martedì 30 novembre 2010

Il bicchiere della staffa

E così pare proprio che questa volta l'agenzia delle entrate abbia ragione.
Mi sono bastati dieci minuti, una mail alla cassa autonoma dei giornalisti e una telefonata, per capire che ciò che detraevo da anni in dichiarazione, in verità non era detraibile.
Mi domando solo come mai la commercialista non sia stata in grado di risolvere la situazione in quattro mesi e, soprattutto, come in tutti questi anni abbia continuato a sbagliare così clamorosamente.
Mi ha garantito che si farà carico di sanzioni e interessi. E volevo pure vedere.

lunedì 29 novembre 2010

Senza dignità

Lei si offre di pagare i regali di natale dei ragazzi: “Non preoccupatevi, ci penso io per i soldi, li compro io i regali di natale”.
Poi però pretende di decidere quali sono quelli adatti e quali no. Non c’è rispetto per i desideri: “Questo lo compro, è carino, ma questo è una schifezza e ha già il cassetto pieno di bambole, non ne serve certo un’altra. E poi quella barbie con l’automobile, costa cinquanta euro! Ma lascia perdere, è anche un gioco da maschio, solo per avere un’altra bambola che poi butta in un angolo dopo averle tolto tutti i vestiti!”.
Non si accontenta quindi di collaborare, di aiutare senza chiedere nulla in cambio, senza pretendere di guidare le scelte, senza per forza sostituire la volontà altrui. No, non le basta, vuole comandare, decidere il cosa e il come, ciò che è degno dei suoi soldi, dei suoi emolumenti e ciò che invece non li merita.
“Non preoccupatevi, ci sono io, vi aiuto io”. E così mi ritrovo un nuovo padrone in casa, che vuole decidere dell’aspetto e dell’utilità di ogni cosa per cui apre il borsellino, che pretende favori continui, che, come ho sempre giustamente temuto, vuole comandare, vuole sottomettere alla sua autorità, al suo potere.
Ho sempre pensato che, al contrario di mio padre, uomo di destra ma di infinità onestà, rettitudine e generosità, mia madre abbia sempre rappresentato il fascismo più degenere, vigliacco, sottile, insidioso, cattivo, moralmente corrotto. Non è l’ordine ciò che cerca, ma la sottomissione totale. La stessa che lei ha nei confronti di qualsiasi autorità, dal classico “signor dottore” rivolto al più incapace dei medici, al “signor professore” che ha sempre, a prescindere, diritto e ragione. La tranquilla prigionia di sottostare a chiunque decida al posto suo, a chiunque le dica cosa si deve e non si deve fare, il masochistico e ambiguo piacere di obbedire all’autorità, godendo per questo del diritto di soggiogare economicamente e psichicamente chiunque cada nella sua sottile e infida ragnatela.
In questo momento, oltre a non godere di alcun aiuto alla famiglia da parte dello stato che invece, attraverso l’agenzia delle entrate, continua a torturarmi con richieste assurde e meschine, né dall’associazione dei giornalisti di cui, con vergogna faccio parte, che richiede contributi pensionistici al di sopra di qualunque altra categoria, né da amici o conoscenti, scomparsi come fossi un appestato, non posso nemmeno contare sull’unico genitore e parente rimasto. Anzi è la persona da cui devo più riguardarmi.
È per questo che, sole o neve, freddo o caldo, le mie giornate si stanno trasformando in tristi processioni in cui non sono più nemmeno padrone di decidere di che colore comprare le scarpe a mia figlia.

giovedì 25 novembre 2010

Silenzio

A volte il silenzio è terribile. Stranamente, sento il ticchettio degli orologi nei silenzi improvvisi del traffico.
Sembrano quei pomeriggi infantili trascorsi in camera mia a ordinare le automobiline in file precise, disposte a quarantacinque gradi sul tappeto rasato. Lì i camion e i veicoli industriali, là le auto comuni e di fianco i veicoli di soccorso.
Ma questo è un silenzio triste, o almeno mi pare, le stanze amiche di questa casa sembrano fredde, indifferenti. Quanto vorrei sentire suonare il telefono, uno squillo che anticipi qualcosa di nuovo, qualcosa di buono.
Via via che i nostri ultimi risparmi svaniscono mi riesce sempre più difficile sorridere ai miei figli. La piccola comincia già a sentire la frenesia del natale e io mi maledico perché dovrò chiedere a mia madre dei soldi che in tutta la mia vita non avrei mai voluto avere.
Sembra una tristissima favola russa e pure questo mi fa incazzare. Ho sempre amato la battuta, il gioco, lo scherzo e invece mi ritrovo a dover scrivere queste stronzate lacrimevoli.

