipo noto per la famosa conversione sulla via di Damasco. Piergiorgio Odifreddi nel suo libro Perché non possiamo essere cristiani lo definisce un pazzo tarantolato e forse non ha tutti i torti.
Ma per tornare a cupio dissolvi, stavo dicendo che è una citazione dalla lettera ai filippesi di san Paolo. Tradotta letteralmente significa "desiderio di morire", ma nell'uso comune è intesa piuttosto come il "desiderio di operare il disfacimento di sé stessi" e, quindi, anche quello di "annullarsi", "autodistruggersi".
Un desiderio che, nel fondo della mia anima, ogni tanto si fa sentire. Io cerco di ricacciarlo nell'angolo più buio e dimenticato, ma spesso sono le circostanze, i fatti della vita, che lo risvegliano. Tasse da pagare, le difficoltà scolastiche di C., il lavoro che non si trova, gli acciacchi della mezza età, questa italia (e sono costretto a scriverla con la i minuscola) che proprio non mi piace e che all'estero piace ancora meno e, perché no? una nazionale che è lo specchio di un paese allo sfascio.
Quanto sarebbe facile annullarsi, tirare i remi in barca, arrendersi a un momento storico così umiliante per noi poveri italiani. Un'epoca con un progresso tecnico e scientifico così mirabolante, ma dalle ingiustizie enormi, dalle incolmabili disparità tra chi ha e chi no. Tra chi sbatte in faccia al prossimo la sua ricchezza come fosse una sfida, un insulto. Tra chi possiede già tanto e che per avere ancora di più non esita a calpestare diritti, dignità e leggi.
Poi guardo i miei figli e mi ripeto che non posso abbandonarli, devo continuare a lottare, devo proseguire questa odissea dovunque mi porterà, sperando che, prima o poi, io possa avvistare nuovamente le coste serene di Itaca.

giovedì 24 giugno 2010

Questioni di lana caprina

Che fai nella vita? Ho sempre avuto una certa difficoltà a spiegarlo. Innanzitutto perché spesso il concetto di “grafico” era poco diffuso, e poi perché specialmente il grafico editoriale, è una figura pressoché sconosciuta.
"Allora cosa fai di preciso, stampi i giornali?".
"No, veramente mi occupo di disporre in modo armonioso e piacevole testi, fotografie e tutti gli altri elementi che compongono la pagina di una rivista".
"Ah allora scrivi il giornale e lo stampi nella tipografia?".
“...Sì”.
Figuriamoci spiegare di cosa si occupa l’art director, non solo in un’agenzia di pubblicità, ma in ambito editoriale.
“Mi occupo di dare personalità e razionalità all’aspetto esteriore delle riviste e dei giornali; decido quali caratteri vanno usati e in quali dimensioni, quale taglio grafico devono avere le pagine di rubriche, o di attualità oppure d’inchiesta. Valuto quali dovranno essere i colori predominanti, quale taglio devono avere le foto, che importanza dare a box e testi, insomma, è un po’ come fare il sarto: si tratta di confezionare un prodotto sul gusto del cliente, ma che soprattutto sia piacevole e razionale per chi lo dovrà leggere. Proprio come un bel vestito fatto su misura”.
“Ah, allora decidi come devono essere le scritte sul giornale e poi lo stampi?”
“...Sì”.
Ho passato una vita a spiegare il mio lavoro, riuscendo al massimo a strappare la solita battuta: 
“Hai fatto il liceo artistico? Allore sei un pittore! Senti c’avrei da imbiancare la casa...”.
Col tempo è finita che, quando mi chiedevano che lavoro facessi, quasi mi vergognavo a spiegare qualcosa che spesso non veniva compreso, ritrovandomi col passare degli anni, a essere un art director senza nemmeno accorgemene, tanto che, quando venivo chiamato in quel modo, pensavo addirittura che mi pigliassero per il culo. Forse è un mio difetto, devo ammetterlo, ma sono stato uno dei pochi a potersi fregiare di un titolo e una professione che suscitava spesso le invidie degli amici e dei conoscenti e che, contemporaneamente, quasi se ne vergognava.
“Che lavoro fai?”.
“L’art director... scusa”.
Ecco perché sono così infastidito da chi, spesso, si spaccia per ciò che non è, o meglio, per ciò che vorrebbe essere.
Verso la fine degli anni sessanta c’era uno che, diceva mio padre, girava col carretto di frutta e verdura. Insomma era un venditore ambulante. Quando hanno cominciato a costruire il mio quartiere, questo ambulante si è comprato (non si sa come) un certo numero di box, ha smesso di lavorare, si è messo a dipingere e, nel quartiere, si faceva chiamare "maestro”.
Un po’ come i parrucchieri. Ci avete fatto caso? Sono tutti pittori. Il mio per esempio, si è fatto anche l’insegna: “B. V. il parrucchiere degli artisti”.
Ma ciò che conta, secondo me, è quello che fai per portarti a casa la pagnotta. Sei parrucchiere? E allora non puoi essere artista. Sei un barbiere che, come passatempo, ama dipingere.
Sei un venditore di frutta e verdura ambulante? Allora perché ti fai chiamare "maestro"? I box te li sei comprati coi soldi delle melanzane, non vendendo quadri.
C’è un altro, uno che ho conosciuto attraverso il social network degli ex del liceo. Tutti lo trattano con una certa deferenza. Mi sono informato e ho scoperto che viene considerato un artista piuttosto affermato, ha esposto in varie personali, ha realizzato qualche piccola installazione nei paeselli dell’hinterland milanese (Limbiate), e vanta quotazioni di circa quattro, cinquemila euro per opere di circa cinquanta per settanta centimetri. Sembrerebbe avere tutte le carte in regola per definirsi artista e vivere del suo lavoro. E invece, viene fuori che fa il professore di disegno tecnico in un liceo. Eh no, così non vale. Vuoi fare l’artista? Allora mantieniti facendo l’artista. Troppo comodo guadagnarsi la minestra al calduccio di un impiego statale e poi andare in giro a darsi arie da grande creativo. Sei un professore di liceo che si diletta a dipingere quadri. Stop.

mercoledì 23 giugno 2010

Il "Triplo"

