giovedì 30 settembre 2010

Pasqualino

Prima di andare a scuola, E. lascia sempre nel mio studio il pupazzo di peluche di un cane. Si chiama Pasqualino e serve a tenermi compagnia. E. dice che ogni tanto devo dargli una grattatina sotto il mento e lui se ne starà buono e felice a guardarmi mentre lavoro al computer. Non devo dimenticare però di portarlo in cucina all’ora di pranzo, altrimenti potrebbe rimanerci male. E io, come uno stupido, lo faccio veramente. Non dico la grattatina, ma tenerlo in studio e anche in cucina, mentre mangio. Perché lui non è semplicemente Pasqualino, ma mia figlia che riesce, ubiquamente, a essere a scuola, ma anche dentro di lui. Non è un pezzo di stoffa e cotone che mi guarda e mi parla nella mente, è mia figlia, la sua personalità, la sua creatività, la sua fantasia. Riesco a sentirla realmente in quel pupazzo che mi guarda fisso con gli occhi lucidi e un buffo cravattino. È lei che si trova al mio fianco e credo che, reciprocamente, anche lei si senta più felice a scuola sapendo che ho vicino uno fra i suoi migliori amici.

mercoledì 29 settembre 2010

Leggere tra le righe

Incredibilmente, il lavoro con l’ex direttore continua a languire sulla scrivania del computer. Ieri, quando ha telefonato per chiedermi come si concatenano le gabbie di testo in XPress 8, ha detto che il cliente lo sta ancora valutando e che la decisione passa dal responsabile marketing al direttore per l’Italia: "Ma stai tranquillo, vedrai che, secondo me, ce lo portiamo a casa".
Sarà, ma quando le cose cominciano a ritardare non è un buon segno. in questi ambienti pensarci sopra significa: "Non siamo per niente convinti, ma abbiamo fretta. Che facciamo? Cerchiamo qualcun altro, ci facciamo fare un’altra proposta, o lasciamo perdere tutto quanto?".
Proprio mentre parlavo al cellulare, sul fisso ha chiamato F., un art director che ha fatto coppia fissa per anni con l'ex direttore, lavorativamente parlando s’intende.
È un peccato dover vivere nell’anonimato, perché sarebbe da vedere: tale e quale a Carl Marx ma molto più magro. Intercalando con un fondamentalmente ogni tre parole, ci ha offerto la concreta speranza di impaginare un nuovo giornale per un’organizzazione umanitaria. Un lavoro di un anno, dodici numeri da centoventi pagine, una buona prospettiva economica (la stessa offerta del mafiosetto pelato, solo che per lui avrei dovuto impaginare tre bimestrali, annunci di email marketing, inviti, diplomi, annual e compagnia bella). Quindi si tratta di una proposta molto allettante, perché permetterebbe a L. di mollare il part-time e seguire questo progetto senz’altro più remunerativo, e a me di arrotondare con lavori anche saltuari.
Ma per ora sono solo promesse, e con le promesse non ci si campa. La parola vale poco e niente e, fino a che non si firma un pezzo di carta, o si incassa un anticipo, le cose possono sfumare come la puzza di una scorreggia.
Mi vantavo di avere il dono, o se preferite, la maledizione (ho citato Monk, lo so), di capire le persone al volo. Mi basta poco, qualche incontro, a volte anche cinque minuti, per rendermi conto con chi ho a che fare. Il carattere, le idiosincrasie, i modi di essere, soprattutto quelli a cui sono allergico.
Raramente sbaglio, e ci riesco benissimo sia con gli adulti che con i bambini.
Come in Io e Annie di Woody Allen, nel quale i compagni di scuola del suo alter ego prevedevano con naturalezza e serietà quale sarebbe stata la loro professione futura. Per esempio, una bambina diceva come niente fosse: "Io batto il centro" e un’altro: "Io, prima ero eroinomane, ora sono morfinomane" e via dicendo.
Quello che invece non sono bravo a capire è quando le persone dicono una cosa intendendone un’altra. Oppure quando un "sì" significa "no", un "forse", "scordatelo" e un "ci mettiamo d’accordo", "se vuoi questo lavoro mi devi allungare la stecca".
Leggere tra le righe, diceva mia madre, e io mi maceravo perché, nella mia ingenuità, pensavo che le parole significassero quello che effettivamente esprimevano. Allora cominciava la paranoia di capire se, dietro la frase più semplice, si nascondesse qualche messaggio che non riuscivo a comprendere, oppure significasse semplicemente ciò che esprimeva.
Oggi è ancora così: se qualcuno mi dice che ho fatto un buon lavoro, io ci credo, se mi dicono: "magari ci vediamo per un caffè", io penso davvero che abbiano piacere di bere un caffè con me.
Invece il mondo gira diversamente e, spesso, chi fa un complimento ti vuole fregare, mentre quell’altro, che ti trattava con freddezza, non voleva scoprire troppo presto le sue carte.
Ma perché tutta questa manfrina? Perché F. (o se preferite il fratello magro di Carl Marx), di solito così sulle sue e così moralmente retto, ha cominciato a parlare male dell’ex direttore, mettendomi in guardia verso certe sue abitudini non proprio piacevoli. Per esempio dice che a luglio l’ha fatto lavorare come una bestia per presentare un progetto e, fondamentalmente, non si è ancora capito come è andato a finire. Che ha il vizio di far lavorare le persone a iniziative che non si capisce da dove partano, o se, e da chi, siano state richieste e che, molto spesso, finiscono in niente.
"Tanto per lui che vuoi che sia? Scrive quattro titoli, taglia un pezzo e, con un’ora di lavoro, se l’è cavata. Tu invece ti devi inventare un progetto grafico, preparare un certo numero di pagine campione, fare aggiustamenti vari, perderci giorni e giorni e poi, fondamentalmente, rischi che non se ne fa nulla”.
Cazzo! Se le cose stanno così non siamo messi bene. In effetti avevo il dubbio che l’ex direttore, ancora giovane e già in pensione, avesse qualche problema nell’affrontare una vita senza lavoro.
Mi spiego meglio: per uno che è sempre stato abituato a comandare, dirigere giornali importanti, essere ascoltato e rispettato, intervistato dalla tv e vedersi passare sotto al naso le meglio gnocche in circolazione, non dev’essere tanto facile mettersi in disparte e fare la tranquilla vita del pensionato. In effetti credo abbia un po’ la preoccupazione di dimostrare che è ancora uno in gamba, uno che produce e che si dà da fare. Uno che, se vuole proporre un qualche tipo di iniziativa editoriale a uno stronzo come Linus, e quello nemmeno gli risponde, gli girano i coglioni e non poco.
Adesso mi ritrovo con lo stesso problema di quando ero bambino, ovvero leggere tra le righe di tutte queste persone che parlano parlano, ma che fin’ora non mi hanno fatto guadagnare un solo euro.

martedì 28 settembre 2010

Il biglietto vincente

Ecco che ci risiamo, ricominciano i sogni assurdi legati ai soldi, alla mancanza di lavoro e al futuro incerto. Questa notte per esempio, mi ritrovavo un biglietto vincente di una specie di gratta e vinci, legato però alle estrazioni del lotto. Una roba che, tra l'altro, neppure esiste. Insomma, avevo questo biglietto da verificare e così sono andato da chi l'aveva venduto, ovvero l'edicolante sotto la stazione della metropolitana. E nel sogno era proprio lui: la stessa faccia da giocatore d'azzardo di periferia, emaciata e giallastra come se fosse appena guarita da una rissa in cui aveva avuto la peggio, l'occhio spento e la voce bassa. La novità è sua figlia, che non mi risulta esistere nella vita reale, una bella ragazza sui venti o forse meno, capelli scuri e sorriso da bambina. Il biglietto lo controlla lei e, dall'espressione, capisco di avere azzeccato almeno quattro numeri in uno schema che sembra quello delle parole crociate. Non so cosa voglia dire, o meglio, quanto possano fruttare questi quattro numeri, ma quando il padre le dice di passare sul retro insieme a me per controllare meglio, credo che si possa pensare a una discreta cifretta.
Me ne convinco quando la ragazza, che mi ha fatto accomodare in una specie di appartamentino che somiglia a una portineria, comincia a dire cose che non comprendo, e a sorridere continuamente vicino alla mia faccia. Sta cercando di sedurmi, questo lo capisco anch'io, e ci sta riuscendo benissimo. Lo so che lo fa per fregarmi il biglietto; gli unici rapporti che posso avere con ragazze della sua età sono quando mi chiedono l'ora per strada, dandomi del lei e chiamandomi signore. Porta jeans a vita bassa e un top che lascia scoperta la pancia, che continua a esibirmi mentre mi tocca leggermente la spalla e accosta la testa alla mia per mostrarmi meglio le combinazioni sul biglietto attraverso una mascherina preforata.
Non capisco più niente, non so cosa dico, non so cosa dice lei, vedo solo il suo sorriso e il suo ombelico e mi ritrovo, senza accorgermene, privo del mio biglietto vincente.
Sembro proprio un coglione, come quei cassieri di banca che stragiurano di essere stati ipnotizzati da qualcuno che li ha costretti a consegnare mazzette di soldi contro la loro volontà. Mi maledico per quanto sono stato stronzo a fidarmi di uno che mi fa andare nel retro dell'edicola con la figlia ventenne e mi viene da piangere pensando a come mi hanno fregato facilmente. A chi lo vado a raccontare adesso? Con quali prove a sostegno dell'accusa? Chi mai potrebbe credere a una storia così scema?
Mi risveglio lentamente, senza capire se sia stato solo un sogno, oppure ho sognato ciò che è già realmente accaduto. Con un senso d'angoscia che scompare solo quando sono ben convinto che tutto questo è stato solo il frutto del mio inconscio. E il bello è che continuo a sperare che quella ragazza mi seduca nuovamente per fregarmi il biglietto.

