martedì 31 agosto 2010

A presto amico mio

Eccoci di nuovo a Milano, dopo un viaggio allucinante durato quasi sei ore per meno di cinquecento chilometri.
Dopo questa esperienza catastrofica sono giunto alla conclusione che le strade ormai rispecchiano ciò che sono diventati gli italiani: una massa indisciplinata di prepotenti bifolchi.
Ho rasentato la rissa con un figlio di puttana di Torino che, malgrado avesse a bordo di una improbabile opel vectra famigliare moglie e figlio, si comportava come un idiota incosciente, cambiando corsia come se guidasse un autoscontro, sorpassando indifferentemente a destra e sinistra e cercando la rissa con chi non lo faceva passare. Quando anch’io, come un delinquente di periferia, ho minacciato di stringerlo per buttarlo fuori, si è eclissato e non l’ho più visto fino a Milano.
Mi sono comportato come un energumeno incivile e me ne vergogno, ma ero completamente fuori di me. Se avessi avuto una pistola gli avrei sparato senza esitare, e se con me non ci fossero stati moglie e figli, lo avrei inseguito fino in capo al mondo e, dopo averlo speronato, lo avrei massacrato di botte.
Mi ci sono volute quasi tre ore per smaltire il giramento di coglioni, ascoltando musica, guardando il panorama dal finestrino e ripensando a Dorico e come mi aveva salutato prima di partire.
Stranamente, si era ricordato il mio nome, ma non quello dei miei figli. Veramente quello di E. non riusciva nemmeno a pronunciarlo e, dopo un certo numero di tentativi, abbiamo rinunciato a ripeterglielo per rassegnazione.
“Partite di già?”. Ci ha detto con un velo di tristezza e meraviglia. Poi ha voluto che gli lasciassimo il numero di telefono: “Perché io sò testardo e ogni tanto me prendo la mia agendina e chiamo li amici, anche in Argentina. - e rivolto a C. - e quando te chiamo, me devi fà sentì come suoni la chitara”.
Poi ha cominciato a dire che chissà se l’anno prossimo sarà ancora al mondo e se ci rivedremo, domandandosi quale incantesimo gli avessimo fatto perché si affezionasse così tanto a noi. Mi ha stretto la mano, raccomandandomi di guardà avanti e dicendomi: “Ciao amico mio”.
Sono state proprio queste tre parole a colpirmi profondamente. Lo so, vengono da un vecchio che nemmeno conosco e con la testa un po’ frastornata, ma ho capito che le diceva davvero col cuore e con gli occhi lucidi.
Poi ci si è messa anche Milano a sollevarmi il morale. Sembrava quasi bella, il cielo azzurro, la tangenziale asfaltata di fresco e quel po’ di verde che la circonda era così brillante, come se qualcuno l’avesse lucidato in previsione del nostro arrivo.
Sembrava quasi una di quelle giornate di fine estate di quando ero piccolo, così belle da essere quasi malinconiche.

sabato 28 agosto 2010

Gli jesini sono matti?