Devo dire che ieri ho perso parte del mio proverbiale ottimismo (si fa per dire). La commercialista, dice che per unico redditi 2009, dovrò pagare tra irpef, irap, saldi e anticipi più o meno quattromila euro, senza contare la ritenuta d’acconto già versata su tutte le fatture. Non c’è che dire, una bella botta, e all’agenzia delle entrate non frega un bel niente se non stai lavorando da sei mesi; devi pagare e basta.
Poi ci sono i versamenti per il fondo pensione dell’ordine dei giornalisti (ahahahah!): saranno almeno cinque o seimila euro.
Ma non è finita, a novembre c’è il secondo acconto: altri duemiladuecento euro.
Tirando le somme e, soprattutto, rateizzando tutti i versamenti, da qui a dicembre dovrò sborsare qualcosa come dodicimila euro, ed ecco miseramente finite tutte le riserve con le quali mi illudevo di andare avanti per qualche tempo. Invece, complice qualche settimana di ferie obbligate a causa delle allergie dei bambini, entro natale mi ritroverò senza il becco di un centesimo.
E il bello è che non si sta muovendo assolutamente niente.
E il bello è non posso fisicamente fare un lavoro che sia anche lontanamente manuale.
E il bello è che a forza di non fare niente ho tanta paura di non riuscire a riprendere le fila di un lavoro se e quando arriverà.
E il bello è che dopo le ferie ci saranno i due compleanni dei bambini, l’assicurazione della macchina, di nuovo la retta per la mensa scolastica, la palestra di karate, il corso di chitarra, il materiale scolastico e per finire in bellezza natale, e non so come risolvere questa situazione.
Forse per questo ieri sera ho tentato il suicidio con un “Triplo”. Spiego cos’è, ma devo avvertirvi di non provare a farlo a casa vostra.
Dunque, si usa del pane in cassetta di grano duro oppure di tipo integrale. Io di solito uso quello ai cinque cereali e semi. Si spalma la prima fetta con burro d’arachidi e il lato della seconda fetta, che andrà a contatto col burro d’arachidi, con marmellata di fragole o ciliege, dopodichè si sovrappongono. A questo punto si spalma la parte superiore con una quantità di nutella pari alla somma di burro d’arachidi e marmellata e si chiude il tutto con la terza fetta di pane. Fatto!
Il prezzo da pagare è una notte di dormiveglia in cui sarete vittime di terribili acidità di stomaco e incubi privi di significato. Vi sveglierete a pezzi, ma con un certo appetito; come si dice: chiodo scaccia chiodo, e poi tanto, non devo mica andare a lavorare.

martedì 22 giugno 2010

Metafore

Come la nostra nazionale, incapace di far sognare per qualche ora chi non viene lautamente pagato per passare un po' del suo tempo a correre in mutande, anch'io ho forse bisogno di fermarmi un momento, schiarirmi le idee, azzerare il contachilometri parziale.
Anche il mio gioco, malgrado la lunga esperienza e i successi passati, non sembra portare da nessuna parte. Eppure non devo ubbidire a un allenatore ottusamente presuntuoso, vincitore di un mondiale grazie a una serie di fortunate coincidenze, ma di vedute assai ristrette. O forse l'allenatore sono io. Sono io che da  ottuso presuntuoso non ho saputo adattare il mio gioco alla situazione attuale.
Ma sono un allenatore che non può permettersi il ritiro anticipato. Devo solo mettere insieme una strategia nuova rispetto a quella che ho adottato fino a ora. Trovare qualcosa di diverso, calibrare il cannone e, smettendo di sparare nel mucchio, cercare obbiettivi più mirati o, come dicevano gli americani, effettuare bombardamenti chirurgici (surgical bombing).
Non credo che il futuro della carta stampata sia segnato. Esistono nicchie, come quella di settore, che avranno ancora lunga vita, anche se difficile. E comunque, quale che sia il futuro dell'editoria, la figura dell'art director e del grafico, resterà una presenza importante; magari non come vent'anni fa, ma abbastanza da mandarmici in pensione.
Mi domando solo se davvero questa crisi è ancora in piena espansione proprio come quella che sembra attanagliare quasi tutte le squadre europee più blasonate, oppure sia in fase remissiva. C'è chi dice che siamo semplicemente nell'occhio del ciclone e dovremo aspettarci nuove ondate di disastri finanziari. Spero  di no, perché le scorte si vanno assottigliando sempre più e non credo di poter resistere ancora per molto.

lunedì 21 giugno 2010

Topolino non esiste!

Se leggo ancora la storia di qualche blogger diventato ricco e famoso per aver raccontato quattro cazzate in rete, mi verrà certamente un esaurimento nervoso (ammesso che già non ce l'abbia) o, quanto meno, un accesso di rabbia tale da farmi scoppiare il collo.
L'ultimo di cui leggo è un fighetto newyorkese che scrive di vizi e virtù degli amanti della bicicletta (http://bikesnobnyc.blogspot.com). Pare possa vantare cinquecentomila contatti mensili semplicemente scrivendo della multiforme tribù dei ciclisti. Adesso è anche uscito un libro scritto: Bike snob (il titolo è già un programma) che, negli Stati Uniti, è già un best seller (e te pareva).
Dovrò consigliarlo, ma probabilmente lo conosce già,  a un vecchio compagno di liceo che, fra le insulse frasi, rigorosamente in inglese, con cui ammorba gli amici con cadenza quasi giornaliera su facebook, non ha mancato di mostrare con orgoglio la foto della sua bici nuova di zecca, naturalmente a scatto fisso, ultima mania di creativi e fighetti milanesi.
Dicono che non è una bicicletta, è una filosofia di vita, un approccio completamente diverso alle due ruote, ma sono convinto che, dopo qualche uscita con quel marchingegno infernale utilizzato fino a qualche tempo fa solo da quei pazzi che fanno le gare su pista, il loro nuovo giocattolo rimarrà lì, in bella mostra, appoggiato alle pareti degli uffici da creativi arredati tutti nello stesso modo, ovvero come una classe della scuola elementare Maria Montessori.
Non è che ce l'abbia con la bici in sé, anzi, fino all'adolescenza ne ho letteralmente consumate un certo numero, ma piuttosto con questi coglioni che ne devono per forza fare uno status symbol, un falso feticcio. Che poi sono le stesse persone che, in autostrada, ci sorpassano a bordo dei loro suv Audi a 190 all'ora dopo averci spolverato il parafango e sfareggiato a più non posso mentre cerchiamo di superare un tir infinito.
Senza considerare che, usare la bici in città come Milano, equivale davvero a fare qualcosa tipo no-limits o, quando va bene, all'equivalente di fumare un pacchetto di nazionali a chilometro. Figuriamoci in sella a una bici a scatto fisso e senza freni. Tanto per capirci, avete mai avuto una di quelle Graziella che obbligavano a pedalare incessantemente e col freno a pedale? Ecco, molto ma molto peggio.
E quella cretina di blogger (Julie Powell), che è diventata ricca e famosa riproponendo (una al giorno), le ricette che, un'altra carampana (Julia Child), aveva scritto negli anni cinquanta per rivelare i misteri della cucina francese a massaie americane che, come massimo della raffinatezza e dell'abilità culinaria, sapevano sì è no cucinare qualche tacchino patologicamente obeso imbottito di fegato e castagne? (http://juliepowell.blogspot.com).
E il bello è che ci hanno fatto pure un film (Julie&Julia) in cui una allucinata Meryl Streep ridacchia e saltella di qua e di là incurante della guerra fredda e le difficoltà della vita della gente comune. Per non parlare delle parti che si svolgono al giorno d'oggi, dove Amy Adams, che interpreta la scrittrice/blogger, ci sollazza con frasi che nemmeno le ragazzine degli anni '70 osavano scrivere nei loro diari segreti con la copertina di raso rosa e tanti cuoricini ricamati sopra. Quando poi la scrittura e lo humor si fondono insieme, spesso non si fa in tempo ad arrivare in bagno per vomitare la cena o qualunque cosa mangiata nelle ore precedenti.
Probabilmente, la forza di questi fenomeni sta nei numeri di un popolo che trova estremamente divertenti cose che in Europa abbiamo ormai riposto in soffitta insieme ai varietà, le comiche di Ridolini e le irresistibili battute dell'oratorio. È gente che si ammazzerebbe di risate ascoltando le battute del pagliaccio strozzapalloni alle feste di compleanno nei centri commerciali.
Per loro, qualcuno che scrive sul proprio blog: "Cari lettori sconosciuti...", come Julie Powell, rientra già nella categoria dei fini intellettuali.
Ma a 'sti americani non gliel'ha detto ancora nessuno che Topolino non esiste?

venerdì 18 giugno 2010

Perché?