mercoledì 24 novembre 2010

Pensiero fisso

Ho passato tutta la giornata a modificare impaginati e proporre innumerevoli copertine per il catalogo che sto impaginando col direttore.
Non riesco a capacitarmi di come, uno come lui, pronto a scoppiare in furibonde scenate per una quisquilia, riesca trovare la pazienza per seguire questi pazzi che, prima dicono e poi disdicono.
Ogni singola pagina è stata fatta e disfatta per almeno sette, otto volte, e il bello è che tutto questo è servito a preparare il materiale da presentare al “mezzo capo”. Poi, se tutto va bene, verrà presentato al “grande capo” per l’approvazione finale.
Non c’è che dire, proprio un bel modo di lavorare.
Ma sono tempi in cui si accetta tutto, anche di rifare la stessa pagina per dieci volte. Se non altro ho l’illusione di lavorare, di muovere le mani come se niente fosse, come se tutto fosse normale.
Ma qui non c’è niente di normale. Passata quasi una settimana, posso dire che anche l’ultimo preventivo che ho presentato è sfumato come la puzza di una scoreggia. 
Del giornale dell’organizzazione umanitaria non so ancora nulla, eppure la vera opera umanitaria sarebbe quella di far lavorare qualcuno che ne ha realmente bisogno, ma tant’è, non sono un povero afgano (con tutto il rispetto che nutro per i diseredati del mondo intero), e si vede che qualche nipote o figlio del cugino, o qualche cognato, avevano più necessità di me.
Lo scoglionamento è ormai al setttimo cielo, e alterno momenti di profonda tristezza ad altri in cui una rabbia nera e profonda mi sfigura l’anima.
“Tutto questo prima o poi dovrà pur finire” continuo a ripetere a me stesso senza credere più a un pensiero che, da fisso, sta assumendo i connotati della fissazione.

lunedì 22 novembre 2010

Schizofrenia?

“Allora?”.
“Allora che?”.
“No, dico in generale, insomma le solite cose...”. 
“E che ti devo dire? Non succede niente, io mi sbatto come una trota sull’argine, ma quello che ci guadagno sono solo dei gran mal di testa. Adesso pure la mattina appena sveglio. È un mondo in cui chi non riesce a nuotare annega, nessuno che tiri un salvagente, nemmeno una camera d’aria. Altro che la solitudine dei numeri primi, questa è la solitidine del disoccupato”.
“Ma i progetti in sospeso, le promesse, i preventivi...”. 
“Ma quando mai! L’ultimo preventivo che ho fatto era così basso che mi sono pentito di averlo fatto nel momento stesso in cui ho cliccato su invio. Eppure, fino a oggi, è il silenzio. Quel catalogo che doveva essere stampato entro il 20 novembre sono ancora qui a farlo e disfarlo. Ogni settimana è quella della chiusura, e poi si passa a quella dopo come se niente fosse. Hai mai provato a ritardare una consegna anche solo di mezza giornata? Apriti cielo! 
La rivista umanitaria è andata molto probabilmente ad aiutare qualche nipote o amico di un amico. Se ci pensi è pure comica, io che ho più bisogno di aiuto che mai, inculato da una rivista umanitaria!
Anni e anni di tasse pagate fino all’ultimo centesimo, con una pressione mai inferiore al quaranta per cento, versamenti a un ordine professionale forte con i deboli e debole con i prepotenti, il commercialista che, me ne sono accorto la settimana scorsa, ha più che raddoppiato i suoi onorari nel giro di cinque anni, quando invece il lavoro veniva valutato sempre meno.
Sono stato una vacca da mungere per chiunque e oggi non esiste il minimo ammortizzatore sociale per uno come me. E poi devo sentire la solita manfrina del povero lavoratore dipendente che spesso e volentieri è invece assenteista e con tre lavori a nero.
“Però non sei corretto a parlare così, mi sembri acido e astioso verso il mondo intero, mentre il motivo di tutto ciò sei stato solo tu, tu e il tuo orgoglio, l’inflessibilità nell’accettare condizioni che oggi molti si vedono costretti loro malgrado ad ingoiare”. 
“C’è proprio bisogno che me lo ricordi? Ci penso tutti i giorni, tutto il giorno. E anche se avevo promesso di non parlare più del mafioso pelato, non riesco a non pensarci. Per esempio, perché continua a mandarmi i suoi giornali di merda? Conoscendolo bene credo lo faccia di proposito, probabilmente gode pensando che ogni volta che vedo la sua faccia idiota nell’editoriale mi accorcio la vita di qualche minuto. 
Nemmeno un anno fa, quando mi sono fotografato per il nuovo sito avevo qualche filo di bianco nella barba. Oggi è diventata quasi tutta bianca. Solo una combinazione? Può darsi, ma sono il primo a non crederci. Comincio a provare vergogna verso i miei figli, una sensazione tristissima, un padre che non sa come farà a tirare avanti nei prossimi mesi, che in un anno non è riuscito a trovare niente più che una manciata di euro. Che per il secondo natale di seguito non potrà portarli al mare nemmeno per un fine settimana, che deve contare i soldi per i regali. Patetico! Melodrammatico, ridicolo!”.
“Ma come, proprio tu, che hai sempre sputato sulle convenzioni, sui conformismi, parli come un cantante neomelodico, ma cosa pretendi?”. 
“Ma vai affanculo pure tu, và”.