Era da qualche anno che volevo visitare Jesi. Su quel vademecum per vecchi smemorati senza fantasia che è la guida verde del Touring Club, Jesi è segnalata con un asterisco, il che sta a significare luogo di speciale interesse. C’è anche uno dei soliti disegnini asettici che rappresenta le mura della città vecchia e che, in parte, mi ha invogliato a fare questa gita.
È deciso, si va. Superata una periferia caotica e sgraziata, ma con tanto di centri commerciali e un multiplex, fermo l'auto vicino a Porta Valle.
Le mura sono belle, imponenti, peccato per le auto parcheggiate proprio a ridosso degli antichi mattoni. Le costeggiamo per una cinquantina di metri, fino al Torrione, sotto al quale, sedute su una panchina, due africane chiacchierano mentre si puliscono le dita dei piedi con pigra noncuranza.
Che sarà mai? A Milano ci siamo abituati da tempi immemori, ma qui non ce l’aspettavamo.
In effetti, Jesi conta circa quarantamila abitanti, è quindi normale che ci sia una certa multietnicità.
Entriamo nella città vecchia percorrendo una via stretta e ripidissima, con case antiche costruite in parte direttamente sulle mura. Sono ricoperte da rampicanti e fiori e, se non fosse per i bidoni della raccolta dei rifiuti disseminati in ogni anfratto, parrebbe di essere fuori dal tempo.
La via termina in piazza Federico II in cui, la tradizione, vorrebbe che, il 26 dicembre 1194, Costanza d’Altavilla abbia dato alla luce il futuro imperatore svevo da cui la piazza prende il nome.
È piuttosto ampia e, soprattutto, affollata di persone che sciamano con passo veloce in ogni direzione. Va bene che Jesi è stata definita (sempre secondo il Touring) la Milano delle Marche, ma la trovo quasi isterica, con le auto che sbucano da mille viuzze dalle quali ti viene da pensare che passerebbe a stento un carretto trainato da un mulo, vigili che vanno e vengono, mezzi pubblici in miniatura che incrociano ovunque, e la gente che, a dispetto della multietnicità che mi sembra piuttosto consolidata, ci guarda come si osserva con diffidenza e anche un po’ di spocchia un alieno appena sbarcato dalla sua astronave.
Gli edifici sono i tipici palazzi sette-ottocenteschi, alcuni in buono stato, altri chiaramente degradati. Spicca come un pugno in faccia la sede di una banca di stampo modernista anni ‘80, incastrata, come un dente finto, fra due palazzi d’epoca. Probabilmente il frutto di una concessione edilizia non troppo limpida o, quanto meno, avventata.
Ci incamminiamo lungo corso Matteotti: l’asse centrale di tutta la città vecchia che l’attraversa da un lato all’altro. È quello che per qualunque città rappresenta il salotto buono, la via che raccoglie il meglio, il polo anche culturale, fatto di negozi di prestigio, ma anche di antichi caffè, di librerie e compagnia bella.
Percorrendolo rimaniamo sbigottiti. È un susseguirsi di vetrine come se ne vedono nelle periferie di qualunque grande città: intimo e camice, abbigliamento di scarsa qualità, minuscoli bar inesorabilmente e squallidamente ristrutturati in stile moderno, palazzi che più che d’epoca, appaiono vecchi e abbandonati a sé stessi.
Gli interni di negozi e bar sono bui, senza una luce, tanto che non capiamo se siano aperti o chiusi e sono arredati in qualche modo, a volte con ciò che sembrano avanzi degli anni ‘70 o ‘80. Tanti danno l'impressione di essere abbandonati, con le vetrine nascoste da carta da pacco. La gente che incrociamo è vestita in un modo che, almeno per me, sembra quanto mai bizzarro: un misto di shorts e sandali col tacco e ariosi vestiti da signore che si apprestano a prendere il te nel giardino della loro tenuta del Devonshire. Ma forse sono loro a trovarci bizzarri, perché continuano a squadrarci di sottecchi con insistenza.
Vetrine di fotografi da matrimonio, si alternano a quelle con esposti cappelli di paglia da dieci euro, ad altre ancora che vendono camice e vestiti fuori moda da almeno dieci anni.
Mi fermo a osservare una vecchia che deve aver superato gli ottanta da un bel pezzo, curva come un ulivo centenario, ma che indossa dei blue jeans decorati con un enorme fiore di strass che parte dalla caviglia e arriva fin sopra la coscia. Sta trafficando con due mazzi di chiavi, cercando di aprire la porta di alluminio di un negozio forse di antichità. Continua a provare e riprovare, visibilmente incazzata, ma la porta sembra non volersi aprire. Ogni tanto tenta una debole spallata e mi pare quasi di sentire lo scricchiolio delle vecchie ossa, ma senza risultato. Non ho la forza di andarmene, ormai sono ipnotizzato, mentre lei continua a infilare diverse chiavi mormorando fra sé e sé quelle che, mi piace immaginare, siano bestemmie. Poi prova ad abbassare la maniglia: era già aperto!
Un’altra vecchia è seduta su un seggiolino pieghevole contro un muro, ha le unghie dei piedi che spuntano da vecchi sandali lunghe e sporche, come di chi è abituato ad andare per campi. Davanti a sé, appoggiati su un vecchio quotidiano, ci sono una manciata di fichi striminziti e acerbi e qualche fiore di campo mezzo appassito. Credo sia sua intenzione venderli, ma è più una scusa per chiedere la carità senza avere l’aria di farlo.
Più avanti sentiamo dei potenti gorgheggi, come nelle comiche, quando la grassona di turno si esercita nel bel canto. Si spandono lungo la via senza che nessuno ci faccia caso, poi, una ragazza che batte un tamburello contro la coscia nuda al ritmo dei suoi passi, si infila nel portone della casa da cui provengono i gorgheggi. Ora si è unita anche una voce maschile che intona varie scale. Fuori dal portone una targa chiarisce il mistero: si tratta di una scuola di musica che, però, dall’esterno pareva più una vecchia fabbrica abbandonata.
Cerchiamo la pinacoteca in cui sono custodite alcune opere di Lorenzo Lotto; un cartello ci spedisce chissà dove, ma di certo nella direzione sbagliata. Poco male, perché non riaprirà prima di dicembre.
Quella che, stando al cartello davanti al quale sta cercando di parcheggiare un vecchio invalido su una mercedes cabrio gialla, dovrebbe essere la chiesa più antica di Jesi, è inesorabilmente chiusa.
Vedo un Bancomat: ho bisogno di prelevare perché ho dimenticato i soldi a casa. “Impossibile stabilire la connessione con la sua banca”. Ne trovo un altro. Funziona, ma i tagli prelevabili sono quanto di più illogico si possa immaginare: 40, 70, 120, 180 euro. Ma quale mente malata può aver escogitato una sequenza che sembra quella di un Fibonacci impazzito?
Va beh, compriamo il giornale.
“Mi dà Repubblica, per favore?.
“Esaurita”.
Ma che cazzo di paese è questo? Un po’ ridiamo pensando che gli jesini siano tutti un po’ soffiati in testa. Tutta questa frenesia, questi vestiti strani, i negozi che vendono di tutto come in una casbah da fine del mondo, fuorché qualcosa che sia anche lontanamente interessante, quegli altri che urlano scale musicali dalle finestre aperte, i cartelli che ti mandano dalla parte opposta a ciò che indicano...
Ma un po’ ci incazziamo pure, perché questa sembra una città senz’anima, in cui i palazzi d’epoca sono stati violentati da interventi che definire criminali è ancora poco. Altre case sembrano semplicemente dimenticate, abbandonate al loro destino di degrado e abbandono. È una città che, rispetto a quanto abbiamo visto fino ad ora, risplende di una bruttezza perversa, come un dente cariato in una bocca sana.
Ce ne andiamo delusi e leggermente intontiti che non è ancora mezzogiorno, cercando un posto dove mangiare che sia il più lontano possibile. 
Ma prima mi fermo a fare benzina. L’addetto alla pompa ha passato i settanta, ha un cappellino da baseball consunto e sembra di poche parole. Per dare il resto al cliente precedente scompare per cinque minuti buoni, poi quando riappare chiede semplicemente:
“Benzina?”.
“Sì, benzina verde”. Dico io.
Lui si infila un guantone bordeaux di gomma pesante che gli arriva fino al gomito e stacca la pistola dalla pompa. Mi guarda e mi fa: 
“Benzina?”.
“Benzina verde”. Gli ripeto, ma questa volta sto attento a quello che fa.
Lo pago, e lui, di nascosto, controlla la mia banconota da cinquanta euro, quella da venti invece non se la pensa nemmeno e la infila nel marsupio che porta allacciato in vita.
Io, tanto per darmi un tono, guardo in controluce la filigrana di quella da dieci che mi ha dato di resto e me ne vado.