Ieri, discussione piuttosto accesa con mia moglie a proposito di questo blog. Dice che non ne capisce la ragione, o meglio, non comprende le motivazioni che mi spingono a mettere in piazza i miei sentimenti più profondi, il perché sono disposto a sopportare commenti qualche volta offensivi, a raccontare a mezzo mondo le miserie i fallimenti, o i successi. Dice che leggendo i vari post ne esce il ritratto di qualcuno divorato dall'odio e dal rimpianto. Che non è divertente e che, pomposamente, amo piangermi addosso. Che, se voglio sfogare la mia vena creativa, basta scrivere tutto su un quaderno a futura memoria. Che mi sto facendo coinvolgere troppo e non ne vale la pena.
Confesso che ne sono uscito con le idee un po' confuse e le ossa rotte. In effetti l'intenzione iniziale era quella di raccontare una parabola, un'odissea, un viaggio nella disperazione, nella ricerca, con l'immancabile redenzione finale. Perché?
In parte una risposta ce l'ho: la mia intenzione era di lasciare a futura memoria dei miei figli, una testimonianza positiva. Un viaggio nella depressione, la disperazione, lo sconforto, che si trasformasse poco per volta in un odissea alla ricerca di sé stessi, in una testimonianza, secondo la quale, dopo la tempesta, prima o poi, deve per forza tornare il sereno, che dopo l'inverno, il mondo germoglia nuovamente. Un modo per far capire di non cedere mai alla disperazione, una lezione che insegni loro che i brutti momenti passano, che ci vuole solo un po' di pazienza, costanza, buona volontà e ottimismo per riuscire a superare anche le prove più dure.
È vero, per ora siamo ancora nella fase della disperazione, della sfiducia, del pessimismo, della rabbia. Ma anche da tutto questo è possibile trarre una lezione, una comunanza di sentimenti, un sentirsi meno soli. Mi auguro che anche per me, prima o poi, arriverà di nuovo la primavera, che riuscirò ad approdare nuovamente a Itaca e allora ecco che il cerchio si chiuderà e forse anche questo blog, assolto il suo compito, morirà.
Ma perché esporsi al mondo in mutande? Perché ho voluto provare un mezzo più attuale del quaderno, perché il confronto con gli altri è importante, perché resistere alla tentazione di mandare a fare in culo chi posta un commento stupido e maleducato è come l'allenamento per i pugili, che si fanno picchiare per imparare a sopportare le botte, a ragionare comunque a mente fredda, a evitare di fare tante delle cazzate che ho fatto nella vita.
Perché pensavo che forse sarebbe stata anche un'opportunità economica.
Perché per uno come me, che ha sempre tenuto tutto dentro, è un modo di germogliare senza troppi pericoli, senza metterci la faccia. Può essere stupido, non lo nego, e può anche essere una forma di presunzione, anzi, è innegabile che esista una percentuale di narcisismo. Che male c'è?
Che poi vada a finire che racconto sempre le stesse cose, beh, onestamente non me ne importa molto. Questa non è una rubrica della settimana enigmistica, non è l'edipèo enciclopedico e, tanto meno, risate a denti stretti. Non scrivo per gli altri, scrivo per me, per i miei figli e per chi, se ne ha voglia, vuole leggermi. Non mi importa di collezionare migliaia di accessi. Non ho intenzione di diventare la rubrichetta di costume quotidiana, quindi è normale che la mia vita sia fatta di cose che spesso si ripetono, di rimpianti che è difficile scrollare via, di amici di una vita che ti deludono e non riesci a capacitarti che sia accaduto. Non sono Briatore, non faccio la bella vita in costa azzurra in mezzo a bella gente, non sono un ricercatore dalla brillante vita accademica o uno che conduca una vita sociale che gli permetta di raccontare sempre aneddoti brillanti. La mia vita è questa e si trascina tra casa, figli, spesa, amici, interessi semplici, che altro?

giovedì 17 giugno 2010

La storia si ripete

In prima liceo, avevamo un professore di italiano e storia che, a ripensarci adesso, sembrava uno di quei personaggi che si vedono su raistoria quando si parla degli anni settanta.
Fumava gauloise, che si accendeva una dietro l'altra, mentre, stravaccato dietro la cattedra, ci prendeva allegramente per il culo. Vestiva con pantaloni e giacche di velluto sformati, clark ai piedi e barba e baffi come si confaceva a un intellettuale di sinistra.
Amava vantarsi delle sue sbruffonerie consumate tra via Brera e il bar Giamaica insieme, presumo, ai suoi amici pittori, poeti e intellettuali. Come quella volta in cui disse che per scommessa, in pieno inverno, "ho fatto il giro del quartiere a torso nudo sul mio Guzzi Falcone". Sfortunatamente non era uno di quei professori anticonformisti stile Attimo fuggente, ma dava più l'idea del giovane presuntuosello che si riteneva troppo intelligente per perdere tempo con degli sbarbati appena usciti da qualche scuola media di periferia.
In classe, le sue occupazioni preferite erano: fumare, adocchiare qualche ragazza carina e sbeffeggiare attraverso la sua cultura la nostra immaturità. E per fare colpo, lo faceva. M., una ragazza più grande di noi di un anno o due, ci è cascata mani e piedi. Non so come sia finita perché in seconda già non c'era più.
Ma la sua vittima sacrificale preferita ero io. Non so come nacque questo giochetto, forse perché voleva prendermi in castagna, forse perché assomigliavo involontariamente a Simon Le Bon dei Duran Duran, gruppo che io stesso aborrivo e che probabilmente lui odiava. Insomma, un giorno mi interrogò in storia nella maniera più tradizionale possibile, forse per umiliarmi davanti ai compagni, ma casualmente ero preparato e ma la cavai con un sei. La lezione successiva mi interrogò nuovamente, e poi anche la lezione dopo e quella dopo ancora. Ormai era un teatrino al quale entrambi partecipavamo sapendo che quella era la nostra parte e che nessuno dei due avrebbe mollato per primo. Inutile dire che in storia andavo piuttosto bene.
Ma perché tutto questo inutile rivangare il passato? Beh, una ragione secondo me c'è. Sono convinto infatti di essere uno che, spesso e malvolentieri, si ritrova nel mirino.
Per esempio, è vero o no che stiamo vivendo un governo nel quale la lotta all'evasione è pressoché inesistente? È vero o no che il capo di questo governo ha dichiarato più volte che il carico fiscale è così alto che pagare le tasse è immorale? È vero o no che questo e altri governi, dopo aver stragiurato che non ci sarebbero stati più condoni, ne hanno messi in piedi a più non posso?
E allora, com'è che io, miserabile partita iva che nella sua vita lavorativa non si è mai nemmeno lontanamente avvicinato ai centomila euro lordi di fatturato, devo essere continuamente martoriato dallo stato? Mi spiego meglio.
Settembre 1998, ultimi mesi del governo Prodi: ricevo dall'istituto nazionale di statistica un questionario obbligatorio sulle piccole imprese e l'esercizio delle professioni. La mancata compilazione di tale questionario produrrà un controllo automatico sulla mia attività.
Dicembre 2003, secondo governo Berlusconi: ricevo dall'agenzia delle entrate, ufficio studi di settore, un questionario a compilazione obbligatoria volto all'evoluzione degli studi di settore. In calce era specificato che: i dati forniti non saranno in alcun modo presi a base della normale attività di accertamento né trasmessi ad altri uffici pubblici.
Maggio 2004, sempre governo Berlusconi: chissà come mai ricevo un invito al contraddittorio che ha portato a un avviso di accertamento e al mio ricorso verso l'agenzia delle entrate che, fortunatamente, ho vinto. Avevano addirittura il coraggio di imputarmi, così, d'ufficio, dei redditi doppi rispetto a quelli da me dichiarati. Ditemi un po', lavorando a ritenuta d'acconto, come sarebbe possibile nascondere dei redditi. Per fortuna è andata bene, forse anche per merito di una lettera in cui dichiaravo che mi spiegassero un po' come faceva uno che rubava i soldi a vivere in un bilocale in quattro persone e ad avere da tredici anni sempre la stessa Nissan Micra.
Luglio 2005, ancora governo Berlusconi: ricevo dall'agenzia delle entrate la richiesta di trasmissione in copia fotostatica di tutta la documentazione relativa a contributi previdenziali, spese sanitarie e premi per assicurazioni. Naturalmente la mancata comunicazione dei documenti richiesti obbligherà l'ufficio alla rettifica degli stessi rispetto al controllo formale della dichiarazione stessa.
Giugno 2010, sempre l'amico Berlusconi: stessa richiesta del 2005 da parte dell'agenzia delle entrate, e cioè, trasmissione dei documenti relativi a spese sanitarie eccetera.
Mi chiedo: è normale? O rientra tutto nel novero delle coincidenze, delle sfortunate combinazioni? A me sembra davvero troppo, mi pare proprio che, come ai tempi del liceo, qualcuno mi abbia inquadrato nel suo mirino. Avrei davvero voglia di mandarlo affanculo e chiedergli che tipo di ammortizzatori sociali ci sono per me: sussidio di disoccupazione? Ferie pagate? Malattia pagata? Liquidazione?