lunedì 27 settembre 2010

C'è vita su Marte

Il lavoro con l'ex direttore langue sulla scrivania del computer, "Ci stanno ancora ragionando sopra...", mi ha detto venerdì mattina. Non credo al voodoo, figuriamoci al malocchio, però...
Da ragazzino divoravo i libri fantarcheologici di Peter Kolosimo, quelli sulla parapsicologia di Massimo Inardi, i film sugli zombie e i fumetti di zio Tibia. Ma non significa che credessi che i maya fossero i discendenti di un'antica civiltà extraterrestre o che i vari effetti speciali della bibbia fossero opera di potenze aliene e, tanto meno, ho mai creduto che esistesse l'aldilà, o che qualcuno, come crede per esempio il marito di mia cognata, possieda poteri paranormali per parlare con i morti.
Una volta sua moglie, la sorella di L., sostenitrice dei presunti poteri del marito, buttò lì che mio padre, morto da qualche tempo, avesse avuto un qualche tipo di contatto con suo marito.
"Assì? - le risposi - e che cosa gli ha raccontato di bello?". Non ricordo di preciso come intendesse coinvolgermi, ma mi pare fosse qualcosa di terribilmente complicato e ridicolo, e che dipendeva tutto dai poteri del marito (che poi sarebbe il famoso tipografo). Le dissi che poteva andare affanculo, lei e quel demente di suo marito, e che non provassero più a tirarmi dentro in cose così imbecilli, se non altro per riguardo alla memoria di mio padre.
Ora che ci penso, quando morì mia suocera, lei probabilmente ci stava già parlando, perché, malgrado l'avessimo avvertita che era questione di ore, se l'era presa molto comoda, arrivando quando ormai la frittata era fatta.
Anche in quel caso, non poté fare a meno di uscirsene con: "Ma non avete sentito che profumo di violette (o ciclamini o qualcosa del genere) c'è in camera di mamma?".
Credo sia inutile dire che non percepivo assolutamente nessun profumo, semmai, un odore non troppo piacevole di morte. Che voleva dimostrare? Voleva creare un'aura di santità attorno alla madre che non aveva nemmeno salutato per l'ultima volta per non perdere una giornata di mare? Ma falla finita!
Ho molto più rispetto di mia moglie, che, con un figlio piccolo a casa, trascorreva ore e ore a fianco di sua madre, ormai nel nirvana della morfina, cantandole canzoni di Rosana, quella di Luna Rotas, che, naturalmente, non abbiamo più riascoltato da quella volta.
E quell'altra volta in cui, sempre lei, fervente cristiana persa in sordide stupidaggini che, secondo me, il marito crea ad arte per divertimento personale, andò a una messa di Milingo per salvare la vita al fratello, condannato da un tumore ai polmoni. Ah, beata ignoranza! Del tutto simile a quella dimostrata dall'altro fratello che se ne tornò forse dalla Sardegna con una miracolosa pozione a base di aloe vera di non so che frate. A., naturalmente morì dopo solo una seduta di chemioterapia, come la medicina umana aveva pronosticato.
Chissà se il tipografo magico avrà parlato anche con lui? Peccato che l'unico a sopportare la vista di quell'enorme siringone di non so che liquido sparato nel petto di mio cognato sono stato io. Come amico, non me la sono sentita di lasciarlo da solo mentre degli estranei lo stupravano a quel modo.
Però dicevo che, mentre il lavoro dell'ex direttore langue, ieri, domenica, ne abbiamo approfittato per inviare ancora un bel po' di mail autopromozionali. Sarà stupido, ma in questo momento è l'unica cosa che ci viene in mente di fare.
L. non ne può più del lavoro part-time che si è rivelato una mezza trappola e per di più mal pagato, e io, anche se non disdegno di dedicarmi ad altro che non sia il lavoro, non reggo più ai sensi di colpa, col risultato che qualunque cosa faccia mi sembra di compiere chissà quale reato contro l'etica o la morale o la mia famiglia.
Incredibilmente, anche se domenica pomeriggio, abbiamo ricevuto due risposte: una che ci metteva a conoscenza che il destinatario aveva girato la nostra mail alla persona più adatta della casa editrice, e un'altra in cui ci si offriva un incontro senza impegno, tanto per conoscerci.
Questa è una delle poche cose che mi piacciono di Milano. Una qualsiasi domenica pomeriggio trovi qualcuno che lavora, che è presente in ufficio, fosse anche un direttore editoriale, o un art director. È come sapere che non siamo soli nell'universo, che in fondo, c'è vita anche su Marte.

venerdì 24 settembre 2010

Come Salgari

C’è una ragazza che vedo dal balcone mentre fumo l’unico toscano della giornata. Dev’essere un’impiegata di uno dei tanti uffici che hanno aperto in zona negli ultimi tempi. 
Qualcuno non è entusiasta di questa proliferazione umana subita dal quartiere in qualche anno. Io ne sono felice. Troppi vecchi pieni di acredine, pochi giovani viziati e senza figli. Era un pezzo di città che stava per morire di desolazione e solitudine, oggi è tornato a essere vivo, con tanti bambini. E che importa se la maggior parte sono filippini, peruviani, ecuadoregni, marocchini, africani e cinesi.
Questa ragazza insomma, non è propriamente il mio tipo preferito. Non dico fisicamente, ma proprio come persona. Sono quasi sicuro che sia una a cui piace uscire la sera per locali, magari in corso Como o porta Ticinese, o in corso Garibaldi. Una da happy hour, o se capita, un tiro di coca. Ma queste sono favole che costruisco nella mia testa, come se fosse possibile capire una persona vedendola dal balcone per qualche minuto. Eppure, sono convinto che un corpo, una fisicità, un modo di muoversi, di vestirsi di comportarsi, di camminare, di cosa si fa o non si fa, possa essre più rivelatore di quanto sembri.
Lei, per esempio, si veste in modo abbastanza personale e sempre diverso. Segue la moda, ma a modo suo, con accostamenti originali. È sicura di sé, perché non disdegna di indossare shorts di jeans, anche se ha cosce imponenti, polpacci importanti e caviglie ben salde. Se ne frega di portare scarpe col tacco che potrebbero invece slanciarla, anche con vestiti di cotone bianco.
Spesso raccoglie i capelli scuri in due treccine buffe e sfacciate, che la fanno sembrare più giovane di quel che è, tutti i giorni mangia un pezzo di focaccia, o di pizza, butta il sacchetto nel cestino all’angolo, si accende una sigaretta e, dopo essersi seduta sul gradino della recinzione della casa di fronte, si attacca al telefono con qualche amica.
C’è sempre qualche animale che la scambia per una puttana, o la approccia malamente, ma lei lo rimette subito al suo posto con poche parole, senza scomporsi più di tanto.
Forse comincio ad assomigliare ai due vecchi di cui ho parlato ieri, o forse no. Ma come potrei passare mezz’ora sul balcone fumando un sigaro, senza notare le persone che passano per la via? Col tempo, mi sono accorto che, come anch’io ho le mie abitudini, anche la maggior parte della gente le ha. 
Ci sono quelli che passano in auto sempre alla stessa ora, la ragazza che torna a casa a mangiare e, dopo un quarto d’ora ripassa per tornare al lavoro, la cameriera del bed&breakfast che finisce il turno, ed è così felice che quando cammina pare quasi che saltelli, quel tipo pelato e corpulento in giacca e cravatta che si accende sempre mezzo toscano davanti al mio balcone e passeggia lentamente avanti e indietro, quell’altro che si crede ancora un piacente ragazzo, anche se ormai i capelli sono più grigi che neri, che se ne va sempre alla stessa ora in sella a una orribile e anonima moto grigio metallizzato, quell’altro che parcheggia il suo furgone bianco e, accompagnato dal suo cucciolo di cane lupo, torna a casa per il pranzo...
Come Salgari ha scritto di pirati e tigri, di terre lontane e soldati spietati senza mai alzare il culo dalla sedia, guardo il mondo che passa sotto la mia casa, un mondo fatto di persone con storie da raccontare o da immaginare, ogni giorno diverse eppure familiari.