mercoledì 25 agosto 2010

Dorico, atto secondo

Bussano alla porta, è Alina, la moglie di Dorico. Cammina con due bastoni perché ha la schiena messa male, ma così male che la notte non riesce a dormire. Dice che è appena venuto il dottore a visitarla, che si deve mettere un cerotto antidolorifico sulla schiena, che deve fare movimento, che deve dimagrire perché è troppo pesante e non va bene per le ossa.
Chiede se, quando passiamo dal supermercato, le possiamo comprare un rotolo di cerotto perché altrimenti non riesce a far stare attaccato quello antidolorifico. Dico che va bene, che se non ci si aiuta fra vicini, allora a chi si dovrebbe chiedere una mano?
Mia moglie glielo porta a casa: c’è anche Dorico che le dice: “L’hai visto el viulino? Appena mia nuora viene col coltello, te ne do un pochetto”.
Il viulino è un bel prosciutto intero. Ogni anno se lo fa preparare da un amico sua, è fatto come si deve: “Mica come quelli che se comprano al supermercato, che fanno schifo”.
E infatti, l’indomani, Alina si presenta con un bel piatto di prosciutto.
“È bono, solo un po’ saporitino”. Poi chiede se le possiamo comprare un rotolo di pellicola per alimenti. Va bene, tanto al supermercato ci andiamo tutti i giorni, che sarà mai?
Salgo con la spesa e il domopak. Nel frattempo, Alina è da un po’ che chiacchiera con mia moglie. Le dice che Dorico vorrebbe tanto qualche pizzetta. Ma non quelle del bar qui di fronte perché, secondo lui: “Nun le fanno bene, so’ sporchi”.
“Ma come - dico io - se ci vanno a mangiare tutti i giorni!”. Ma lei mi spiega che il ristorante non ha la stessa gestione del bar e, a proposito di pizze, che Alina le ha raccontato di quando Dorico ha chiesto al ragazzo che gli porta il pranzo se gli andava a prendere una pizzetta al super. Quello ci è andato ma erano finite. Allora Dorico gli dice di provare alla Rosa dei venti, che è un bar poco più avanti. Il ragazzo va anche lì, ma le hanno finite. Torna a dirglielo, Dorico ci rimane male, gli dice di farsi fare una pizza da Luciano: metà rosmarino e metà cipolla. Quello allora ci va, si fa fare la pizza e gliela porta.
“Allora poi quella gli è piaciuta?" chiede mia moglie.
“Macché - dice Alina - siccome secondo lui sotto era un po’ bruciata, alla fine l’ha buttata via”.
E va beh, prendiamo anche ‘ste pizzette. “Ah - dice mia moglie - vorrebbe anche un pezzo di elastico per le mutande”.
Ma come, con tutte le bandanti che vanno e vengono, quella che gli fa il bagno, quell’altra che gli lava e gli stira, tutti gli amici che lo salutano ogni volta che passano qui sotto, ma proprio a noi devono chiedere continuamente queste commissioni?
Lo sapevo io che non dovevamo attaccare bottone con questi. L’anno scorso poco ci mancava che ci svegliassero nel cuore della notte perché Dorico c’aveva la sciatica. Meno male che poi hanno chiamato l’ambulanza.
Ma non dovevano fare un po’ di movimento? Il super sarà sì e no a un centinaio di metri, forse anche meno. A me pare che l’unica ginnastica che fanno un paio di volte alla settimana, consiste nel scendere le scale, attraversare la strada e sedersi al ristorante per almeno tre ore.
A parte ieri sera, quando abbiamo incrociato Dorico sul ballatoio. Era in pigiama. Mia moglie chiede se si sta preparando per andare a dormire. “Macchè - risponde lui - me sono appena alzato. Ho fatto el pisolino, mò sento du cazzate che me dice mi moje, poi vado al bar a vedè la partita de Milan-Juventus. Io tengo al Milan, perché me piace tenè alle squadre che uincono. Mi ricordo ancora quando è caduto l’aereo del Turino nel ‘49. Stauo in autostrada che andauo a lavorà e me so messo a piagnere in macchina da solo”.
Che gli vuoi dire?