venerdì 19 novembre 2010

Sogni a occhi aperti

Non m’importa se anche questo ennesimo preventivo finirà nel limbo del “sarebbe potuto essere e invece...”. 
O meglio, mi importa eccome, ma il disincanto è diventato un sentimento così forte che toglie ogni speranza e fantasia.
Ho voluto affrontare comunque questo progetto come un esercizio di stile, un banco di prova, una palestra per verificare se sono in grado di affrontare un lavoro così complesso, fatto di ideazione creativa e della sua trasposizione in annunci stampa, affissioni, brochure istituzionali fino ad arrivare ad un possibile spot.
È un’impresa complessa, che non ho mai avuto l’occasione di affrontare e, proprio per questo, voglio fortemente mettermi alla prova.
Sono due giorni che non dormo rotolandomi nel letto, provando e riprovando claim, immaginando visual nella mia lavagna mentale e ripetendo all’infinito, fin quasi a impazzire, il nome della campagna.
Questa mattina alle cinque è finalmente giunta l’illuminazione, il concetto che credo vincente o almeno di buona qualità, affiancato da due o tre alternative. Sono passato allora all’organizzazione vera e propria del lavoro: sinergie fra professionisti, tecniche di realizzazione, modalità di presentazione dei layout.
Il risultato è una faccia ridotta a uno straccio del pavimento, ma anche la convinzione che ce la potrei fare, che sono riuscito a creare un’alternativa valida alle vecchie campagne e che potrei realizzarla senza troppi problemi.
Peccato che per ora sia poco più che un sogno ad occhi aperti, ma se solo mi dessero il via so che partirei come un missile.

giovedì 18 novembre 2010

Vendere aria

Non ho fatto altro che proporre un preventivo, eppure, dopo il solito panico iniziale da salto nel vuoto - "Non riuscirò mai a gestire un lavoro così complesso e che coinvolge professionalità così diverse!" - il mio cervello si è messo a lavorare giorno e notte. È sempre così, a differenza di uno stipendiato, ché quando stacca non ci pensa più, questo è il principale difetto del freelance; non stacchi mai, nemmeno quando dormi. E non lo dico per scherzare, questa notte non ho fatto altro che sognare me stesso immerso nella ricerca del giusto concetto, dello slogan perfetto, del valutare se utilizzare fotografie, illustrazioni o la semplice grafica.
Ad ogni nuovo lavoro diventa un pensiero fisso, un tarlo costante; non esiste altro se non la tensione di raggiungere un risultato soddisfacente.
Io non so come si comportano le agenzie pubblicitarie di alto livello, anche se mi sono fatto un'idea abbastanza precisa, ma sono sicuro che le tante analisi di mercato, le infinite parole vuote che girano intorno ad un semplice concetto, le relazioni piene di numeri, statistiche e roba del genere, non sono altro che la giustificazione per chiedere tanti, tanti soldi per una semplice idea.
Ma ci pensate? Provate a dire al cliente: "Dunque, questa è l'idea che intenderemmo venderle, secondo noi potrebbe funzionare, ma non possiamo averne nessuna certezza matematica. Il suo prezzo è diecimila euro".
Perché in soldoni, il succo della questione è questo; vendiamo idee. Idee che magari sono sopraggiunte nel giro di un paio d'ore o, nel peggiore dei casi, in qualche settimana, e sempre nei momenti più inaspettati: seduti sul cesso, mentre guardiamo un film, nel dormiveglia prima di cadere addormentati, mentre compriamo il giornale o ci stiamo tagliando le unghie. Il resto è poca cosa, qualche esecutivo che non richiede capacità particolari, qualche riga di presentazione, tanto fumo fatto di vuote parole in inglese, ricerche di mercato inutili, statistiche che lasciano il tempo che trovano, segretarie con le cosce in mostra, sale riunioni elegantemente minimal, bei vestiti fatti a mano e quella finta, ipocrita aria da creativo svagato che, sotto la giacca di Armani, si è messo la prima t-shirt che gli è capitata sotto mano acquistata a Londra, Tokio o New York e il solito Rolex submariner in bella mostra.
Chi pagherebbe volentieri diecimila euro per un'idea che mi è venuta mentre leggevo topolino al gabinetto, o dieci minuti prima di addormentarmi, mentre mi rotolo nel letto e mi gratto i coglioni?

martedì 16 novembre 2010

Ha da passà 'a nuttata...