giovedì 23 settembre 2010

Sbattersi

Ah, la soddisfazione di una piena giornata di lavoro! È quanto è accaduto ieri. Quasi non ero più abituato e non sapevo se esserne felice oppure no. Ma la sera, dopo aver avuto la quasi certezza che il lavoro  offerto dall'ex direttore andrà in porto, mi sentivo finalmente utile e soddisfatto.
Non risolverò i miei problemi, perché ciò di cui ho bisogno è qualcosa di continuativo che abbia una rendita costante, però è almeno un inizio. Una boccata d'ossigeno per le mie finanze ridotte a grattare il fondo del barile con le unghie.
L'importante è rimettersi in circolazione, "sbattersi", come si diceva ai miei tempi ma, cosa buffa, oggi non più per il fumo, ma per lavorare.

mercoledì 22 settembre 2010

Tempo di raccolto

Autunno, si sa, è tempo di vendemmia. Maturano le olive, si raccolgono funghi, castagne e anime.
Ne sa qualcosa il prete della parrocchia, che da settembre e per tutto l’inverno, ma specialmente in autunno, suona le campane a morto anche più volte al giorno.
Troppo facile allora, per uno come me che passa le sue giornate in questo quartiere, citare Hemingway e dire: “...non chiedere per chi suoni la campana. Suona per te”.
Un po’ è vero, perché il più delle volte non ho bisogno di chiedere per chi suoni, perché già lo so. Dopo oltre quarant’anni passati sempre nello stesso pollaio, posso dire di conoscere, almeno di vista, quasi tutti i polli, le galline e anche i galletti.
Di alcuni, onestamente, non posso che rallegrarmi che liberino il mondo dal loro fetore insopportabile, per altri sono sinceramente dispiaciuto.
Più che nel mio condominio, invero piuttosto avaro di morti e funerali - mio padre, mia nonna, la coppia del piano di sopra, la vecchia signorina ex insegnante con l’amichetto coetaneo che l’aspettava sotto casa per ore e ore e a cui ha sempre negato anche solo di accompagnarla fino alla porta, il padre di un’amico d’infanzia, quel pazzo di siciliano che prendeva la moglie a calci in culo in mezzo alla strada, l’operaio sardo che viaggiava con tutta la famiglia a bordo di un vespone - dicevo che è il condominio di fronte che ha offerto gli spettacoli più forti.
C’era la coppia al piano rialzato: due vecchi biliosi, pettegoli e cattivi. Lei, ex portinaia, passava le giornate sul balcone a spiare chi entrava, usciva o transitava davanti al condominio. Non aveva nemmeno bisogno di alzarsi dalla sedia, cominciava a inclinarsi in avanti sempre di più, fino a sfiorare la ringhiera col mento, girando svelta la testa da una parte e dall'altra come un grosso rettile.
Lui, camionista in pensione - di quando fare i camionisti voleva dire guadagnare fior di soldi - era uno fra gli esseri più spregevoli che abbia mai ospitato questo pianeta. Lungo, magro e pelato come un avvoltoio, trascorreva il suo tempo seduto sul balcone. L’intento era di spiare ogni essere vivente di sesso femminile che si trovasse a passare. E non era esclusa una veloce masturbata in pubblico quando l’assenza della moglie lo permetteva. 
Il giorno in cui un’ambulanza ce lo tolse di torno, sperammo che non sarebbe mai ritornato. E invece tornò; con una gamba in meno, ma tornò ad appollaiarsi sul balcone come un uccello necrofago, ancora più affamato, ancora più avido di vita. 
Pensai che per estirpare una malaerba del genere si dovesse procedere per gradi: prima una gamba, poi l’altra, poi le braccia e tutto il resto, per seppellirlo senza che se ne accorga, altrimenti avrebbe schifato anche la morte. Finalmente, dopo qualche tempo, schiattò senza troppe storie, ma ci volle sputare in faccia per l’ultima volta, quando se ne andò a bordo di una enorme mercedes funebre, con  corone a non finire in un esternazione di cattivo gusto come raramente ho mai visto. 
La moglie, forte come un toro e di pelo rosso, ha resistito alla dialisi per alcuni anni, poi finalmente ha raggiunto il marito che, a quanto pare, non aveva alcuna fretta di ritrovare.
Di tutt’altro stile è stato il funerale del vecchio partigiano del primo piano, a fianco dell’ingresso.
In effetti non sapevo si trattasse di qualcuno che si fosse impegnato in qualcosa di così nobile. Io lo vedevo come un vecchio massiccio, duro come una quercia, con un carattere scontroso o quanto meno poco amichevole. Confesso insomma che non mi era eccessivamente simpatico, a parte quando doveva spostare l’auto sul marciapiede per la pulizia delle strade. 
Aveva una vecchia ford fiesta che risaliva a prima del 1980, la teneva lucida e in esercizio come un cesso appena pulito. Ma anche se in gioventù avrà avuto dimestichezza nel maneggiare armi contro nazisti e fascisti, la guida non era di sicuro il suo forte. 
La manovra per spostare l’auto sul marciapiede, cominciava con delle sgassate potenti e prolungate, poi, con il motore così su di giri che pareva chiedere pietà, cominciava la lenta risalita del marciapiede. Questa operazione prevedeva tre o quattro altalenanti andirivieni per ogni singola ruota, col motore che implorava di morire facendo vibrare il cofano. Ma la parte più complessa era l’allineamento orizzontale che procedeva in modo estremamente lento ed esasperante, fino ad arrivare a pochissimi centimetri dal muro. Era uno spettacolo al tempo stesso ipnotico e irritante, ma che non avrei perso per niente al mondo.
Morì che era novembre, o forse ottobre, non ricordo bene. Quella mattina scendeva una neve improvvisa, asciutta e fine, spinta da un vento inaspettato che la fece aderire sulla strada e le auto parcheggiate nel giro di qualche decina di minuti. Una banda aspettava infreddolita l’uscita della bara, con l’ottone dei tromboni che rifletteva un cielo grigio e le folate di vento che infilavano la neve negli strumenti. Quando uscì la bara cominciarono a intonare Bella ciao. Vecchi partigiani accompagnati da bandiere gonfie di medaglie, cominciarono ad incamminarsi curvati dal vento e dalla neve. Non in chiesa, dove un vecchio partigiano comunista non sarebbe entrato nemmeno da morto, ma direttamente al cimitero, lasciando le righe nere delle gomme del carro funebre sulla strada imbiancata. Una scenografia che raramente Milano offre ai suoi vecchi.
Ieri è toccato alla mamma di quello che in famiglia chiamiamo “il Pinocchietto”. 
Non so perché questo vizio di dare un soprannome a chiunque ci capiti a tiro. Forse una riminescenza della vita contadina dei miei nonni, vita che, in paesi in cui tanti avevano lo stesso nome, l’identità veniva dal soprannome, a volte buffo altre dispregiativo, che si sarebbe portato appresso per tutta la vita. Per esempio, mio nonno materno era per tutti “Crustin” dalle croste di pane, mentre un’altro era “U curtu”.
Insomma, visto che non conosco il cognome di quella strana famiglia formata da due fratelli maschi e i loro genitori, li abbiamo identificati come la famiglia di Pinocchietto. 
Pinocchietto è uno dei due fratelli, credo il più anziano. Avrà intorno ai quarant’anni, magro come un chiodo, barbetta caprina e occhiali. Cammina come se le gambe andassero per i fatti loro, a volte anche un po’ di sbieco, con le braccia che marciano come quelle di una marionetta. 
Ex alpino, non si perde un raduno, dinoccolandosi verso la metropolitana in vestiti borghesi e cappello con la piuma d'aquila, spesso parlando da solo come la madre. Inutile dire che non si è mai sposato, né mai l’ho visto in compagnia di una donna. Forse dev’essere un po’ pazzo, uno di quei tipi che fanno scappare qualunque femmina. 
Il fratello è più giovane, con pochi capelli, ma più umano nell’aspetto e nell’andatura, tanto che, qualche anno fa, ha messo incinta la Secca, una bionda allampanata e magrissima che gira tutti i negozi del quartiere a credito, e che ogni tanto scompare per qualche mese per calmare le acque. 
Una sera la madre si è presentata sotto il condominio urlando alla famiglia di Pinocchietto che quel puttaniere di loro figlio avrebbe dovuto sistemare la faccenda, perché altrimenti con una bella denuncia alla polizia, gliene avrebbe fatte passare di tutti i colori. E, tanto per cominciare, direi che sputtanarlo davanti a tutto il quartiere era già qualcosa. 
Per quanto ne so, lui e la Secca non si sono mai sposati e ognuno è rimasto ad abitare a casa sua. Però è nata una bambina che viene sballottata qua e là e comincia ad assomigliare in modo impressionante a sua madre.
Il padre di Pinocchietto è un omino piccolo e secco, con un collo da gallina che fa lo scrutatore a ogni tornata elettorale, una volta per il pci, oggi non so.
Ma la vena di follia non può che derivare dalla madre: una donna sui sessanta, tonda come una mela e che cammina con immane fatica, un passo dopo l’altro, come se avesse le scarpe piene di puntine da disegno. E mentre cammina, parla. Non si sa con chi o di che cosa. È un chiacchiericcio sommesso, accompagnato da appropriate espressioni del viso e qualche vago gesto delle mani. Lo fa sempre: quando esce, quando torna a casa, quando la incontro per strada. Ma non credo che questo le abbia impedito di lavorare, perché gli orari sono quelli tipici degli uffici.
L’altra sera l’hanno portata via con l’ambulanza a sirene spiegate e, nel giro di una giornata, il portone si è listato a lutto.
Chissà che ne sarà ora di Pinocchietto, suo padre e suo fratello. Tre uomini soli, non tanto svegli, capaci di combinare cazzate grosse come case, senza più quella pazza della madre a mettere un po’ di ordine in quelle testoline.