lunedì 23 agosto 2010

Massimiliano, Massi, Max

Lui si chiama Massimiliano, ma, come diceva Troisi in Ricomincio da tre, è un nome scostumato, perché è troppo lungo. Allora lo chiamano Massi, o anche Max. È l’ortolano pazzo che si ferma il mercoledì e la domenica lungo la litoranea col suo camioncino. La parlantina non gli manca e per questo, negli anni, siamo diventati amici.
Si è laureato in agraria, o qualcosa del genere, con una tesi sulla riqualificazione ambientale delle sponde del fiume Musone, e ha deciso di coltivare la terra secondo i suoi principi e le sue idee. Ovvero, non seguendo la moda del biologico che, secondo lui: “È ‘na minchiata”, ma con la mentalità del contadino di una volta, che decideva a seconda delle necessità, quando, come e se usare i prodotti chimici. E i risultati sembrano dargli ragione, se non economicamente, almeno in termini di qualità. Le melanzane, che l’altro giorno ha definito esterrefatte, sono ottime, e a un prezzo quasi irrisorio. Meloni e angurie hanno una dolcezza e una compattezza che a Milano te le sogni. I fagiolini li sceglie uno a uno, scartando quelli storti, perché dice: “Sennò me rompono li cojoni”. Quello che vende è stato raccolto al più tardi il giorno prima e si sente.
Mi riesce difficile descrivere Massimiliano perché è un fuoco d’artificio, un dialogare senza capo né coda, un florilegio di bestemmie frammiste a esclamazioni quali meeravigliooso, siete faantastici! e roba del genere.
Ieri siamo andati a trovarlo al suo campo di Recanati, tra il fiume Musone e la città alta; un fazzoletto di terra in cui riesce a seminare un po’ di tutto. Meloni, angurie, peperoni, pomodori di almeno tre varietà, fagiolini, zucche e zucchine, insalata e quello che è più adatto alla stagione.
In fondo al campo, ha mantenuto un roccolo, che è una specie di baracca di legno che usavano i cacciatori per sparare agli uccelletti, in cui: “Ci abbiamo fatto la festa de laurea, con ‘na porchetta che ci ha dato uno qui vicino, ‘na grigliatina de robe varie, tutte le lucette colorate appese agli alberi, la birra alla spina e un mio amico che di notte giocolava coi birilli infuocati, ché la nonna s’era esaltata e non vuleva più andà a durmì. La nonna che c’ha messo i soldi per comprà il trattore, anche se non c’è mai salita. Amo tirato fino a mattina e poi me sò messo a dormì in macchina perché nun capivo più un cazzo”.
Fa strano che debba portare i miei figli a vedere com’è fatto un campo di cocomeri, o dove sono attaccati i fiori di zucca che poi sono di zucchina, o le piante di pomodori, che bisogna sostenere una a una con le cordicelle. Poverini, non è colpa loro, come si può immaginare qual è lo stato naturale di verdure che, al supermercato, sembrano nate già dentro le vaschette di polistirolo? Come è possibile spiegare loro quanta fatica costi raccoglierle sotto il sole d’agosto, dalla mattina alle cinque fino alla sera alle nove? Perché è questa la vita che fanno Massimiliano, la zia, lo zio e sua madre. Dice che per ora riesce a dare uno stipendio di mille euro solo allo zio, alla zia paga il tempo che l’aiuta a vendere ai mercati e alla madre poco o niente. Lui non ha stipendio: quando ha pagato il mutuo del campo, le spese varie, la benzina e compagnia bella, se resta qualcosa bene, sennò va bene lo stesso. 
“Io sono contento così. Certe volte te girano li cojoni, sei incazzato perché vedi tutta ‘sta gente che ruba, che prende stipendi de quattro o cinquemila euro senza fà 'n cazzo, poi, guardo la campagna, le colline, gli alberi, me faccio la mia cromoterepia personale e me passa”.
Gli ho domandato se avesse mai pensato ai gruppi d’acquisto solidali. Mi pare che tanti contadini siano riusciti a costruirsi una vita dignitosa senza ammazzarsi di lavoro o passare attraverso le mani di intermediari senza scrupoli. Ma forse è una realtà che è difficile da immaginare al di fuori di una grande città, e infatti non è sembrato molto interessato all’idea. O forse perché le sue energie e le sue speranze sono riposte nel sogno di riqualificare, in collaborazione con le istituzioni e gli operatori turistici della zona, le sponde del Musone e realizzare una pista ciclabile che arrivi fino al mare, così: “Quelli che se fanno ‘na vacanza al mare, ogni tanto inforcano la bici, se fanno un giretto fino a qui, possono comprà la verdura, fare ‘na grigliata in riva al fiume e diavuleri vari e, se c’hanno voglia, se possono fermà a dormire in un paio de bungalow”. E poi scoppia a ridere che lo sentiranno pure ad Ancona, ti abbraccia, ti bacia e ti dice: “Siete meeraviglioosi! De famije come la vostra nun se ne vedono, ve vojo bene, ve giuro, siete veramente fantastici! Ve voglio offrì qualcosa dài, ve taglio n’anguria bella fresca, ce facciamo ‘na merendina, ce rinfreschiamo un po’!”.
Sarebbe come rifiutare un caffè in casa d’altri. L’anguria è davvero fresca, è dolce, dissetante, è qualcosa offerto col cuore e perciò ancora più buono.