Sono solo 84 pagine, ma di sicuro le più lunghe della mia carriera. Ogni settimana pare sia quella buona per chiudere il catalogo poi, tra un cambio di foto, un taglio di pagine e rifacimenti vari, passano le settimane.
È lo scotto da pagare quando il lavoro viaggia attraverso troppi intermediari prima di arrivare a me, che sono l'ultima ruota del carro.
Tempo fa, quando il committente non capiva i motivi per cui una pagina era fatta come era fatta, mi incazzavo e combattevo su ogni colore, ogni taglio fotografico e ogni neretto. Mi seccavo la bocca a forza di discutere, di spiegare il perché e il per come, di giustificare ogni singola scelta. Oggi piego la testa e accetto di peggiorare il lavoro secondo le richieste di chiunque stia sopra di me. Quello che conta è sbarcare il lunario, incassare i soldi (se va bene fra tre mesi) e cercare di non complicarsi la vita.
Probabilmente questa sarà (forse) la settimana buona per finire questa tela di Penelope che, a forza di fare e disfare, ha più rattoppi che stoffa, ma non importa, quello che conta è che il cliente sia felice e l'editore soddisfatto.
Nel frattempo ho ricevuto l'ennesima richiesta di preventivo, ma visto che tutte le altre volte che ne ho parlato, tutto si è risolto in una bolla di sapone, questa volta, per scaramanzia, non voglio dire nulla.

lunedì 15 novembre 2010

Il grande fratello

C’è qualcosa che non va. Mi sento controllato. Come un respiro sul collo che mi fa voltare all’improvviso senza scorgere niente più che un’impressione.
Naturalmente parlo in senso metaforico, ma è come quando si sentono degli occhi puntati alla schiena. Di solito ci si azzecca.
Eppure non ho niente da nascondere, anzi, ormai la mia vita è in piazza da quasi un anno e ho il sospetto che ne siano al corrente tutti quelli che mi conoscono anche solo di vista. Forse è la deformazione da film di fantascienza. Sapete, il grande complotto, gli alieni tra noi, i servizi segreti, dio, o chissà chi altro.
Forse lo strumento che pensavo servisse a cambiare la situazione lavorativa, a divulgare al mondo capacità ed esperienza, mi si è rivoltato contro. Forse ci siamo abbandonati voluttuosamente e impazientemente fra le braccia di un grande fratello malvagio senza rendercene conto.
Una manciata di anni fa, il massimo dell’apertura al mondo di una famiglia media come la mia, era rappresentata dal telefono. E, tra l’altro, era uno strumento che incuteva pure una certa soggezione. Esisteva un galateo per l’intrusione nelle vite altrui; non si telefonava mai dopo le otto di sera, e nemmeno la mattina prima delle nove, e tanto meno durante l’ora di pranzo o cena. Se il telefono squillava, per esempio, verso le nove o dieci di sera, quasi sempre era una cattiva notizia. Qualche parente a cui era preso un accidente, lo zio emigrante che non si vedeva da vent’anni che era morto all’improvviso, la vecchia sorella della nonna che era stata ricoverata in ospedale.
Per le occasioni importanti c’era il telegramma, con il suo personale vocabolario dal quale dedurre se chi l’aveva spedito era un avaraccio o non badava a spese.
Ora il cellulare squilla nei momenti meno opportuni, così come il telefono; la casella mail è sempre piena di messaggi di chi vuole vendere il viagra indiano o pretende di allungare l’uccello con macchinette meravigliose che sembrano strumenti della santa inquisizione, o promette vincite milionarie in casinò virtuali.
Però se dovessi dire quali sono state le invenzioni che hanno caratterizzato l’epoca moderna, non avrei dubbi: il cellulare e internet. Il fatto è che probabilmente siamo ancora dei pionieri e, come i medici ottocenteschi consigliavano di fumare o ingurgitare bevande alla cocaina per mantenerci in buona salute, così anche noi forse ne facciamo un uso primitivo e sbagliato di queste invenzioni.
Ma che cazzo sto dicendo? Sarà il fatto di aver quasi prosciugato i risparmi e sentito il direttore che ha già messo le mani avanti riguardo il pagamento del catalogo (sai c’è l’anticipo delle tasse...) che mi fa delirare.

venerdì 12 novembre 2010

Il direttore

Il direttore sa come tenermi sotto pressione. D’altronde è il suo mestiere ottenere il massimo dalle persone. Peccato per gli orari, che sono quanto di più eterogeneo. Dalla mattina alle 8.30 alla sera alle 20 e oltre.
Confesso di fare una certa fatica a tenere il ritmo di questo sessantenne, ma finalmente sento di essere meno inutile di quanto non lo sia stato in questi ultimi mesi.
Peccato solo che quando finirà questo lavoro mi ritroverò punto e a capo.

mercoledì 10 novembre 2010

Scelte o destino?