martedì 21 settembre 2010

Tipografi

L'editore siciliano chiede un preventivo di stampa per il pieghevole. Pare impossibile, ma sembra che a Messina non ci siano tipografie in grado di stampare il settanta cento.
Non amo organizzare questo genere di cose. Preferisco fare il mio lavoro come si deve, e finirla lì. Soprattutto perché non ho mai avuto buoni rapporti con tipografie e fotolito che, dopo l'avvento del desktop publishing, hanno rovesciato tutte le responsabilità sui grafici. Tanto che non credo esista al mondo una singola tipografia che abbia mai ammesso il seppur minimo errore proprio.
Il primo tipografo con cui ho avuto a che fare era il signor C., dalle parti di Sesto San Giovanni. Discretamente affabile, ma erano ancora tempi in cui si lavorava con forbici colla e trasferibili, perciò non era così facile scaricare il barile. 
L'ho incontrato nuovamente qualche anno dopo; lavoravo in Piazza Novelli alle dipendenze di un siciliano che aveva servito negli alpini. Il risultato era un ossimoro vivente: un ometto alto forse un metro e sessanta, con pizzetto da alpino, voce impostata tipo quella di Roberto Vacca, e un po' ci assomigliava pure. Un ego così fuori dalle righe da apparire a volte surreale.
Mentre lavoravo con lui, avevo anche qualche piccolo cliente e, non conoscendo altre tipografie, mi sono rivolto al signor C.
Sono rimasto letteralmente sbalordito quando, dopo aver denunciato per licenziamento ingiusto il piccolo alpino, il signor C. accettò di testimoniare contro di me. E per dire cosa poi? In seguito ho saputo che quel maledetto alpino in miniatura mi accusava addirittura di furto, cosa che il giudice ha commentato con un sorriso e una scrollata di testa.
Altro lavoro, altra tipografia; fra Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo. Una di quelle grosse, con un sacco di ragazzetti smanettoni curvi sui computer praticamente a cottimo. Commettevano errori su errori, ma erano così smisuratamente maleducati da accusare sistematicamente i grafici di qualsiasi cosa. Pure della deriva dei continenti. La musica cambiava se il cliente era una casa editrice di un certo livello: l'attenzione si alzava a livelli quasi civili e gli errori corretti senza tante storie.
Poi c'è quella tipografia che definirei storica per Milano, fondata verso la metà degli anni venti e, in seguito, gestita con piglio militaresco dalla moglie e poi dalla figlia del fondatore. 
Anche loro erano arrivati a pretendere lavorazioni al limite dell'umiliante e del grottesco, senza mai ammettere qualsiasi errore, e arrivando a minacciarmi in un modo che non può che definirsi mafioso, per aver rifiutato un lavoro infame e mal pagato che pensavano avrei accettato con gratitudine.
Uno invece da cui ho preso una sonora fregatura, più che di fotolito, si occupava di stampa digitale. Era un tale casinista, inaffidabile nei tempi di consegna, bugiardo e probabilmente pure ladro. Per colpa sua ho perso un cliente che, per quanto capriccioso e isterico, era pur sempre uno dei nomi più importanti dell'editoria italiana.
E che dire della tipografia da cui si serve il mafioso pelato? Ha prezzi inferiori anche del trenta, quaranta per cento rispetto a chiunque. Come fa? Impossibile saperlo. Girano voci che il signor P. sia indebitato fino al collo e che, pur di far girare le macchine e quindi pagare i debiti, lavori sottocosto o quasi in perdita.
Questo non toglie che sia uguale a tutti gli altri nel fare i propri interessi, calpestare il più debole per ingraziarsi il forte, tradire peggio di una puttana, mentire come Giuda.
Quando l'ho diffidato dall'usare e diffondere le mie gabbie grafiche, non ha fatto altro che passare la mia mail al mafioso pelato, fregandosene altamente e scegliendo, come sempre e senza la minima originalità, di stare dalla parte sbagliata.
Per questo la richiesta dell'editore siciliano mi lascia piuttosto freddo. Principalmente perché per il momento ho esaurito le tipografie a mia disposizione e poi perché è gente con cui non amo trattare.
Rimane mio cognato. Anche lui ha una tipografia a Rozzano, e anche lui rientra perfettamente nel clichè (tanto per stare in tema) del perfetto bastardo.
Faccio il grafico da una vita e lui il tipografo da prima che io finissi il liceo. Sarebbe potuta essere una bella collaborazione, sostenuta anche da un minimo legame famigliare e pure una vaga amicizia. Invece non ha fatto che cercare di approfittare di me, dei miei contatti lavorativi, del mio lavoro, senza mai dare niente in cambio, senza mai farmi entrare nei suoi giri, presentarmi un cliente. Ma questa è un'altra lunga storia.
È con grande disgusto che mi rivolgo a lui per chiedere un preventivo, e in cuor mio spero ardentemente che a Messina ci sia chi possa portargli via il lavoro.

lunedì 20 settembre 2010

Vivere senza denaro

Con mia moglie, abbiamo approfittato del fine settimana per capire a che punto stiamo.
Gli ultimi risparmi si stanno esaurendo velocemente. Palestra e corso di chitarra per C., per fortuna, li ha pagati la nonna, ma ci sono i libri di seconda, e poi i vestiti per E., la piccola, che cresce come l'insalata.
Il rinnovo della tessera atm, e, fra circa un mese, l'assicurazione dell'auto e le prime rate delle spese condominiali più quelle del fondo pensione.
I piccoli lavori che ho fatto in luglio, non sono ancora stati pagati; di quello proposto qualche giorno fa dall'ex direttore, non so ancora niente e il lavoro di mia moglie, a conti fatti, è una gran fregatura.
In pratica fatturo circa 1.100 euro lordi per un part time mensile.
Dedotti il 20% di ritenuta d'acconto, l'iva, e un altro 15% per irpef, fondo pensione eccetera, rimangono 580 euro netti.
Se li divido per una media di 20 giorni lavorativi risultano meno di 30 euro al giorno, ovvero nemmeno 7 euro all'ora. Tutto questo per un lavoro altamente specializzato, dove bisogna sapere di grafica, design e simulazioni in photoshop e illustrator.
La mamma peruviana di un compagno di scuola di E., facendo le pulizie, guadagna 15 euro l'ora netti e a libretti.
Credo che in tutto questo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato, qualcosa che non dovrebbe esistere eppure c'è.
Come è successo che un grafico con trent'anni di esperienza sia valutato meno, non dico di un idraulico o un elettricista, ma addirittura di chi fa le pulizie e, badate bene, non stira e non pulisce il water?
Cosa dovrei rispondere a chi dice che dovremmo reinventarci? Che si devono trovare nuove strade, nuovi modi di proporre la nostra professione? In questo momento non posso fare altro che pensare di andare a servire qualcun altro; è senz'altro più conveniente e remunerativo.
Che ne so, potremmo proporci anche in coppia: mia moglie come donna delle pulizie e io come guardiano notturno factotum.
E come se non bastasse, su repubblica di venerdì 17 settembre, mi tocca pure leggere l'ennesimo articolo bufala sul vivere gratis, ovvero senza soldi. "Bello, se solo fosse vero" mi sono detto.
Poi, come al solito, si scoprono i sotterfugi, il non detto, le infantili furbizie, e capisco che al di là del baratto di oggetti o prestazioni o, addirittura, del raccattare il cibo scartato dai supermercati, non c'è niente di nuovo sotto il sole.
Dato che non vivo in una baracca a fianco della ferrovia, in un centro sociale o in una casa occupata, come le pago attraverso il baratto le spese condominiali? Cosa propongo come merce di scambio all'amministratore che mi chiede rate da 1000 euro? Il culo di mia moglie?
Cosa propongo a milano ristorazione in cambio della mensa per mia figlia? Due bici sgangherate che ho riverniciato e riparato sul balcone di casa? O il culo di mia moglie?
Cosa dico all'azienda energetica quando non ho i soldi per pagare le bollette? Gradite il culo di mia moglie? Anzi, per non passare da maschilista, ci metto tranquillamente anche il mio.
O preferiamo ancora starci a prendere per il culo con quella gran stronzata che sono le banche del tempo, iniziativa così vecchia, logora e inutile, ma che ogni tanto cercano ancora di farci passare come la via futura alla vita senza denaro?
Quando il tuo simpatico comune ti chiede l'imposta addizionale sulla casa tu che gli rispondi? Le vendo un po' del mio tempo oppure, a scelta, il culo mio o di mia moglie?