mercoledì 16 giugno 2010

Anniversario

Oggi non ho tempo, è l'anniversario di matrimonio. Ventuno anni, lo dico, ma non mi sembra vero. Pare solo ieri che si bigiava la scuola e guarda quanto tempo è passato.
Secondo le tradizioni dei venditori di confetti, abbiamo già sorpassato le nozze di stagno (10 anni), quelle di porcellana (15 anni) e quelle di cristallo (20 anni). Ci stiamo avviando verso quelle d'argento (25 anni), anche se, mi vergogno un po' a confessarlo, il mio obiettivo sono quelle d'oro (50 anni).
Che posso dire oggi? Amatevi, perché la carne è più forte del più forte degli acciai.

martedì 15 giugno 2010

Il futuro

Mi domando: se avessi l’opportunità di conoscere il mio futuro prossimo, poniamo fra due o tre anni, vorrei davvero sapere cosa ne sarà di tutti noi? Se, per ipotesi, fosse oscuro e pieno di difficoltà, come potrei vivere il presente?
E se, sempre per ipotesi, avessi la possibilità di modificare il passato, lo farei?
Domande inutili, questo lo so, ma è un gioco che ho sempre fatto fin da bambino. A sette, otto anni il mio orizzonte si accontentava di immaginare come sarei stato a quattordici; alle scuole medie immaginavo quando avrei potuto finalmente scoprire l’universo femminile e come sarebbe stato, visto che l’immaginazione può arrivare fino a un certo punto, ma diventa quasi impossibile pensare come potrebbero essere cose di cui non si è mai avuta esperienza. Poi, durante il liceo, la curiosità era rivolta alla mia vita da giovane uomo. Mi sarei mai sposato? Avrei avuto dei figli? Un lavoro appagante o semplicemente un lavoro? In questo campo non osavo spingermi oltre un impiego come impiegato, otto ore al giorno per cinque giorni la settimana, invece la realtà ha superato le aspettative, con un lavoro instabile, difficoltoso, con anni e anni di gavetta, ma creativo oltre ogni aspettativa. 
Da adulto, la precognizione si sforzava di misurare la vita in termini di longevità, dato che il duemila mi sembrava così lontano e io, che avrei avuto trentotto anni, così insopportabilmente vecchio. 
Infinite volte ho rimuginato su quel “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, che tanto mi aveva martoriato durante la scuola, e cercavo di trovare un valore numerico a quella ipotetica metà. Trent’anni? Quaranta? Ormai il mezzo del cammin è indubbiamente superato da tempo, quanto non so immaginare. 
Tutto questo però mi ha insegnato che la vita è indicibilmente più sorprendente rispetto alla più fervida immaginazione, nel bene e, putroppo, anche nel male.
Ecco perché non sono affatto certo di volerne sapere più di quanto ne so oggi. Il futuro potrebbe riservare ancora innumerevoli gioie, soddisfazioni e imprevedibili successi, ma molto facilmente, altrettante sorprese quanto mai sgradite o drammatiche. 
Non ho mai amato guardare un film o leggere un libro sapendo già come andrà a finire, perché, il più delle volte, è il mistero stesso a rendere così appassionanti le cose. Che gusto ci sarebbe nel sapere come si concluderà una storia che non ha nessuna possibilità di essere modificata? 
Karma? Destino? Non credo a nessuno dei due, come trovo ridicole domande del tipo: “Cosa farebbe se sapesse di avere solo dodici ore di vita?”. Probabilmente mi sparerei.