Essendo nella quinta fase - quella dell’accettazione mista a depressione - delle cinque teorizzate dalla psichiatra Elisabeth Kübler Ross, mi trovo a ripensare, più spesso di quanto abbia mai fatto, a quali sono state le scelte, il destino, il karma, che mi hanno trascinato in questo indefinibile periodo della vita.
La prima considerazione è stata che, se non avessi deciso di intraprendere una “carriera solista”, questo momento non si sarebbe mai presentato.
Durante il liceo immaginavo il mio futuro immerso in una nebbia densa, dalla quale, affioranti in pozze di luce gialla, comparivano ora un lavoro in un’agenzia pubblicitaria, talvolta un’altro come fotografo, illustratore o roba simile.
La passione era forte, più di ogni altra, ma, contemporaneamente, povera di mezzi. Non potevo permettermi colori di qualità, materiale fotografico e tantomeno grafico. Mi arrangiavo come potevo, fra regali di natale, compleanno e molta inventiva.
Ma inventiva e buona volontà non sempre bastano. Puoi provare a piantare un chiodo con una scarpa, ma col martello è infinitamente meglio.
In verità è sempre mancato l’incoraggiamento, non solo economico, da parte dei miei, forse perché la mia scelta scolastica, fortemente voluta, non è stata omogenea alle loro ambizioni.
Inutile dire che la mia risposta negativa alla semplice domanda formulata una sola volta: “Vuoi continuare a studiare o ne hai abbastanza?” fatta a diploma ancora caldo, mi ha subito catapultato alla ricerca di un lavoro.
Col senno di poi, avrei potuto approfittarne per trascorrere qualche anno di cazzeggio, fingendo di frequentare qualche facoltà di cui nemmeno conoscevo l’esistenza. Mi sarebbe piaciuto provare con l’Accademia di Belle Arti di Brera ma, mea culpa, ero totalmente ignorante riguardo alle strade che avrei potuto intraprendere dopo il diploma, e il mio interesse era totalmente concentrato sulla mia ragazza e le passioni artistiche. 

Credo che questo sia il primo punto di svolta della mia vita, la prima vera pietra angolare. Una scelta condotta in piena solitudine che mi ha fatto imboccare, fra le le strade che si aprivano, quella in apparenza più facile. Forse.

Così, con un portfolio costituito da semplici esercizi di stile autoprodotti, cominciai a girare per agenzie e inviare curriculum. Il ritornello era sempre il medesimo: “Hai passione, sembri volenteroso, ma sei giovane, non hai l’esperienza che ci serve”. Ho collezionato così tante risposte simili da deprimermi sempre più e comportarmi come quei pazzi che vedono cospirazioni aliene dietro ogni angolo. In breve tempo giunsi alla resa incondizionata, accettando un colloquio nella multinazionale in cui lavorava mia madre, forte del fatto che fosse prassi comune assumere i figli dei dipendenti prossimi alla pensione. Feci un colloquio con una psicologa aziendale e giuro che ce la misi tutta, ma finì in niente. Non credo di essere risultato adatto al lavoro di squadra, e nemmeno all’obbedienza incondizionata.

Il secondo punto di svolta della mia vita.

Poi venne il giorno in cui una piccolissima agenzia si interessò a me. Specialmente per via del periodo passato a fare da assistente fotografo alla Fiera di Milano e quei pochi mesi di corso serale di fotografia al Cesare Correnti.
Cercavano un ragazzo che si occupasse della camera oscura e, a tempo perso, imparasse un po’ di grafica. Niente assunzione, solo un part time a ritenuta d’acconto. Manco a dirlo, durò poco: forse un paio d’anni, l'agenzia fallì  e mi ritrovai a spasso.
Ricomincio la ricerca e tornano le delusioni. Trovo lavoro in un’altra agenzia, ancora più miserrima, guidata da un ex alpino come fosse una caserma. Dopo un anno, poco prima di natale, oso chiedere un piccolo aumento. L’alpino risponde testualmente: “Ma quale aumento? Non lo sai che tanto dall’anno prossimo non lavori più?”.
Ho preso il mio assegno non sapendo nemmeno cosa rispondere e me ne sono andato. Non sono più tornato, ho denunciato l’alpino che, dal canto suo, per onorare l’arma a cui era tanto affezionato, mi ha accusato di furto. Ha perso, ma ho perso anch’io, ricominciando di nuovo da zero.
Altra piccolissima struttura. Si occupano di carte geografiche. La sede è ricavata in un angolo di un parcheggio interrato. Il cesso è disgustoso, ogni volta che un’auto entra o esce dal parcheggio tremano i vetri e l’odore è insopportabile, non c’è luce. Non resisto, non ce la faccio proprio a rimanere in questa tana di topi, non sopporto l’odore di ammoniaca delle cianografiche, me ne vado di mia spontanea iniziativa.
Nel frattempo mia madre incontra in ascensore il titolare di un’agenzia che lavora per la sua azienda. La scambia per una dirigente e, quando lei chiede se cercano un giovane grafico, lui dice di sì. Mi ritrovo in un ambiente discretamente pulito tranne che per la coscienza dei dipendenti. Non so perché, fanno di tutto per ostacolarmi, mi nascondono informazioni importanti, mi rendono la vita impossibile. Un giorno cado in moto sulla tangenziale. Mi ustiono un braccio, un avambraccio, il culo e l’osso del gomito mi spunta dalla pelle consumata dall’asfalto. Quando mi ripresento al lavoro mi dicono che non possono più continuare a pagarmi lo stipendio consueto. Sono disposti a tenermi, ma con una consistente riduzione. Li mando affanculo e quando esco mi sento più leggero e felice di quando ero entrato.
Torno di nuovo in pista. Capito per caso in una storica casa editrice di Milano. Una signora distinta mi propone di fare dei disegni tecnici per libri scolastici e non. È una cosa che mi prende di sorpresa, ma è un lavoro e decido di tentare. Mi si apre un nuovo orizzonte e, anche se non smetto di propormi come grafico e illustratore, comincio di nuovo a portare a casa un po’ di soldi. Allargo il giro ad altre case editrici scolastiche. Vado a ritirare il lavoro, lo faccio a casa e lo riporto. Non mi dispiace e amo dire che la scelta di lavorare come libero professionista non è stata una scelta vera e propria, ma un concatenarsi di coincidenze, un seguire un sentiero obbligato.