venerdì 17 settembre 2010

Credete di essere felici?

Ci avevo visto giusto. Ha chiamato l'editore siciliano per chiedermi una brochure aggiuntiva a quelle di luglio, e ho capito che ritiene alto il prezzo per la riduzione del pieghevole.
Eppure centocinquanta euro lordi per una giornata di lavoro non mi sembravano così tanti.
Forse sbaglio nel paragonarmi a un idraulico, o un elettricista, forse nell'immaginario collettivo un grafico è un buontempone che non avendo niente di meglio da fare, si diletta a pasticciare col computer, ma in fondo non è mica che faccia un lavoro serio.
L'idraulico almeno si sporca le mani di merda, l'elettricista rischia una bella scossa o almeno di tagliarsi con le forbici spelafili. Ma fare il grafico... per favore! Starsene seduti tutto il giorno muovendo sì e no le mani su una tastiera e un mouse, giocare con i colori, con tante scritte divertenti; per fare un lavoro così bisognerebbe pagare, altro che essere pagati.
E poi, se l'idraulico e l'elettricista non fanno la fattura si possono anche capire: infilare le mani nei water altrui, ripulire da capelli e altre schifezze scarichi e sifoni, stipendiare a nero un povero marocchino per le mansioni più nauseanti, rischiare di infilarsi un cacciavite nella mano o farsi schizzare in un occhio qualche scheggia ribelle... Non sono certo lavori facili, che volete? Che vi facciano anche la fattura? E se poi s'incazzano e ci lasciano senza water o senza acqua? O ci collegano di proposito qualche tubo o qualche filo elettrico nel modo sbagliato? Se ci lasciano senza corrente, come lo guardiamo Minzolini alla Tv?
Massì, poveracci, saranno anche cari, ma guarda che lavoracci gli tocca fare!
Eppure, quando avevo quattordici anni, mia madre me l'aveva detto: "Tu devi fare l'idraulico, altrimenti sarai sempre un miserabile!".
A parte l'alta considerazione che nutriva nelle mie capacità, io avevo altre aspirazioni. Non sono mai stato un secchione, ma però sentivo di voler fare qualcosa di libero, qualcosa che mi facesse felice, un lavoro in cui poter esprimere la fantasia e la creatività che tutti quanti, nel corso della mia vita, hanno sempre cercato di imprigionare e uccidere.
Pensateci un po': non avete mai fatto caso a quanto sia libero e fantasioso un bambino prima di andare alle elementari? Fanno disegni bellissimi, colorati, astratti, buttano i colori sul foglio come se fossero una cosa viva, che prende forma a seconda dell'ispirazione, inventano storie fantastiche, con personaggi così vivi e reali, cantano, inventano filastrocche, barzellette, saltano, ridono.
Poi comincia la scuola. Non ci si alza dal banco, non si chiacchiera, non si ride, si sta seduti composti, si obbedisce alla maestra anche quando è un'imbecille reazionaria e bigotta, si colora rimanendo dentro le righe altrimenti ti punisco con un brutto voto o una nota sul quaderno. Si impara a rispettare le figure autoritarie: la maestra, il preside, l'insegnante di catechismo, l'allenatore. Non c'è dialogo, interscambio di idee, ma solo l'obbedienza all'autorità dello stato e della chiesa. Così si formeranno dei cittadini disciplinati e rispettosi. Gente che non deve pensare con la sua testa, che non può liberamente esprimere ciò che sente, ma che deve solo rincoglionirsi allo stadio, in chiesa e davanti alla tv.
Guardatevi Brasil, La fuga di Logan, Quinto potere, leggete 1984 di George Orwell, leggete Henry D. Thoreau, forse capirete perché credete di essere felici, ma in realtà non lo siete.

giovedì 16 settembre 2010

Idee confuse

Inaspettato come un attacco di emorroidi, si è fatto vivo l’ex direttore che conosco ormai da oltre quindici anni. Ero indeciso se telefonargli, so che non ama quelli troppo appiccicosi e così è successo che, mentre io me ne stavo qui a fare testa o croce, ha chiamato lui.
Si tratta di un lavoretto con cui potrei tirare avanti non più di un mese, e per adesso non è ancora nemmeno sicuro, ma è qualcosa.
L’editore siciliano invece, mi ha chiesto di ridurre la dimensione del pieghevole che avevo progettato a luglio perché il suo fornitore non riesce a stampare il settanta cento. Si tratta di riorganizzare tutto quanto con una riduzione di poco più del quaranta per cento. Niente di terribile, circa una giornata di lavoro, perciò ho chiesto 150 euro lordi, che è quello che pretende un idraulico per un’ora e mezza di lavoro. Ma ho come la sensazione di aver toccato l’antenna di una lumaca. Si è ritratta così repentinamente che credo ci vorrà qualche giorno prima che si decida a tornare fuori.
Per il resto, passo le giornate cercando di organizzare la ricerca del lavoro con una parvenza di razionalità, ma ho le idee così confuse... Spesso fatico a trovare le parole adatte. So di saperle, so che sono lì nascoste da qualche parte, sento l’inconfondibile essenza di ognuna, le sento arrivare ma, come a volte accade con gli starnuti, tornano a rintanarsi in qualche angolino buio del mio cervello giocando a nascondino fino a sfinirmi.
Vorrei fare tante cose, ma a causa di un sovraccarico di ambizioni e speranze, mi paralizzo come una capra che si finge morta davanti al pericolo. Forse sarà l’età, ma sento di essere diventato lento, come mio padre quando doveva montare il ventilatore a soffitto: se ne stava lì a guardare i quattro fili che sporgevano dal comando a muro, li toccava, li divideva, si metteva gli occhiali e leggeva quelle poche righe incomprensibili che componevano le istruzioni, poi col cacciavite in una mano e la scatoletta del comando nell’altra, ricominciava e guardare i fili cincischiandoli ogni tanto.
Ricordo che la sua inattività mi faceva rabbia, mi domandavo perché continuasse a guardare dei fili elettrici che non gli avrebbero potuto fornire nessuna risposta; nemmeno se avessero potuto parlare.
Oggi lo capisco. È come se anch’io mi ritrovassi fra le mani questi quattro fili spelati che, forse, racchiudono la soluzione ai miei problemi, ma non so come collegarli, in quale ordine, quale deve portare la corrente e quale scricarla, quale fare da interruttore e quale no.
È un mondo interconnesso, in cui gli architetti, pretendono di fare i grafici, i comici scrivono libri che non fanno ridere, le ballerine non sanno ballare, i cantanti dipingono quadri orrendi, i cuochi fanno i filosofi e i filosofi gli attori. Un mondo in cui ogni barbiere è un artista e ogni farmacista è poeta, un mondo in cui non riesco a capire dove collocarmi, come vendermi, cosa so fare davvero.
PS: Alla fine il telecomando del ventilatore si è bruciato. Ne ho dovuto comprare un altro e farmi spiegare dal commesso come fare i collegamenti.

martedì 14 settembre 2010

Che razza di bastardo!