domenica 22 agosto 2010

Sensi di colpa

Comincio a essere stufo e scoglionato. Il mare, per quanto bello possa essere, non mi interessa più. Non m’importa di nuotare e ancora meno di perdere tempo sotto l’ombrellone senza far niente. Non sopporto il caldo, non ce la faccio a stendermi al sole come un rettile, mi manca il respiro e provo un senso di claustrofobia.
Più che snebbiarmi il cervello, questa vacanza mi deprime. Qualunque cosa faccio, guardare il mare, contare le auto che passano per la litoranea, spiare il culo delle ragazze, fare il bagno, leggere un libro, ascoltare i discorsi dei vicini d’ombrellone, mangiare, andare in bagno, non riesco a non pensare: “E adesso che torniamo a Milano, che cazzo farò? Come risolverò la situazione?”.
Quando dormo invece, il passato continua ad assalirmi attraverso i sogni. Un passato a volte mai vissuto, di scuola, di quartiere, di persone conosciute e sconosciute. Che sia un modo per rifugiarmi in qualcosa di noto, di conosciuto, rispetto a un futuro incerto e imprevedibile?
Eppure è un passato diverso da quello che ho vissuto, meno rassicurante, a volte più squallido, altre affascinante, fatto di sentimenti forti, belli, coinvolgenti. Una specie di passato alternativo che si srotola da un mondo parallelo, familiare e, al tempo stesso, alieno.
Tutto questo non mi piace. Troppe sono state le esperienze che continuano a ributtarmi indietro negli anni, come i cavalloni di un mare agitato. Ma io voglio andare avanti, sento di avere ancora creatività da esprimere, so che posso dare molto in termini di esperienza e voglio riversare tutto quello che il mio cervello è ancora in grado di pensare e le mie mani di fare, in qualcosa di tangibile, voglio avere la possibilità di vivere con quello che sento dentro e che per tanti anni mi ha consentito di essere apprezzato per ciò che sapevo creare e inventare.
Ora invece mi sento mediocre, come chi non è più in grado di raggiungere i livelli precedenti. Come un pilota che si ostina a correre anche quando non lo vuole più nessuno. Dilaniato dal senso di colpa per essere qui a guardare dalla finestra un mare bellissimo e indifferente, invece di rodermi seduto in un angolo del mio studio in cui non squilla più il telefono e non arrivano più mail.

venerdì 20 agosto 2010

Milano Milano

"Di dove siete?"
"Milano"
"Ah, Milano Milano?"
"Beh, sì, magari non centro centro, anzi, più periferia periferia, ma pur sempre Milano Milano".