lunedì 14 giugno 2010

Family Camp

La scuola è finalmente?! finita e nel quartiere regna una strana tranquillità. Ma davvero buona parte del traffico tra le sette e le otto e trenta, era generato dalle innumerevoli mamme e papà che accompagnavano a scuola i loro pargoletti dalle gambe rattrappite? Pare proprio di sì.
Eppure dove sono finiti tutti quei bei propositi che, dai quaderni dei nostri figli, ci esortano alla salvaguardia dell'ambiente, al riciclo, all'uso responsabile dell'auto e alla moderazione dei consumi? Belle parole, ma nei fatti ognuno se ne infischia. Non c'è studente che abita a più di cinquecento metri dal comprensorio che ospita asilo, scuola materna, elementare e media, ma nessuno pare applicare ciò che a parole predica. Nessuno pare disposto a rinunciare alla comodità dell'auto, nemmeno per duecento o trecento metri. Purtroppo è così: non riusciamo a sbarazzarci della simbiosi con un pezzo di ferro, per poi vivere la contraddizione di mandare i figli a corsi di ogni sport possibile e immaginabile quando sarebbe stato sufficiente far loro percorrere a piedi quei cinquecento metri di strada.
Da oggi mi ritrovo a casa con i ragazzi, e devo fare in modo di organizzargli qualche ora della giornata. Sono uno all'antica, mia nonna mi ha sempre ripetuto che "Chi ha tempo non aspetti tempo", e quindi non sopporto vedere gente giovane stravaccata davanti alla televisione per ore e ore.
Credo che organizzerò la giornata in attività piacevolmente obbligatorie. Almeno fino alle quattordici, poi, E. sarà libera di fare passeggiate insieme alla mamma e C. di rimbecillirsi come meglio crede fra chitarra, musica e sogni a occhi aperti.
In mattinata organizzerò una riunione con i ragazzi per capire quali attività entreranno a far parte di questo family camp estivo. Roba educativa naturalmente, come, per esempio, l'ora di lettura, economia domestica (rifare i letti, tenere in ordine la propria stanza), disegno libero e cucina creativa: non penseranno davvero che mi metta a cucinare ogni mezzogiorno per tutti quanti!
In mezzo a tutto questo, spero di trovare il tempo da dedicare alla ricerca del lavoro, a questo inutile blog, ai quadri che prima o poi dovrò finire, ai concorsi fotografici per arrotondare. È incredibile, ma ho più impegni di prima che perdessi questo maledetto lavoro. Allora mi lamentavo per la mancanza di tempo da dedicare ai miei interessi; oggi sono proprio queste innumerevoli occupazioni a rendere le giornate così brevi e insoddisfacenti.
Credo che la differenza stia tutta nel fatto che quando gli interessi non coincidono col lavoro, quando gli stimoli non sono finalizzati a un risultato economico e, contemporaneamente, non sussiste la tranquillità di un reddito, tutto si dilata, assume un senso di inutilità, di indefinitezza, appare come un'inutile perdita di tempo, un cincischiare senza senso. Ogni interesse non viene più visto come il sospirato piacere di dedicarsi a qualcosa di meritatamente inutile, giacché il dovere della sussistenza è stato espletato. Solo allora anche l'attività più insulsa acquista grande valore.
Comunque, questa sera gioca la nazionale e quindi le questioni filosofiche saranno sospese, il cervello si spegnerà per novanta minuti, l'Italia sarà unita alla faccia della lega.

venerdì 11 giugno 2010

Uei, Giapunés!

Che cosa strana. Solo adesso si è accesa la famosa lampadina, e che dio benedica i software che contabilizzano e geolocalizzano gli accessi.
Possibile che il trascurabile riferimento al Giappone e a un lontano conoscente lì residente per motivi suoi che ho fatto solo ieri, questa mattina si sia già materializzato nel primo accesso dal paese del sol levante?
Questo misterioso visitatore, non è capitato qui per caso, almeno credo, visto che non risulta nessuna ricerca correlata al mio blog né su google né, tanto meno da altri siti, che giustifichi una visita dall’altro capo del mondo.
Quindi, cari “lungo” e “corto”, vi ho smascherato! Chi altro potrebbe esserci in Giappone interessato a un blog italiano, se non qualcuno che conosce la lingua e che sia stato informato?
Dovrei concludere che mi avete fregato, che sapevate tutto. Ecco il perché del vostro silenzio.
Allora, forse, sarà anche il caso di avvertirvi che buona parte di ciò che è scritto in questo blog, è stato detto da voi stessi, uno all’insaputa dell’altro. Lo sapevate già? O fate parte anche voi della schiera degli ipocriti?
Caro “corto”, ora ho capito perché tua madre finge di non vedermi quando la incrocio per strada, ed ecco perché, caro “lungo”, mio figlio non ti incontra più quando passa sotto casa tua per andare a scuola.
Io credo, cari amici, che vi stiate sbagliando, non è questo il modo di comportarsi, non è così che fanno gli amici veri. L’ho capito molto bene in questi mesi. Non c’è amicizia, non c’è amore, c’è solo la legge del proprio culo. Finché non capita a me, me ne fotto.
L’unica cosa che mi domando è: come avete fatto, se davvero avete letto il blog, a disinteressarvi in modo così brutale della mia situazione e di come potessi sentirmi?
Ma c’è qualcosa di buono in tutto questo, e anche una morale: posso mettervi al corrente dei fatti miei e dei sentimenti che nutro verso di voi e gli altri.
Sappiate quindi che, anche se non ho più voglia per ovvi motivi, di considerarvi i miei migliori amici, vi ho sempre voluto bene.
Se invece il giapunés non è chi penso io, come non detto.

Il gioco delle tre carte

Che palle! Chi è questa Victoria Roger che rompe da facebook? Ah, la solita catena di sant'antonio piramidale. È dagli anni '80 che mi rompono le scatole con queste storie.
Ci aveva provato un fotografo che condivideva lo studio in cui lavoravo per un ex alpino, tra parentesi un grandissimo bastardo. Piccolo uomo (in tutti i sensi), grande pizzetto e voce baritonale. Spero che, dopo vent'anni, almeno sia morto.
Insomma, questo fotografo una sera mi invita a casa sua perché, dice, vuole parlarmi di qualcosa di importante. Vorrà propormi un lavoro o qualcosa del genere, ho pensato nella mia infinita ingenuità. Invece, dopo avermi fatto accomodare nel suo bel salotto pieno di tappeti e vasi cinesi uguali a quelli che vendevano nelle aste in tv, comincia con un pistolotto su una nuova forma di guadagno che implica solo un piccolo investimento... ma è inutile che stia a spiegarla perché presumo ormai tutti sappiano di cosa si tratta, ovvero di catene di sant'antonio, schema di Ponzi, multilevel marketing, network marketing o come più vi piace chiamarlo. L'unico fatto certo è che perderete senz'altro i vostri soldi.
Appena ho realizzato la cosa, mi sono spaventato un po'. Abbiate pazienza, ma avevo poco più di vent'anni. Spaventato e anche deluso, perché in effetti non mi sarei aspettato una proposta del genere, o almeno, pensavo di dimostrare un'intelligenza superiore a queste cose, ma si vede che mi sbagliavo.
Appena il fotografo e la moglie si sono accorti che gli stavo sfuggendo come un capitone che intuisse la propria fine, hanno stretto la corda, assumendo un tono leggermente aggressivo: "Tu non ti rendi conto di ciò a cui stai rinunciando, guarda che questa cosa è appena partita, quindi ci troviamo in una posizione privilegiata e non rischierai assolutamente di perdere i tuoi soldi, anzi, ne guadagnerai a palate!".
Io, in uno dei soliti flashforward o prolessi che dir si voglia, già mi vedevo fare lo stesso discorso a qualcuno di mia conoscenza, che potesse essere così tonto da cadere in una trappola tanto elementare, oppure raccontare la stessa favoletta a mia nonna, a zie e zii o cugini, e confesso di aver faticato nel trattenere la risata che mi stava già salendo dalla pancia.
Appena compreso il senso di ciò che mi stavano dicendo, tutte le mie energie erano esclusivamente rivolte all'andarmene via da quel posto, cercando di non essere troppo offensivo, cosa che, data l'insistenza del mio ospite, non è stata per niente facile.
E oggi chi mi ritrovo in una email? La stessa stupida catena di sant'antonio, fatta passare come un'opportunità di guadagno basata sul network marketing in cui dovrei cercare di vendere ad altri sprovveduti un pacchetto che comprende ebooks, videoguide, scripts e audioguide sul web marketing, che è un modo come un altro per vendere aria e raggirare i gonzi.
Tra l'altro, le cose sono organizzate in modo così pacchiano e arruffato che mi domando davvero come possa esserci qualcuno che ancora ci caschi.
Siamo davvero tornati a questi sistemi? Basta solo una spolverata di elettronica e internet per fare il gioco delle tre carte che una volta si faceva davanti alla stazione centrale? Allora siamo messi proprio male.