Questa è sicuramente la terza pietra angolare.

Lavoro per diverse case editrici scolastiche e altri piccoli clienti che ho facilmente incontrato da quando faccio il battitore libero. Uno di questi è fra i primi ad introdurre i sistemi macintosh nell’editoria e ci lavora mia moglie. Ogni tanto provo a sperimentare il computer e i primi rudimentali programmi di disegno. Li trovo comodi e molto più veloci dei rapidograph e delle squadre. Decido di fare il grande salto e compro il mio primo mac.

Quarta svolta, forse la più importante.

Dai disegni tecnici all’impaginazione il passo è breve, i programmi sono ancora piuttosto semplici da imparare e, in breve tempo, quasi tutti gli editori si convertono al digitale. Sono tempi fruttuosi, c’è molto lavoro, mi specializzo nell’impaginazione e nella progettazione editoriale. Col tempo il lavoro aumenta anche se il parco clienti funziona come una fisarmonica, contraendosi ed espandendosi ritmicamente, ma senza mai fermarsi. Dalla ritenuta d’acconto passo alla partita iva. Ormai ho abbandonato l’idea del posto fisso e, soprattutto, il campo delle agenzie pubblicitarie che, tra l’altro, sono piene di gente presuntuosa e molto distante da ciò che sono io. L’editoria è tutt’altra cosa, più alla mano, meno pretenziosa e permette di esprimere maggiormente la creatività del singolo, del battitore libero, come io mi sono sempre sentito.
È un modo di lavorare che concilia la mia indole solitaria, il mio carattere non facilissimo. Sono soddisfatto, guadagno ciò che basta per vivere come mi va. Non c’è sicurezza, d’accordo, ma sono andato avanti così per oltre vent’anni.
Poi è successo quello che è successo. Un cliente ha preso il sopravvento su tutti gli altri, ha monopolizzato il mio tempo, mi ha fatto guadagnare, è vero, ma è anche vero che al primo intoppo mi ha scaricato come i camper scaricano i loro wc chimici per strada.

Ecco quindi la quinta pietra angolare, credo la più importante di tutte, quella che mi costringerà, forse, a cambiare nuovamente vita. La più pesante da trasportare. E il problema è che non so dove portarla.

Adesso mi domando: ho sbagliato qualcosa in tutto questo? È stato tutto frutto di decisioni ponderate o, fin troppo spesso, delle circostanze, della combinazione, del karma o del destino? E se davvero le mie azioni non riescono a influenzare il corso della mia vita, cosa mi riserverà il domani?

martedì 9 novembre 2010

Lacrime

Non sono uno dalla lacrima facile. Non sono riuscito a piangere quando morì mio padre, né mia nonna, né per il dolore di una colica renale.
Ma ogni volta che penso a questa situazione di merda e al futuro dei miei figli, mi si riempiono gli occhi di lacrime. E una persona di quasi cinquant'anni non dovrebbe piangere per queste cose.

lunedì 8 novembre 2010

Piove, governo ladro!