mercoledì 18 agosto 2010

La catalessi del diciottesimo giorno

Sto sprofondando in una sorta di catalessi. Anche la gita di ieri a San Severino Marche per la mostra Le meraviglie del barocco nelle Marche, non mi ha entusiasmato come quelle dell’anno scorso.
I quadri erano belli come lo sono quasi tutte le opere di quel periodo, specialmente in questa regione, l’allestimento era ben fatto, il catalogo forse un po’ meno, ma ciò che mi mancava era l’entusiasmo per un riposo meritato, una pausa sacrosanta. Mi sembra di rubare tempo e soldi per occupazioni futili e inutili. Non riesco a togliermi dalla testa che ormai manca poco a un rientro senza prospettive, al ritorno a una realtà fumosa e sfuocata, al prosciugamento di risorse striminzite, senza la prospettiva di un giusto raccolto, senza nessuna vendemmia autunnale, senza una certezza di sostentamento futuro.
Era facile dire che mi sarei snebbiato la mente, che nuovi orizzonti avrebbero aperto nuove prospettive, ma fino a oggi, nulla è cambiato.
Sono sul balcone che guardo ora la striscia di mare che cambia colore a ogni passaggio di nuvole, ora la guardia di finanza e i carabinieri che si fermano immancabilmente ogni pomeriggio per prendere il caffè al bar qui di fronte: tracotanti, con le mani in tasca e le divise sudate, che si grattano il culo e fumano, passeggiando avanti e indietro come fossero i padroni del mondo e mi scopro a odiarli, a odiare la rappresentazione del potere cialtrone che la pistola sballonzolante gli permette.
Anzi, mi scopro a odiare chiunque si diverte spensierato, sapendo che il domani non sarà meno nero dell’oggi, che l’unico pensiero che li assillerà al ritorno sarà la nostalgia per le vacanze, o la scocciatura di tornare al lavoro.
Odio quei cazzoni che giocano a beach volley, urlatori sguaiati che mostrano i muscoli alle ragazze che li osservano, odio me stesso per la mia incapacità di trovare una via d’uscita dignitosa a questa situazione. Odio la gente che si mette in tasca i soldi per l’ombrellone, o l’affitto per le vacanze, o anche un semplice caffè, senza rilasciare nemmeno l’ombra di una ricevuta o uno scontrino.
Lo so, mi sto comportando come ‘o piagnù, da cui ieri siamo andati a mangiare, ma almeno lui, la ricevuta ce l’ha fatta.

PS: ciao gianbarly, benvenuto.

lunedì 16 agosto 2010

Serpenti

Ho sognato dei serpenti. Di innumerovoli colori e dimensioni. Ma, tanto per distinguermi, non ne ero inseguito, né impaurito e tanto meno provavo una sensazione di repulsione.
Più semplicemente, li catturavo, li scuoiavo e li mettevo da parte. Solo uno, che tenevo in mano per non so quale motivo, a un certo punto mi ha morso un dito. Mi ha fatto male, ma non più di tanto e non me ne sono preoccupato molto.
Ho pensato per buona parte della giornata a quale significato possa avere un sogno del genere. Non tanto nella cabala, che considero alla stregua della lettura delle ossa di pollo buttate a caso da uno stregone amazzonico, ma più che altro nell’interpretazione dei sogni freudiana e roba simile.
Scartati i soliti stereotipi basati su simboli sessuali e fallici che lasciano il tempo che trovano, la versione che più mi va a genio è quella di Jung, che vedrebbe un conflitto fra coscienza e istinti e la contemporanea presenza di grande energia vitale, legata anche a situazioni di disagio e insicurezza.
In effetti un’interpretazione del genere ci potrebbe anche stare, l’unico particolare stonato è che la psicanalisi non mi ha mai entusiasmato molto. Qualche amico fidato con cui confidarsi, la sostituisce egregiamente e in più non costa nulla.
Tanto vale crogiolarsi nella smorfia, che interpreta l’uccisione di un serpente con la vittoria sul nemico. Semplice, confortevole, di grande soddisfazione.

sabato 14 agosto 2010

Giornate uggiose

Piove. Una pioggerella insistente che a tratti si arresta per poi riprendere dopo qualche folata di vento non troppo convinta. L’aria fresca come un autunno precoce, mi ha ricordato quanto siano tristi certi autunni milanesi. Cieli grigi che si susseguono per giorni e giorni a cui quasi non si fa più caso, presi dal lavoro che ti avvolge in un turbine incessante e prepotente.
Questo una volta, o meglio, non tanto tempo fa, solo l’anno scorso. 
Quest’anno è tutto diverso. Cosa farò durante quelle che Battisti definiva giustamente "giornate uggiose"? Come farò a ignorare la tristezza dei cieli grigi e delle strade sporche senza un lavoro che distolga gli occhi?
Pensavo che un po’ di vacanza, aiutasse a svagare la mente dai pensieri grigi, ma basta questa pioggerella a riportarmi lontano da qui, in un posto in cui non ho più collocazione, a una situazione sospesa che mi consuma l’anima.