giovedì 10 giugno 2010

Cuba Libre

Ieri ho fatto visita a quel famoso ex direttore di cui ho parlato in qualche vecchio post. Ha appena compiuto sessant'anni ma è già in pensione da qualche tempo, e l'ho trovato in gran forma. Abbronzato, i capelli ben curati, baffetti sale e pepe, una lacoste verde. Si è parlato di tutto e di niente, proprio come è sempre stata sua abitudine: saltare di palo in frasca per farsi un quadro generale attraverso un'infinità di piccole cose. Si lamenta per il poco lavoro che però, per lui, è solo un mezzo per tenersi vivo, per non passare le giornate a cazzeggiare, per dimostrare che è ancora un direttore con un certo nome. 
Certo, il mio problema è leggermente diverso: non so cosa darei per essere in pensione e occuparmi dei miei interessi, finalmente senza sensi di colpa, invece lavorare per me significa mantenere la famiglia e me stesso, pagare le spese condominiali, sopravvivere. Lui parla di crisi, di momenti di merda, poi in casa c'era la governante sudamericana che si dava da fare per pulire e riordinare, la moglie appena rientrata da una partita di tennis, l'iphone sul tavolo, il wireless per i computer e altre amenità che io non mi potevo permettere nemmeno quando il lavoro andava a gonfie vele.
Quando sono tornato a casa mi sono guardato allo specchio. Bianco come un cadavere, sovrappeso, sudaticcio, due occhiaie che fanno paura, occhi arrossati, barba e capelli senza un taglio che si rispetti e ispidi. In effetti credo che, in questi ultimi tempi, devo essere invecchiato non poco. Altro che età, come diceva Harrison Ford in un Indiana Jones, sono i chilometri! Una vita passata sul filo del rasoio. Un tira a campare durato trent'anni e che oggi sta rischiando di farmi male seriamente. Il lavoro che non c'è, C. che si fa rimandare come l'ultimo dei cretini, e io che ogni volta che mi guardo allo specchio mi trovo sempre più consumato.
Non è facile affrontare tutti i giorni con ottimismo e fiducia, ce ne sono alcuni in cui, il solo alzarsi dal letto per mandare i figli a scuola, è una sofferenza di Tantalo. E questo è niente: la prossima settimana inizieranno le vacanze e mi ritroverò i figli tutto il giorno in casa. Vedranno un padre che cazzeggia con un blog inutile, che produce quadri e installazioni che non interessano a nessuno, o che gira per la casa come un orso chiuso in gabbia da troppo tempo e che ha perso il lume della ragione. 
Quale esempio potrò essere per loro durante questi mesi? Come posso impormi verso chi ha poca voglia di studiare se io stesso passo le giornate in attività improduttive?
Il mio cuba libre del dopo pranzo ha sempre meno coca-cola e più rum. Un’ipocrisia per attaccarmi alla bottiglia? Mi viene in mente un amico che fumava e poi si rimpinzava di mentine, obbligandoci ad annusare il suo alito e chiedendo petulante: “Si sente che ho fumato?”. Noi rispondevamo immancabilmente che no, non si sente niente, ma mentivamo spudoratamente augurandoci che un giorno o l’altro i genitori lo scoprissero e finisse una volta per tutte questa patetica manfrina.
Questo modo di comportarsi mi mandava letteralmente in bestia e, con il passare degli anni, purtroppo non è cambiato gran ché.
Era uno che viaggiava per stereotipi, seguendo ciò che in quel momento faceva tendenza o fosse anche vagamente cool.
Come la mania per il porno e le puttane, con tanto di prevedibile finale a base di zecche. Se solo ripenso a quante volte mi sono seduto al suo fianco in automobile mentre era preda del suo “problemino”, mi viene da vomitare. Dovevo sorbirmi disquisizioni infinite su questa o l’altra attrice, su quella che quando ha girato quel tal film era ancora minorenne, sul porno come forma culturale e un sacco di baggianate del genere. Erano continui e estenuanti puttan tour, visite a sexy shop e videoteche. Poi, finalmente è arrivato internet e il peer to peer e anche, credo, una certa anestesia dei sensi, visto che un giorno se n’è uscito con un: “Adesso è il signorino che decide quando rizzarsi”. 
Si è fatto pure un viaggio fino in Giappone per realizzare il sogno di scoparsi una ragazza del sol levante, ma a quanto mi risulta, è tornato a bocca asciutta. Sarebbe bastata una puntatina in Thailandia o nelle Filippine o in Sri Lanka, ma lui si era impuntato col Giappone che non è certo il falso mito delle nordiche che la danno a tutti, e poi lì c’era un vecchio amico fuggito dall’Italia per storie di droga o che so io e quegli insulsi pupazzi dei film di fantascienza che costavano già allora un occhio della testa. Si era messo in testa di fare affari con internet vendendo pupazzi e robot ma alla fine credo abbia speso fior di milioni senza combinare un bel niente.
Poi c’è stato il periodo dell’amarino dopo cena, dei whisky scozzesi e inglesi, della tequila da enoteca e bottiglie di liquori da 50 euro e più. E allora, giri per enoteche specializzate a Monza o perfino a Varese. Un giorno mi disse: “Vedi questa? è la tequila più buona che esista”. Ma non faceva altro che scimmiottare la battuta di Bisio in Puerto Escondido. Dopo qualche tempo, parlando di liquori, ebbe il coraggio di dire: “Io non ho mai bevuto tequila in vita mia”. Come se fossimo dei poveri coglioni che già si erano scordati le sue vanterie da fine conoscitore di superalcolici.

mercoledì 9 giugno 2010

Avevo due figlie e non lo sapevo!

Finalmente ho potuto emettere la fattura per il part time di mia moglie. Anche se non so come andrà a finire questa faccenda. Sono molto soddisfatti di aver trovato una persona in grado di elaborare progetti creativi, ma ciò che cercavano, tanto per cambiare, era il solito smanettone. Per ora si prosegue così poi, si presume prima delle ferie d'agosto, si dovrà arrivare a chiarire la faccenda.
Nel frattempo ho scoperto di avere due figlie con il medesimo nome che frequentano la stessa classe. Chi lo dice? Milano Ristorazione ovviamente.
Ieri le maestre hanno consegnato a mia figlia due serie da sei di bollettini della mensa scolastica per un totale di dodici buste! E il bello è che avevo già pagato tutta la retta relativa all'anno scolastico 2009-2010. Telefono questa mattina al numero verde e, dopo mezz'ora, finalmente mi spiegano che risultano due bambine (entrambe mie figlie) con il medesimo nome e che frequentano la medesima classe. Ma pensa, non ci avevo mai fatto caso!
Come al solito si tratta di un disguido, naturalmente la figlia è una sola, mi dicono di non preoccuparmi, sistemeranno tutto loro. Faccio presente che figlia o figlie, ho già pagato ciò che dovevo e che non mi ha fatto molto piacere che, davanti a tutta la classe, mia figlia abbia fatto la figura di quella che non paga la mensa da chissà quanto. Parole al vento.
Non voglio essere maligno, ma chissà perché questo succede dopo che mia moglie ha fatto parte della commissione mensa.

martedì 8 giugno 2010

Che palle fare il genitore!