Sono sicuro di aver incrociato in viale Piave un ex del liceo. Proprio uno di quelli che prendevo per il culo, con rabbia e un pizzico d’invidia, per il modo presuntuoso e strafottente con cui usava facebook.
In pratica l’M.B. che cinguettava con la sua bella e che postava le foto di “Quentin” alla mostra del cinema di Venezia.
Secondo me si tinge i capelli, perché hanno il tipico colore del lucido da scarpe. Più precisamente testa di moro. Lo pensavo vedendo le foto sui suoi post e, ora che l’ho visto da vicino, ne sono certo.
Ero con C. che aspettavo vicino all’uscita dell’esselunga, proprio a fianco di un rivenditore Mac, dal quale M.B. è uscito.
È uno che mi è sempre stato sul cazzo, fin dai tempi del liceo. Uno stronzo presuntuoso e bastardo. Uno che ti sorride mentre pensa a come incularti.
Lui stesso aveva richiesto la mia amiciazia su facebook, probabilmente solo per aumentare il numero dei suoi contatti, e io ho pensato, come uno stupido, che forse col tempo si cambia, magari si capisce che la vita non è fatta solo di ambizioni e falsità. Invece mi sbagliavo, se mai fosse possibile, è ancora più stronzo di prima.
Quindi, ho pensato che, fermandolo per strada, di persona, avrei potuto divertirmi un po’ a prenderlo per il culo come ai vecchi tempi, e così, mentre lo fissavo, parlando con C. ho detto: “Vedi, per esempio, questo che sta uscendo dal negozio è M. B.”.
Lui mi ha guardato, so che mi ha riconosciuto e so che ha sentito che l’ho chiamato per nome e cognome, ma ha distolto subito lo sguardo continuando per la sua strada. Mi sono fermato e girandomi a guardarlo mentre se ne andava, ho ripetuto ancora il suo nome a voce un po’ più alta. Niente, non si è girato nemmeno una volta, tanto da farmi pensare che fosse solo uno che gli somigliava in modo impressionante.
Io mi sarei voltato per vedere chi cazzo è questo matto che mi guarda così insistentemente. Invece lui ha continuato dritto e rigido, come se avesse una scopa infilata nel culo.
Stronzo? Mah, forse il coglione sono io, cosa mi sarei dovuto aspettare da gente che odiavo, e che probabilmente mi odiava, già dai tempi del liceo?

lunedì 13 settembre 2010

Quattro Camicie

Mia madre insiste per regalarmi qualche camicia decente. Dice che le mie fanno schifo e ha ragione. Sono reperti di quando l’oviesse vendeva qualcosa di indossabile per un occidentale, ma il problema è la qualità del cotone: più vengono lavate e più si restringono. Nel giro di qualche anno si sono trasformate in quelle che indossavo alla prima comunione o, magari, la cresima. Le maniche arrivano a metà dell’avambraccio e fatico a farle rimanere dentro i pantaloni, anche se è da tempo che le porto fuori per mascherare il salvagente in vita.
Dice che non posso cercare lavoro conciato come un povero disgraziato, che bisogna avere rispetto per il prossimo, che non si può andare in giro con i pantaloni che pendono dal culo.
È da tutta una vita che pensa sia un ritardato a cui bisogna insegnare come si sta al mondo. Veramente me ne sono sempre fregato e, con la scusa di essere un “creativo”, parola che oggi mi mette addosso una certa vergogna, mi sono sempre vestito come capitava.
Ormai mi sono abituato al quel suo modo di essere estremamente sgradevole nel giudicare le persone, specialmente quelle che le sono più vicine. Siamo due entità che messe a contatto causano catastrofi terribili, come accendere un fiammifero mentre si fa benzina, o le colle bicomponenti. La mia nemesi, il più e il meno delle batterie, il diavolo e l’acqua santa.
La mia sopportazione si limita al vederla il meno possibile per evitare critiche, sguardi di compatimento e cattiverie gratuite verso me e la mia famiglia. Cerco di essere un punto di riferimento lontano per una persona che, alla soglia degli ottantanni, non ha ancora perso la convinzione di essere un essere perfetto e imperfettibile, e sopporto pensando che sono l’unico superstite di tutta la sua famiglia. Spero, da ateo fervente, che almeno serva a mantenere pulita la mia coscienza e non a prenotarmi un posto in un mondo futuro a cui non credo e mai crederò.
Per questo mi infastidisce dire che questa volta ha ragione: non ho praticamente nessun capo d’abbigliamento decente che possa farmi passare per uno per bene in questo mondo ipocrita. E mi umilia sapere che in questo momento non ho la possibilità di rinnovare il mio scarnissimo guardaroba, e quindi dover accettare la sua offerta. 
Dice che in corso Buenos Aires c’è un negozio che vende camicie di taglio sartoriale, e che con 99 euro te ne danno quattro.
Ci vado, ma non è uno shopping che mi rallegra, anzi, mi sembra quasi di dover comprare il vestito buono da portare nella bara.
La commessa è sui cinquanta, procace, e parla con un vago accento francese molto glamour. Si complimenta in inglese per la camicia con le faccine dei beatles di mio figlio. Io invece non so nemmeno la mia misura di collo. Ci pensa lei: 44 e mezzo. “Minchia” mi viene da dire, ma poi ripiego su un più antiquato: “Cavoli!”.
Ne scelgo una bianca (a quanto si dice un passe par tout equivalente al tubino nero), una vinaccia molto scuro leggermente cangiante e un paio a quadrettini di diversa tonalità. Ero tentato anche dall’azzurro a tinta unita, ma faceva troppo autista di banca.
Che schifo. Mi sento di merda, nauseato come una puttana ai primi clienti. Uno che, dopo una trent’anni di lavoro, deve farsi regalare quattro camicie da sua madre. Un’umiliazione che proprio non mi va giù.

giovedì 9 settembre 2010

Oggi c'è il sole

C’è aria di autunno, di passeggiate al parco Sempione sulle foglie cadute che scrocchiano sotto i piedi, sul ponte delle sirenette, attraversando il laghetto pieno di ratti grossi come conigli, di baci ai giardini pubblici di Porta Venezia, e gli ippocastani, con frutti così grossi e lucidi che verrebbe voglia di mangiarli anche se non si può, o in piazza Fontana, così triste e in bianco e nero. C’è aria di miseria, di smog, di riflusso, puzza di miscela e di mani sporche. Una stagione fatta per i giacconi blu della marina con i bottoni dorati comprati usati sui navigli, ai quali, ogni tanto, sfugge un lungo crine di cavallo, piazza Tirana con la nebbia, il tram 21 con i sedili di legno e l’illuminazione che si interrompe quando passa sugli scambi, le luci della Rinascente e quella folata di aria calda quando si aprono le porte. Il venditore cieco dei biglietti della lotteria con quella voce metallica e potente, la libreria Rizzoli in galleria Vittorio Emanuele, le manifestazioni di studenti e operai, insieme e incazzati, Cairoli, piazza Castello, piazza Cordusio, i panzerotti bollenti di Luini, via Melchiorre Gioia sotto la pioggia, in motorino quando faceva così freddo che una volta sceso, non riuscivi più a raddrizzarti, in giro di notte a fare foto, la gelataia che d'autunno vendeva le caldarroste davanti al cimitero di Greco, il cielo sempre grigio, gonfio di pioggia e di tristezza.
Ma questa è roba di trent’anni fa.
Oggi c’è il sole.

mercoledì 8 settembre 2010

Che manica di stronzi!