venerdì 13 agosto 2010

Footing

Questa mattina mi sono svegliato prima del solito. Sarà colpa del naso chiuso o della raccomandata che aspetto e che non arriva mai.
Mi sistemo sul balcone a leggere Annus Horribilis di Giorgio Bocca. 
Chissà perché leggere ciò che penso da anni, ma non riesco a esprimere come vorrei, mi frustra un po’ ma, al contempo, non mi fa più arrabbiare.
Troppa abitudine, la realtà che supera sempre anche le fantasie più sfrenate e che sembra non toccare la coscienza di nessuno.
Così alzo lo sguardo e comincio a osservare i forzati della corsa mattutina. Poveri disgraziati sfiniti e claudicanti che sciabattano mezzi di traverso come granchi ubriachi. Magliette madide di sudore, culi che saltellano in controtempo, tette stufe di rimbalzare che sussultano tristemente a ogni passo. Signori attempati, padri di famiglia, nonni in pensione, che sembrano avere ancora appiccicati addosso giacca e cravatta, piegati come a scalare inesistenti salite, privi di qualunque eleganza nella corsa, con lo sguardo esterrefatto di chi ha superato la soglia della sofferenza fisica.
Orologini elettronici al polso di signore attempate e inesorabilmente sovrappeso, che misurano tempi immaginari e inutili, o forse, solo le pulsazioni impazzite di un cuore che non ha nessuna voglia di continuare a essere strapazzato inutilmente.
Bolsi uomini di mezza età con la marca delle chiavi inglesi o la pubblicità del panettiere bergamasco, o del dopolavoro, stampate sulle magliette.
Ragazze con le tutine di dimensione danza che faticano a contenere coscioni possenti come quelli dei sollevatori di pesi che ogni quattro anni, si vedono alle olimpiadi, e l’occhio che continua a saettare nervoso al contapassi, per sapere quanto manca alla fine ineluttabile di qualunque organismo biologico.
Un florilegio che si presenta implacabile tutte le mattine, da che albeggia, fino a mattino inoltrato. Sotto il sole cocente, oppure dentro una tempesta di pioggia. Per loro non fa differenza, quello che conta è mantenere la media, non perdere il passo sciabattante, con la testa che ciondola priva di volontà propria, il sudore che cola copioso e, ne sono sicuro, che si mescola alle lacrime di sofferenza e rabbia verso un corpo che si rifiuta ostinatamente di assomigliare a quello delle pubblicità della televisione.

giovedì 12 agosto 2010

Dorico

Lui si chiama Dorico, abita nell’appartamento a fianco, è mezzo sordo e un po’ rincoglionito. Ha più di ottant’anni e cammina col bastone, ma rimane pur sempre il patriarca dei villeggianti di vecchia data.
L’anno scorso, nel giro di qualche settimana, ci ha raccontato gran parte della sua vita e credo che, quest’anno, dovremo ascoltarne il rimanente.
Come molte delle persone anziane, fatica a mettere insieme le idee su tutto ciò che è passato prossimo, ma ricorda perfettamente tutti i fatti che risalgono a cinquant’anni fa e anche più.
Il primo incontro con Dorico, risale a circa quattro o cinque anni fa, quando ancora scendeva in spiaggia e si piazzava su una sedia sotto il suo ombrellone in prima fila, il fatidico numero uno. E lì cominciava l’eterno gioco di battutine, allusioni e ricordi con i compagni di spiaggia più o meno suoi coetanei.
Parlavano così stretto e impastato che non capivo quasi niente; solo le bestemmie accennate e lasciate morire a mezza bocca, quelle sì che le capivo al volo. Poi, a forza di incontrarci sulla scala che porta agli appartamenti, ha cominciato a lasciarsi andare.
Ha subito messo le cose bene in chiaro: “Ah, io qui sto in una botte de fero, c’ho l’armadio con cinque fucili e prima che m’entrano in casa, l’ho già fatti secchi!”.
“Andiamo bene!” ho pensato fra me, “Ci mancava anche il vecchio pazzo che ha paura dei vicini”.
Poi ha preso confidenza, e ha cominciato a chiamarci dal ballatoio per farsi una chiacchierata prima del riposino pomeridiano che, di solito, dura dalle tre alle sei sette del pomeriggio.
Per tutto il tempo che sta nella casa al mare, si fa portare il pranzo dal ristorante che sta proprio qui di fronte: “Uno spuntino” dice la moglie, anche se il vassoio è pieno come una piramide di carta stagnola. “Poi, la sera, non è che magnamo molto, Dorico se fa ‘na scodella de caffelatte co’ mezzo ciambellò (che sarebbe la classica ciambella della nonna), io non è che magno un gran chè, perché poi nun dormo...”.
L’anno scorso però, ci ha offerto qualche etto di prosciutto: “Questo me lo porta uno che li fa lui personalmente, perché a me, troppo salato, nun me piace”.
Ci ha raccontato che lui ha sempre lavorato come un mulo, anche in Argentina, dove era emigrato che era ancora un ragazzetto e, saltando di palo in frasca, che quando c’era uno che gli doveva dei soldi e faceva il furbo, è andato a trovarlo al negozio, ha tirato giù la saracinesca e gliene ha date fino a che quello non l’ha implorato di smettere. “Oh, il giorno dopo è venuto a portarmi li soldi a casa!”.
Sarà per questo che nutre una grande passione per il pugilato, tanto che, quando ha saputo che Duilio Loi ha venduto i suoi guantoni: “Io glie l’avrebbe comprati”. E i soldi per farlo non gli mancano davvero. Nel corso degli anni ha fatto fortuna come costruttore edile e va fiero di aver dato una casa a tutti i suoi quattro o cinque - non ricordo - fratelli e sorelle.
“E poi, a natale, tiravo su anche cento capponi, li teneuo nel mio bosco, in un gabbione, e gli dauo da magnare roba buona. Poi li regalavo tutti: alli amici, ai clienti, anche a un auocatto de Roma che poi mi mandava li amici sua a chiedere se n’avanzavo uno. Erano boni, altro che”.
L’anno scorso aveva promesso a C. che l’avrebbe portato a vedere la boxe, perché: “C’hai la faccia pulita e se vede che sei un brauo ragasso”.
Mi hanno spiegato che qui nelle Marche, c’è una tipologia di persone che chiamano “piagnù”, ovvero piagnoni. A San Severino Marche c’è una trattoria conosciuta come “da ‘o piagnù”, perché pare che il gestore sia piuttosto incline alla lacrima. Intendiamoci, non significa che il piagnù sia una persona debole, effemminata o roba simile, di solito si tratta di gente dura, lavoratrice, ma che ha questa piccola debolezza.
Come Dorico, che è senz’altro uno che non le manda a dire, ma che quando parla della madre, o ci deve salutare perché le vacanze sono finite, si commuove come un bambino.