Cento euro per l'ennesimo mese di karate e l'iscrizione all'esame per il secondo grado di cintura marrone. E in cambio, C. come ci ripaga? Con un debito sicuro in matematica, in cui, nel primo quadrimestre, aveva sette, e non so quali altre sorprese nelle restanti materie.
Non mi piace fare confronti, non li trovo leali, ma a volte sono necessari. Sua madre e io abbiamo frequentato il liceo negli anni che vanno dal 1976 al 1980. Anni difficili, duri, sia politicamente che per le nostre famiglie che non hanno mai avuto grandi mezzi. I miei genitori lavoravano entrambi; uno come commesso viaggiatore e l'altra come impiegata. Non mi sarei mai sognato di approfittarmi di loro per una lunga vacanza all'insegna del: "tanto finché i fessi mi mantengono io penso a divertirmi". Anche se a divertirci ci pensavamo eccome, ma, come si diceva allora, sempre con una coscienza politica. Mai e poi mai avremmo pensato di nascondere i risultati delle interrogazioni o dei compiti in classe, perché era normale assumere le proprie responsabilità. Le insufficienze arrivavano anche per noi, ma sempre recuperate in modo da non essere rimandati a settembre in nessuna materia. E non è che nella nostra scuola fosse molto in voga il sei politico, anzi, non lo era per niente. Quello che facevi, le valutazioni che ottenevi, dovevi meritartele e, tra scioperi, rapimenti e terrorismo, non sempre era così facile.
Sono stati anche anni fantastici, creativi, in cui i ragazzi si erano finalmente riappropriati delle piazze, delle città grigie e tristi come Milano, gli indiani metropolitani, gli Skiantos, le Kandeggina Gang, Joe Squillo, l'indimenticabile Kociss (lo sballato di acidi del parco Sempione), tremate, tremate, le streghe son tornate, Kossiga con la k (e quanto fu lungimirante allora appellare così quel vecchio pazzo reazionario), il concerto per Demetrio Stratos, le canzoni politiche di Pietrangeli (finito a fare il regista per Costanzo e Berlusconi), gli Stormy Six, gli Inti Illimani, il centro sociale Macondo.
Anni di piombo, questo è vero, tanto che i miei ricordi sono in maggioranza in bianco e nero, ma anche di grande creatività e di libertà. Sì, potrà sembrare strano, ma c'era sicuramente maggiore libertà politica, personale e culturale, rispetto a un periodo come quello che stiamo vivendo. Lo penso da un bel pezzo, ma dire una cosa del genere rispetto agli anni delle Brigate Rosse e del rapimento Moro, non è mai stato molto popolare, eppure, poco per volta, vedo che anche persone come Giorgio Bocca o Curzio Maltese sembrano pensarla come me.
Oggi la situazione è completamente diversa, ma nemmeno così tanto. In fondo basta studiare il necessario per ottenere risultati; non capisco tutte queste scuse, questi sotterfugi, questo scaricabarile delle responsabilità. Hai studiato? Sei promosso. Non hai fatto un cazzo? È logico che adesso ne pagherai le conseguenze. Tanto per cominciare il mouse del computer di C. per adesso lo tengo io.

lunedì 7 giugno 2010

Forma mentis

Non tutte le settimane cominciano col buco.
La maledizione delle cinque fasi della dottoressa Ross sembra perseguitarmi. Alterno rabbia e senso d’impotenza a momenti più sereni, ma oggi prevale il rancore e lo scoramento per tutto ciò che faccio senza risultato.
Il tempo a disposizione mi accompagna lungo strade poco battute e, subdolamente, senza che me ne accorga, mi obbliga a pormi domande esistenziali che normalmente affiorerebbero un paio di volte l’anno.
Cosa voglio veramente? Di cosa posso lamentarmi? Come vorrei che si risolvesse tutto questo?
Ma non arrivano risposte. Solo recriminazioni e rimpianti. Come sarebbe andata la mia vita se...? Se non avessi frequentato quella scuola, se mia madre non fosse stata così castrante, se mio padre fosse stato più presente, se avessi avuto un aspetto differente.
Quest’ultimo, soprattutto, è un tema che mi ha sempre arrovellato. Infatti sono convinto che siamo in buona parte quello che gli altri vedono, che ci comportiamo in funzione dell’immagine mentale di noi stessi che abbiamo costruito in rapporto allo specchio rappresentato dalle altre persone.
Io, per esempio, come avrei modificato il mio carattere se non mi fossi sempre sentito così goffo e ciccione?
Bambino “normale” fino a sette anni, dopo un piccolo intervento sono ingrassato vistosamente nel giro di tre, quattro mesi. Pancia abbondante che sballonzola, tettine maschili, faccia pacioccona. Ne soffro enormemente, mi sento abbandonato al mio destino di ciccio palla, il bambino ciccione che deve per forza essere simpatico o tenero. Io invece divento aggressivo, molto aggressivo. Alzo le mani spesso e soprattutto volentieri. Mi piace picchiare chi mi guarda storto, chi prova a offendermi. Quasi sempre mi va bene, altre volte le prendo, ma non mi importa. Sono rispettato e questo mi basta. La mia vita pre-ciccia non esiste più, non la ricordo, è come se non fosse mai esistita. Io sono sempre stato così. In seguito sviluppo una teoria personale secondo la quale non si è grassi solo esteriormente ma che, principalmente, è una forma mentis. Chi è grasso oppure lo è stato o lo sarà, lo è prima di tutto nel suo cervello. E io sono sempre stato un ciccione per forma mentis, anche quando, durante l’adolescenza ero un ragazzo normalissimo che si comportava come se fosse ancora il ragazzino ciccione che all’oratorio si picchiava con tutti.
Ancora oggi che il destino mi ha nuovamente appesantito, fatico a comportarmi civilmente, sbotto con facilità, mi piacerebbe risolvere le questioni con un bel cazzotto in faccia.
Odio quelli che ti picchiano a parole, che ti umiliano senza metterti le mani addosso. Lo trovo sleale, ipocrita, meschino. Credo sia più nobile ferire e rischiare di essere feriti a viso aperto e non nascondendosi dietro la finta civiltà della convivenza in cui, è proprio vero, ne uccide più la penna che la spada.
Insomma, come sarebbe stata la mia vita se la mia forma mentis di ciccione fosse stata diversa? Credo sarei stato meno sensibile, meno portato, malgrado tutto, all’empatia, all’introspezione, all’elucubrazione. Sarei stato più sicuro, deciso, estroverso. E decisamente più bastardo. Su questo non ho dubbi.
Come nel film Sliding doors, che poi riprende un’idea di Krzysztof Kieslowsky, il gioco del “...e se avessi fatto questo invece che quell’altro”, è fin troppo banale, versione raffinata dell’altrettanto famoso “se mia nonna avesse le ruote allora sarebbe una carrozza” (o un tram nella versione più attuale).
È un gioco da salotto buono, divertente quanto inutile. Siamo quello che siamo, questo è tutto.