Devo escludere facebook dalla mia vita. Anche quei dieci minuti ogni tre quattro giorni.
Non sopporto più i commenti idioti, l’ignoranza tracotante, la presunzione e il narcisismo di questa gente. È mai possibile che in tempi lontani, o più recenti, abbia potuto conoscere persone che risultano così insopportabili? Come ho fatto a convivere per quattro anni di liceo con gente così ipocrita e fastidiosa?
La vecchia prof di matematica che ora insegna nella scuola di C., dice che non ho mai avuto dei veri rapporti con i professori. Forse è vero. Ma la poca voglia di studiare e di rapportarmi, si specchiava nella svogliatezza del corpo docente, che nutriva la sola preoccupazione di portare a casa lo stipendio senza troppe seccature.
P., di storia dell’arte, passava le sue ore in classe pulendo con la gomma libretti d’opera antichi che comperava chissà dove.
La formula valida per qualsiasi interrogazione, era sempre la stessa, sia che si parlasse della venere di Milo, che del Lacoonte, o di un’architettura del Palladio: “L’artista ha voluto comunicarci attraverso l’uso del chiaroscuro vivo e concitato...”.
B. di anatomia, non ha fatto mai una lezione relativa alla sua materia. Si limitava e farci copiare qualche osso del quale non conoscevamo nemmeno il nome e a fumare con lo sguardo perso nel vuoto. Però gli piaceva chiacchierare o, più precisamente, ascoltarsi mentre pontificava di questo e di quello, come se solo lui avesse capito il segreto della vita. Peccato che, discutendo di 2001 odissea nello spazio, film dal quale ero rimasto affascinato e leggermente interdetto, non abbia saputo dare nessun tipo di lettura, se non domandare furbescamente: “Secondo te cosa significa?”.
In plastica (scultura), l’unica volta che ho usato la creta è stato in quarta. Operazione necessaria e indispensabile ai fini della promozione.
L’ultimo professore in ordine di tempo era tale e quale a Stefano Satta Flores; indossava un camice bianco che lo rendeva più simile a un portantino che a un’artista, si dilettava in giochetti di prestigio coi cerini e, con le sue giacchette e le sue cravatte, si sarebbe tranquillamente potuto scambiare per un impiegato delle poste e telegrafi.
C. insegnava architettura ed era un fighetto terribile: sempre in giacca e cravatta, la erre moscia e un lontano accento campano. Malgrado tutto ci andavo abbastanza d’accordo, forse per via di una ricerca sulle carceri (il Panopticon eccetera) che avevo fatto insieme a un compagno che in seguito è morto per droga. L’ho risentito qualche tempo fa e, con grande sorpresa, ha confessato che: “...da altri incontri che ho avuto con alunni di quegli anni ho capito di essere stato abbastanza stronzo, o almeno, un po’ troppo sulle mie. Me ne scuso, con gli anni sono molto cambiato....”. Beh, meglio tardi che mai.
La professoressa di italiano era sull’orlo della pensione già in seconda liceo. Aveva una strana concezione della genialità in letteratura, tanto che ripeteva spesso, riferendosi ad autori anche classici dalla presunta omosessualità, che: “Probabilmente ciò che non gli è andato da una parte, è andato dall’altra”.
Ed è con questi professori che avrei dovuto instaurare un dialogo? A che pro?
Forse non ero molto sveglio, o furbo quel tanto che bastava per ingraziarmi questa manica di nullafacenti, come invece lo sono stati molti dei compagni che, con tanta rabbia, ho corteggiato su facebook. Senz’altro meno furbo di chi si faceva passare per ciò che non era (impegno politico, studio), al solo fine di fregare professori e compagne, brutte, ma di buona famiglia e ottime possibilità future.
Oggi li ritrovo su facebook, ancora più arroganti, vacui e narcisi di quanto fossero trent’anni fa e mi consolo che io, lo scemo del paese, sono umanamente migliore di quanto non siano mai stati loro.
Ma proprio non riesco a essere indifferente quando mi tocca leggere post come questi:
MFB: From wikipedia. Happiness is a state of mind or feeling characterized by contentment, love, satisfaction, pleasure, or joy :). (Ma wikipedia non esiste anche in italiano?).
CM risponde: e molto, molto altro... grazie ancora di questi momenti di felicità...
A proposito... la felicità ti dona...
MFB: tu doni felicità
Il tutto condito da foto che ritraggono i piccioncini in barca tra i canali di Venezia e al Festival del Cinema, seduti vicino a Quentin Tarantino, (che chiamano familiarmente “Quentin”, manco fosse loro fratello).
Dico: telefonarsi no? Dovete proprio sputare ai quattro venti la vostra stucchevole tresca? Doveto proprio farci vedere quanto siete fighi ad andare al Festival del Cinema di Venezia e sedervi vicino a Quentin Tarantino, mentre altri non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena? Ma vaffanculo!
Questa invece è una dirigente di una grande casa editrice di Novara:
BS: Non vorrei rassegnarmi a quanto vedo dalla finestra, e sarei tentata di uscire con abbigliamento da 6 settembre: MA PERCHE’ E’ GIA’ INVERNO?!?!?
E quest'altro è il pupetto delle compagne di classe. Quello che aveva problemi di crescita e parlava con una vocina sottile sottile da cartone animato. Quello che già era bravo a suonare la batteria. Quello che, al suo compleanno, la classe gli regalava un piatto Zildjian, mentre a noi, scemi del paese, se andava bene, ci beccavamo un 33 giri.
A luglio ha pubblicato una foto in cui è in braccio a Ivano Fossati. Questo il testo del suo post:
EF: IN BRACCIO A IVANO FOSSATI!!!! (e chissenefrega non ce lo mettiamo?)
MCC commenta: Il mio batterista preferito in braccio a uno dei miei cantautori preferiti.
FD’A: BELLISSIMA ENRICO! :-)
EF risponde: Eh... un po’ di anni fa! Grazie M.
E allora, perché cazzo la pubblichi? Cosa cazzo ce ne frega delle tue imprese musicali e di quanti stronzi famosi hai conosciuto? Hai mai sentito parlare di modestia, sobrietà, riservatezza?
BB, AA, LC non fanno altro che giocare a FarmVille, FrontierVille e qualunque cazzata ci assomigli, e hanno tutte cinquant’anni suonati, molte dei figli grandi e una certa idiosincrasia per l’italiano.
Quast’altra, grazie alla sorella ex direttore di un importantissimo giornale di moda, si trova a gestire parte di un progetto che comprende location, studi fotografici, spazi per eventi e compagnia bella in una delle zone più di tendenza di Milano. Sfianca tutti con le sue stronzate salutistiche-spiritual-indiane, con lo yoga, il dalai lama e qualunque stronzata sia anche vagamente spiritual-indiana.
L’altro giorno pubblica una foto in cui è sdraiata in una vasca sozza piena di petali rosa di chissà quale cazzo di fiore con poteri senz’altro miracolosi e questo commento:
GB: bagno mattutino...
GG risponde: mi rilasso solo a guardarti! :). (Se fossi dio ucciderei all’istante tutti quelli che usano gli emoticon).
AP: ma dove sono finiti i due petali sugli occhi! No, così non è valido!
MS: che meravigliaa
GM: Ma dove sei???? Divina.
MS: Che bellezza stare a bagno così!!!!
GB ora svela il segreto dell’esca che ha sapientemente gettato: consiglio vivamente! somatheeram, in kerala... Massaggiati dalla mattina alla sera come i manzi di Kobe!!!!
EP: fantastica!
FB: Dove?
GB adesso gongola: bello eh? India, Kerala, clinica Ayurvedica Somatheeram... Consiglio!
FDS, finalmente realista: un po’ fuori mano... ma sei proprio tu? adorabile il cappellino!
Mi viene da vomitare. Qui c’è qualcosa che non funziona. Devo essermi perso qualche pezzo. Cosa c’entro io con questi? Perché odio tutta questa merda che sembrano trovare così affascinante? Perché sono tutti così intenti ad adularsi a vicenda, mentre quando pubblico io un post non mi caga nessuno? Già, forse per loro sono rimasto lo scemo del paese. Quello che però fino all’anno scorso se la cavava bene, con un bel lavoro, e che non faceva mancare niente alla famiglia.
Lo so che tutto questo prima o poi finiranno per saperlo, ma non me ne frega niente. Sto solo aspettando di rimettermi in carreggiata e poi comincerò a divertirmi. Posterò commenti che finalmente faranno capire a questa manica di stronzi cosa penso di loro. Ci penserò attentamente e distruggerò ognuno di questi scarafaggi nella maniara più dolorosa possibile.
Mi viene in mente Jack Lemmon in Prigioniero della seconda strada, quando con la pala da neve in mano diceva: “E se non nevicherà quest’anno... nevicherà l’anno prossimo!”.