Tuoni e fulmini a novembre sono qualcosa di imprevedibile e destabilizzante come un'eclissi di sole.
Spesso mi domando se chi è stato protagonista, volente oppure no, di cambiamenti epocali, ne abbia avuto coscienza.
Perché, alla faccia dei reazionari che le definiscono tutte cazzate, il tempo è cambiato, davvero.
Non è un discorso da ascensore, nel quale ci si lamenta cha non ci sono più le mezze stagioni (vero), ormai credo sia sotto gli occhi di tutti.
Non sarà così evidente come un conflitto mondiale, o una rivoluzione di popolo, ma forse le conseguenze saranno anche peggiori.
Non sono un fanatico dell'ambiente, non chiudo l'acqua quando mi lavo i denti, sotto la doccia ci sto quanto mi pare e ogni volta che uso il water scarico le cascate del niagara.
Ma qualcosa di vero in questa storia del riscaldamento globale deve esserci.
Alle elementari mi ci accompagnava mia nonna - come del resto è stata lei ad accompagnare quasi tutta la mia infanzia - estate e inverno, col caldo e col freddo. E noi bambini, almeno fino alle medie, si andava sempre in giro coi calzoni corti. Certe mattine d'inverno, quando i marciapiedi erano bianchi di brina e l'erba ghiacciata ché si spezzava quando ci si camminava sopra, me le ricordo eccome.
Una mattina ho visto un gatto acciambellato appena giù dal marciapiede. La testa appoggiata sulle zampe, gli occhi chiusi, sembrava dormire. Non so perché l'ho voluto toccare con un piede, è scivolato via con un rumore di minestrone surgelato che gratta sull'asfalto, senza che un solo pelo cambiasse posizione. Pareva un dischetto da hockey che scivolava sulla strada ghiacciata.
Non c'era anno che d'inverno non nevicasse, non c'era anno che insieme agli amici, non ci si lanciasse per la discesa del garage condominiale seduti sui sacchi dell'immondizia vuoti che scivolavano che era un piacere.
A carnevale faceva sempre così freddo che era impossibile uscire vestiti da indiani, zorro o cow-boy senza sopra il cappotto. Era una cosa che mi mandava in bestia e mandava in bestia anche mia nonna che doveva allacciarmi ripetutamente il cappotto che io slacciavo di continuo per mostrare il costume.
Oggi il maglione di lana lo mette solo chi ne vuole fare sfoggio, i miei sono sul ripiano più alto dell'armadio da anni, in attesa della prossima era glaciale.
Certo che se comincio coi discorsi sul tempo significa che sto invecchiando davvero. Almeno mi consolo urlando senza tema di essere smentito: "piove, governo ladro!".

venerdì 5 novembre 2010

Se, se, se...

All’inizio degli anni sessanta, i miei comprarono casa qui, dove finisce Milano e comincia Sesto San Giovanni. Una terra di nessuno, un quartiere appena nato, solo la strada asfaltata; per i marciapiedi aspettammo un bel pezzo.
Dopo qualche anno arrivò anche una chiesa nuova di zecca, con auditorium, bar, campetto di calcio e tutti gli annessi e connessi del caso. Una di quelle chiese modernamente anni settanta, dalle forme strambe, tutte cemento e vetri colorati. 
Dietro l’altare, il mosaico in pietre bianche e nere di un enorme cristo col dito alzato e un fare vagamente minaccioso capace, ancora oggi, di risvegliare i ricordi della mia infanzia.
Le scuole elementari le ultimarono esattamente nel momento in cui cominciai la prima, e le medie appena finito il quinquennio.
Eravamo uno dei pochi quartieri di periferia ad avere anche un cinema, un bel cinema, con galleria e platea. Oggi ridotto a chiesa di una qualche intransigente religione filocristiana che tanto piace a chi viene da lontano.
Per comprare casa i miei si indebitarono con un mutuo di vent’anni e si portarono in casa mia nonna materna che contribuì per quel poco che poteva in cambio di un terzo della casa a suo nome. Diceva che era la sua assicurazione per non finire in qualche ospizio quando sarebbe diventata troppo vecchia. E vecchia lo diventò davvero; morì a novantasei anni dopo essere andata a fare la spesa da sola fin oltre i novanta.
Quando ci fu l’occasione di comprare un monolocale nello stesso pianerottolo, mia madre ci buttò dentro tutta la sua liquidazione d’impiegata e un altro po’ di cambiali. Io feci quello che poteva fare un ragazzo di diciannove anni: imbiancare, sistemare, restaurare, tappezzare, installare. Fu ciò che feci nell’anno che trascorse tra il mio diploma al liceo e i primi lavori seri. Un anno sabbatico passato a fare il muratore invece che a girare l’Europa in treno come i miei coetanei.
L’ultimo grande sacrificio in ordine di tempo è stato l’acquisto del terzo appartamento del pianerottolo. Due locali comprati a peso d’oro da una coppia di giovani stronzi che, nel giro di qualche anno, si sono ritrovati eredi da nonni e genitori di vari appartamenti e case di campagna.
Ci abbiamo buttato dentro tutto ciò che mio padre, commesso viaggiatore, ci aveva lasciato - una misera liquidazione - tutti i nostri risparmi e quelli di mia madre.
Come un vecchio emigrante ottocentesco ho pensato che così avremmo avuto a disposizione tre appartamenti da due locali disposti nello stesso pianerottolo dove, in futuro, avrei potuto sistemare i due figli e noi, vecchi genitori.
Mi rendo conto che è un un conto della serva e che forse i miei figli preferiranno andarsene chissà dove, magari il più lontano possibile dai genitori. Forse avrei potuto investire diversamente i pochi risparmi, magari se la situazione non cambia sarò costretto a vendere a pezzi la mia vita, forse, se mia nonna avesse avuto le ruote, poteva essere un tram...