venerdì 4 giugno 2010

Le cinque fasi

Sono passati più o meno cinque mesi da quando il mio mondo è crollato. Come nel telefilm Dead Like Me ho passato le cinque fasi di questo rovescio. Un momento, lo so che queste cinque fasi legate all'elaborazione del lutto le ha teorizzate Elisabeth Kübler Ross, ma mi sembrava più simpatico riferirmi al telefilm.
La negazione. Non è possibile! È accaduto veramente, davvero ho perso il lavoro, come farò adesso?
La rabbia. Maledetto mafioso pelato! Se ti avessi fra le mani ti farei sputare tutta quella arroganza che hai.
La contrattazione o il patteggiamento. Ci ho provato. Altroché se ci ho provato. Avevo accettato buona parte delle clausole del suo contratto di merda, ma non c'è stato niente da fare. E sapete perché? A lui non fregava niente che io accettassi o meno, lui voleva solo liquidarmi perché avevo osato offendere la sua mascolina autorità col mio vaffanculo.
La depressione. Oh, quella la conosco bene, ce l'ho ancora addosso. Sto cercando di superarla, ma come la resina dei pini, non è facile toglierne tutte le tracce.
L'accettazione. Che fare altrimenti? Impazzire definitivamente, o farsi una ragione di tutto quanto e cercare di andare avanti?
Ma davvero ho superato tutto quanto? Il bello della teoria delle cinque fasi, è che ognuna di esse può ripresentarsi più volte e non è detto nello stesso ordine.
Per esempio, sento ancora l'irresistibile bisogno fisico di mettere le mani addosso a quel piccolo ometto presuntuoso. Mi prefiguro il mio pugno sul suo naso, il sangue che schizza come una fontana, il suo sguardo incredulo e terrorizzato. Vedo la sua testa pelata contro il muro che sbatte con un suono di legno. Sfondargli a calci milza, fegato e tutto il resto di quella merda che si ritrova in corpo mi darebbe un piacere fisico immenso. È normale?
Ciò che sicuramente sento come superati sono la negazione, la contrattazione e in piccola parte la depressione. Ma la rabbia, quella no, non riesco proprio a superarla. Come l'accettazione. Cosa dovrei accettare? Di essere stato trattato come una pezza? Come è possibile accettare mai un trauma del genere?
Fanculo anche la psichiatria e tutte le relative stronzate. L'unico metodo da usare in casi come questi sarebbe quello che mi ha raccontato Dorico, un anziano marchigiano di Ancona che ha fatto i soldi con le costruzioni.
"C'era uno che mi doveva dare dei soldi per un affare che avevamo fatto insieme - mi ha raccontato - e questo continuava a fare il furbo, mi diceva: adesso non ce li ho, ma se passi la settimana prossimo ti pago. Allora io gli ho detto: va bene, passo la settimana prossima. Sono passato da lui, era dentro il suo negozio, io sono entrato, ho tirato giù la saracinesca e gliene ho date così tante che lui piangendo chiedeva di smettere. Oh, il giorno dopo mi ha dato tutti i soldi e mi ha regalato pure un condizionatore!".

giovedì 3 giugno 2010

Festa o non festa?

Anche questo ponte è passato. Cinque giorni con moglie e figli non sono facili. C'è di buono che durante le feste il mio senso di colpa si affievolisce, forse perché so che la maggior parte della gente non lavora. O almeno così credevo. Ieri, festa della repubblica, sotto casa c'era il mercato come ogni qualunque mercoledì, quasi tutti i negozi, non solo in centro, erano aperti, nel condominio di fronte tagliavano l'erba del prato come niente fosse.
Non mi reputo un tradizionalista, ma che razza di festa nazionale è quella in cui tutti lavorano, fanno la spesa, girano per negozi? Sono sicuro che se chiedessi in giro cosa rappresenta il 2 giugno, ben pochi saprebbero rispondere.
Quando a Milano si usava ancora la parata militare, papà mi ci ha portato per un paio di volte. Mi ricordo i carri armati che facevano tremare l'asfalto e quel frastuono di metallo cigolante. Ricordo che, per il caldo e l'andatura troppo lenta, un carro cominciò a fumare dalle griglie del motore e il carrista prontamente spense il principio d'incendio con un piccolo estintore. Mio padre mi teneva la mano sulla spalla e sorrideva.

martedì 1 giugno 2010

E li chiamano blogger

Questa è proprio bella. La solita selezione di annunci che arriva ogni mattina nella casella e-mail, oggi ha una inserzione che mi incuriosisce.
Cercano articolisti e blogger. Non sarebbe proprio il mio campo, ma scrivere quattro cazzate non è poi così difficile: mi viene voglia di provare. Leggo meglio l'inserzione.
"Cerchiamo persone che AMANO scrivere! Il lavoro consiste nello scrivere articoli su tematiche differenti, che vanno dal calcio, alla moda, al gossip e altri argomenti quali cinema, auto, ecc.".
Fin qui, a parte l'uso delle maiuscole e il punto esclamativo, potrei anche starci dentro; non è che ami particolarmente scrivere, ma nemmeno mi dispiace e poi se si tratta di guadagnare...
"Il compenso per questo lavoro è di 500 euro per 1.000 articoli (senza vincolo di tempo) con la possibilità di ricevere il compenso ogni 200 articoli (100 euro)".
Cooosa? Prendo la calcolatrice perché non vorrei sbagliare il calcolo. Ma sono 50 centesimi ogni articolo! E hanno anche il coraggio di offrire un contratto di collaborazione occasionale di tre mesi.
Ammettiamo di scrivere quotidianamente dieci articoli, non credo di poterne scrivere di più, già faccio fatica a inventarmi ogni giorno qualcosa da pubblicare su questo blog, figuriamoci se dovessi scrivere di altre cose, o di calcio. Il risultato di una giornata lavorativa sarebbe di cinque euro, sei al massimo. Penso che chiedere la carità fuori da una chiesa renderebbe di certo dieci volte tanto.
Ma quello che non riesco a capire ancora è il senso dell'operazione, perciò faccio una ricerca e scopro che l'inserzionista è un "importante network di blog".
Io pensavo però che un blog lo dovesse scrivere chi l'ha creato, visto che la definizione, da wikipedia, è la seguente: "sito internet generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro". Infatti.
E allora, cosa significa questa operazione? Un'idea comincia a farsi strada: penso che ormai anche i sassi sappiano che una precisa strategia di marketing adottata da molte aziende multinazionali sia quella di fare pubblicità occulta o creare tendenze attraverso i blog e i social network. Non crederete davvero che tutti i gruppi pro nutella su facebook siano opera di glicemici adoratori della cremina marrone? O quelli della coca-cola, o dell'ultimo modello di non so cosa.
Probabilmente mi sono trovato di fronte a un'azienda che, di questo ramo del marketing, ne ha fatto la sua missione. Come si dice: smuovere le masse col finto passaparola, con il consenso creato artificiosamente, la brand identity drogata da finti blogger.
Secondo me non esiste altro modo per definire questa squallida gente che "Persuasori occulti" e non è una citazione a caso, ma il titolo del saggio di Vance Packard pubblicato ormai nel lontano 1968 con la traduzione di uno come Carlo Fruttero. Un libro che ogni consumatore e cittadino consapevole dovrebbe aver letto almeno un paio di volte.