lunedì 6 settembre 2010

Un mucchio di stronzate

Una domenica passata a preparare il testo per il giro autunnale di mail promozionali, mi ha lasciato solo amaro in bocca.
L. pensa che la versione precedente fosse troppo aggressiva, o meglio, troppo "creativa". Forse ha ragione, forse no. Io pensavo che dovesse essere originale e farsi ricordare, magari perché appariva presuntuosa o stupida, chissà.
Probabilmente vi avevo riversato troppa ironia, di quella cinica e rabbiosa che mi accompagna in questi ultimi tempi.
Insomma, dicevo più o meno, che avrei potuto farneticare di mission, team, concept, visual, target, ma che invece preferivo parlare di creatività, esperienza, follia e robe del genere.
Forse non è stata capita da chi, effettivamente, parla di team, mission e tutte queste cazzate. Parole inutili, che servono esclusivamente a far cacciare più soldi ai clienti, rimbambendoli con termini che nemmeno capiscono.
Forse l'errore è stato rivolgermi a persone che hanno costruito la propria vita professionale su un vocabolario che, per loro, è più prezioso della bibbia per un predicatore. Gente che è incapace di fare un discorso comprensibile e con un minimo di senso. Ricordate Luca Luciani? Il manager telecom da 800mila euro l'anno, secondo cui, Napoleone a Waterloo non fu sconfitto, ma: "fece il suo capolavoro"?.
Ecco, forse questo è stato il mio errore: scrivere qualcosa che suonava più come una presa per il culo verso chi aveva costruito sul niente la propria posizione e che si ritrovava una mail che, anche se involontariamente, gli dava del coglione. La solita storia del "re è nudo", insomma.
Ora ho preparato un testo che mi fa vergognare di me stesso: niente inglesismi, ma una terribile triste serietà, fatta di fasi produttive, comunicazione aziendale, concreta esperienza e altra merda del genere.
Mi viene in mente quando questa gente presenta un progetto e lo infarcisce di significati, motivazioni e scelte creative inesistenti, utilizzando un linguaggio infarcito di: profilare gli utenti, aumentare l'awareness di marca, comunicazione viral e unconventional, consumer insight, big idea, brand concepts, vision dell'opera.
Peccato che tutto ciò non tenga conto dell'essenza più profonda e vera: ossia che tutto si riduce all'idea di una persona, nata attraverso esperienza, gusto e manualità, acquisiti durante una vita.
Sarebbe come pensare di dipingere un quadro basandosi su ricerche di mercato che stabilissero quale sia il soggetto più gradito, quali le tecniche più efficaci con cui dipingerlo, le sue dimensioni estrapolate da studi sulle proporzioni auree e via dicendo. probabilmente ne uscirebbe una emerita merda.
La verità è che quasi tutte le campagne, le idee pubblicitarie brillanti, i lampi di creatività, nascono solo dal caso, dal quel misterioso amalgama di cellule cerebrali che ognuno di noi usa a modo suo e che, addestrato in un certo modo, produce idee e cose che funzionano. Ma se chiedessimo a qualunque creativo in qualsiasi campo, quale siano i suoi metodi o processi creativi, risponderebbe che non esistono, che l'idea nasce improvvisa e ci si accorge subito se funzionerà o meno, indipendentemente da ricerche di marketing e stronzate del genere, che servono a far pagare mille ciò che vale dieci.

PS: benvenuto ottoaprile!

venerdì 3 settembre 2010

Prove tecniche di solitudine

L. è al lavoro. C. è uscito presto per l’esame di riparazione di matematica. E. sta ancora dormendo, come sua abitudine.
Mi trovo davanti al computer sperimentando ciò che sarà la mia vita non appena riapriranno le scuole: il vuoto assoluto.
Anni fa ero felice di possedere spazi di solitudine, non ho mai avuto preblemi di convivenza con me stesso, non ho mai provato la paura di essere solo, anzi, erano momenti miei, in cui fare e pensare ciò che più mi andava. Un po’ come diceva Georges Moustaki nella sua canzone: “Non, je ne suis jamais seul avec ma solitude”.
Oggi è diverso, ma non sono io ad essere cambiato, sono le condizioni in cui mi trovo a esercitare questa solitudine. Una condizione che non è più l’occasione per riordinare le idee, fantasticare progetti o semplicemente ascoltare il silenzio.
Oggi è una solitudine fatta di emarginazione, di scuro rimuginare, di rabbie sorde, di speranze fumose. Sento che la mia testa parte per tangenti inesplorate e pericolose, capisco che questa solitudine non mi fa più bene, non è più la valvola di sfogo, ma un compressore che lavora incessantemente senza motivo, senza un fine preciso, ma che, prima o poi, dovrà sfogare tutta l’energia immagazzinata.
Sento montare rabbia e disperazione per una situazione che non migliora, che non mi fa sperare in niente di buono.
Leggo la notizia di una coppia di Chieti che ha messo in vendita su eBay rene e ovuli a causa di problemi economici. E mi domando: è gente più disperata di me oppure sono semplicemente dei cialtroni? Davvero l’avrebbero fatto? Passi per gli ovuli, ma un rene! Oppure hanno inserito l’annuncio sapendo a priori che la polizia postale l’avrebbe scoperto e sarebbe scoppiato un caso su giornali e televisione? Io sono convinto che fosse tutto programmato, un bluff ben riuscito e congegnato. E, ora che la notizia è su tutti media, qualcuno provvederà senz’altro a risolvere la loro situazione.
In effetti, anch’io avevo pensato a un’azione simile, un’operazione di guerrilla marketing nella quale avrei annunciato il mio suicidio. In seguito si sarebbe scoperto che sarebbe stato sì un un suicidio, ma solo professionale, una sorta di brucia la vecchia a capodanno o qualcosa del genere. 
Confesso che poi ho avuto paura e, come un vigliacco, ho rinunciato.

giovedì 2 settembre 2010

Figli pensione dei padri?

Non c’è che dire, proprio un bel rientro. Quasi cinquecento euro di parcella della commercialista, centottanta di bolletta elettricità, centoquaranta di Tarsu, l’assicurazione dell’auto e, fra un paio di mesi, le rate delle spese condominiali.
Mettiamoci anche l’agenzia delle entrate che non si è ancora sentita per l’iniquo adeguamento richiesto.
Se una volta la miseria significava non avere da mangiare, oggi come dovremo ridefinirla? Non avere i soldi per pagare le spese condominiali? Oppure per le bollette di acqua, luce e gas?
Sembra facile dire che, bene o male, oggi mangiano tutti ed è vero: qualcosa per riempire la pancia si trova sempre.
È tutto il resto che ci fa sentire miserabili, tutto ciò che una volta, chi non possedeva niente, non doveva preoccuparsi di pagare. Ma se non pago le spese condominiali, l’elettricità o l’assicurazione dell’auto, come finirò?
Forse oggi essere misarabili non significa più mettere insieme il pranzo con la cena, ma pagare un’infinità di cose che non ci servono effettivamente. Cose che ci fanno credere siano indispensabili, ma che alla fine non lo sono. Bisogni inventati ad arte, superfluo fatto passare per indispensabile.
Anni fa, in un viaggio al confine tra Santo Domingo e Haiti, ci portarono a vedere come viveva la gente che aveva poco o niente, ovvero gli haitiani utilizzati nelle piantagioni di canna da zucchero a Santo Domingo.
Vivevano in condizioni miserevoli, in capanne di legno e paglia, oppure in fatiscenti baracche col tetto di lamiera. Ci meravigliammo di come mai, gente così povera, avesse tanti figli.
“In questa parti del mondo - ci spiegò la guida - i figli sono la pensione dei padri. Più figli fai, più probabilità hai che quando non sarai più in grado di lavorare, ci sarà qualcuno che si prenderà cura di te”.
Cosa dobbiamo fare allora? Vivere in campagna e nutrirci di ciò che riusciamo a produrre, sperando che i nostri figli possano accudirci quando non avremo più la forza di zappare la terra?
Ma qui stiamo parlando di un medioevo prossimo venturo, senza che non si alzi una voce di protesta, senza che la rabbia di giovani e diseredati trovi una via per manifestarsi, senza che la verità venga a galla.

mercoledì 1 settembre 2010

La rabbia

L'idillio con Milano è già finito. Il cielo è ancora sereno e azzurro, ma la città è più fredda che mai. Fredda e insopportabilmente rumorosa.
L. oggi va a lavorare. Non ne ha voglia, le pesa e la capisco. È un lavoro mal pagato, senza nessun contratto, nessuna garanzia, dalle richieste professionali sproporzionate rispetto alla retribuzione.
E io non posso fare a meno di pensare che la colpa è mia, che ho fallito nello scopo di dare tranquillità economica alla mia famiglia.
Non c'è nessuna novità, neppure il più piccolo movimento. Dovrò ricominciare a mandare mail inutilmente, ritelefonare alle poche persone che potrebbero aiutarmi, sperare in un colpo di fortuna, in una ripresa economica che non esiste.
Ieri mi vergognavo per i miei accessi di rabbia, ma come potrei mai essere sereno? Ogni scelta, ogni tentativo si rivela vano. E la rabbia monta sempre di più.
Su D di Repubblica Umberto Galimberti scrive:
"...vediamo che i ricchi e i potenti non hanno quasi mai bisogno di arrabbiarsi, perché la loro identità è salvaguardata dalla ricchezza e dalla potenza, che consente loro di raggiungere ciò che vogliono senza alterarsi, mentre quando sono i poveri ad arrabbiarsi, se non guadagnano una tale forza da mettere a rischio il potere, li si lascia semplicemente sfogare, o al massimo li si beneficia di uno sguardo di compassione. [...] ...se è vero che la rabbia non sempre è in grado di risolvere i problemi, la deprecazione della rabbia spesso nasconde l'ingiustizia, e rischia di rendere invisibili i più vergognosi giochi di potere."
Beh, leggere queste righe mi consola almeno un po'. Forse significa che arrabbiarsi di fronte alle furberie e alle ingiustizie significa avere ancora la forza e la voglia di vivere, di fare.