giovedì 4 novembre 2010

Senza parole

Non so cosa dire. Come François Truffaut, che ho visto in un’intervista su Rai Storia, unico canale vedibile nella "generosa offerta" della tv digitale.
Truffaut diceva che, non avendo avuto un’istruzione classica, non amava molto parlare in pubblico delle sue idee perché, per esempio, quelli che gli potevano sembrare una brillante intuizione, o un importante concetto filosofico, probabilmente erano già stati esposti da qualche pensatore greco duemila anni prima o, in tempi più recenti, da qualche altro erudito moderno.
Questa affermazione già lo pone, almeno secondo me, su di un piano superiore alla maggior parte dell’umanità e me lo fa sentire così affine.
No, non oserei mai immaginarmi accanto a un maestro al quale tutti dovrebbero solo inchinarsi, ma lo sento affine per il suo atteggiamento verso la cultura cosiddetta alta. 
Anch’io non ho avuto un’educazione classica e non so se rammaricarmene, non so cosa sia un complemento oggetto, non ho idea di come fare un’analisi grammaticale, ma penso che le idee siano qualcosa di universale, un patrimonio comune, analisi grammaticale o meno.
Malgrado tutto ho espresso molte idee, forse troppe, magari banali, spesso inutili. Forse ho fatto male, oggi è meglio lasciar perdere, come è possibile combattere una cialtroneria così diffusa e imperante? 
Non vado più alle riunioni di condominio per non dover ascoltare le castronerie di quattro bifolchi atteggiati, e nemmeno alle assemblee di classe, nelle quali sembra che i genitori facciano a gara per apparire più stupidi dei figli. 
Sono stufo di inseguire la merda del diavolo solo per poter dare una vita decente ai miei figli, stufo di vedere un paese ridotto così, preoccupato per quale vita si prospetterà alle prossime generazioni.
Davvero non so più cosa dire.

mercoledì 3 novembre 2010

Penelope's style

Non è facile lavorare con l’ex direttore. Telefona a qualsiasi ora, ieri sera alle otto e trenta, non numera mai progressivamente gli impaginati, sposta gli elementi grafici, cambia le foto senza allegare quelle nuove, spesso si perde il materiale che gli invio con skype. Ma è sempre un piacere relazionarsi con lui. Dopo i rari scatti d’ira è capace di ridere e scherzare come niente fosse, di scambiare quattro chiacchiere sul tempo o sulle ultime imprese di quello che lui chiama “il berlusca”.
Ciò che fino ad ora non ho ben capito è se questo fare e disfare penelope’s style sia colpa del cliente o sua. In effetti non è molto importante. Non quanto portarsi a casa questo lavoro e relativi soldi.

martedì 2 novembre 2010

Lo specchio del tempo

E, la piccola, dice che halloween è la sua festa preferita, naturalmente dopo natale e il compleanno. 
È sempre stata una festaiola, per lei qualunque occasione è buona per fare baldoria, in special modo quando si tratta di feste liberatorie, pagane, trasgressive. Una cosa che, non posso negarlo, spesso mi provoca qualche pensiero destabilizzante.
L’anno scorso eravamo tutti malati e quindi halloween è andato a farsi benedire; niente zucca intagliata, niente ragnatele, nemmeno dolcetto o scherzetto dalla nonna, che abita nello stesso pianerottolo.
Quest’anno però doveva essere festeggiato come si deve, tanto più che mi trovo oggettivamente in sintonia col lato funereo della festa. 
Chissà perché il travestimento che mi è riuscito più facile non è stato da assassino, da mostro o da qualcosa di demenziale come un tubetto di dentifricio, ma da barbone. Intendiamoci però, un barbone con tutti i sacri crismi e cioè con i vestiti di una settimana, pieni di macchie di cioccolato, olio eccetera, i capelli sporchi e i pantaloni tenuti su con un bel pezzo di corda. A completare il tutto, un vecchio tascapane comprato a San Michele al Tagliamento quando ero piccolo, con all’interno la mia inseparabile bottiglia di pampero, una sciarpa vinaccia che ha visto tempi migliori, un paio di infradito lerce e puzzolenti e un vecchio berrettino militare dell’ex cecoslovacchia. Un po’ di trucco sotto gli occhi, sulle guance e il naso ha dato quel tocco di couperose che non può mancare. 
Il risultato finale è stato scioccante, come se lo specchio fosse una macchina del tempo che mostrava un futuro forse possibile, o forse no, ma di un realismo impressionante. L’ho presa sul ridere, che altro avrei potuto fare? 
Durante la cena, mi sono immedesimato in uno di quei barboni che la milano bene ama tanto invitare per una cena a natale o capodanno e che poi fa scomparire sotto il tappeto dell’ipocrisia per il resto dell’anno. Ho ruttato, ho mangiato con le mani, chiesto da fumare e toccato il culo a quella bella signora di mia moglie. In effetti è stato liberatorio, come togliersi la pelle morta dopo una scottatura al mare, la libertà di fregarsene degli altri, di comportarmi come mi pare. Ma è solo uno scherzo, una cosa divertente che ha divertito sia E che C, e anche mia moglie, che si è fatta palpeggiare fingendo imbarazzo. Divertente, ma solo per un giorno all’anno, come si diceva nei film di Alberto Sordi: “così tanto per divertire i piccoli!”.
Almeno spero.