mercoledì 11 agosto 2010

Come il Titanic

A volte mi sento spaesato. Vedo tutta questa gente intorno a me e mi domando che cosa facciano, quanto guadagnino, se il lavoro va bene o se hanno problemi come me e, soprattutto, come facciano a passare tutto questo tempo in vacanza.
Molti sfruttano gli appartamenti che i genitori hanno acquistato vent’anni fa e che oggi si godono figli e nipoti. 
In fondo al mio cuore un po’ li disprezzo. 
Noi abbiamo sempre pagato di tasca nostra ogni singolo giorno di vacanza: niente cascine ereditate dai vecchi nonni e rivendute, nessun appartamento al mare o in montagna acquistato dai genitori, niente vacanze in comune con i nonni che accudiscono i nipoti, preparano il pranzo, fanno la spesa e lavano la biancheria. Sempre e solo noi e le nostre forze, tutto pagato fino all’ultimo centesimo.
Troppo comodo sfoggiare un costume da bagno ogni giorno diverso, la tintarella che si vede che ci sono voluti almeno due mesi per averla così uniforme, gli asciugamani firmati, le catene d’oro al collo, i bambini sempre in ordine e pulitini. Così non vale, così è troppo facile. E poi vi permettete pure di snobbarmi perché avete l’ombrellone in prima fila, ormai vostro per diritto ereditario, ma pagato da nonni o genitori.
Così mi fate sentire un incosciente che spende gli ultimi soldi del misero patrimonio per divertirmi mentre la nave affonda.
Proprio così, mi sento come l’orchestra del Titanic, che continuava a suonare allegramente mentre la nave andava inesorabilmente incontro al suo destino.

martedì 10 agosto 2010

L'epifania

L’epifania è arrivata col sogno di questa notte. Uno di quelli che nascono confusi come solo certi sogni possono essere. Rimescolati come le strade che l’inconscio cerca per comunicare qualcosa d’importante. Proprio come le soluzioni ai tanti problemi lavorativi che si sono presentate, semplici e lineari, appena prima di addormentarmi, o nel dormiveglia che precede il risveglio.
Un sogno fatto di giornate di pioggia passate all’aperto, camminando su larghi marciapiedi inondati d’acqua, ambienti familiari eppure mai visti, puzzle di muri, strade e case archiviati nella memoria, persone conosciute chissà quando, teste montate su corpi diversi che si disperano per gli stessi problemi che oggi mi affliggono, altre che forse rappresentano chi non ho mai incontrato e che avrei voluto frequentare, e poi una scuola che sembra una fabbrica, un insieme di pezzi di vite vissute trent’anni fa, fuse insieme a caserme, licei di periferia, muri di cemento grigio.
Mi ci trovo dentro senza un motivo apparente, col cellulare che si smonta e che non riesco a rimettere insieme, vagando senza un senso e una ragione lungo corridoi sfuocati e pareti disadorne. Ci sono persone che vanno e vengono, alcune mi conoscono e mi sembrano familiari, altre no. Non capisco perché mi trovo lì, ma nessuno pare curarsene e non faccio che ripetermi che non ho tempo da perdere, che devo tornare a casa, ma non so per quale motivo.
E invece rimango, sono ipnotizzato da un’atmosfera senza tempo e nutro la convinzione che la mia presenza abbia una ragione ben precisa che mi sfugge come una lucertola impaurita.
Non so come, forse perché accetto una proposta fatta da chissà chi in un corridoio deserto, mi ritrovo a fare da supplente come professore di scienze a una classe di adolescenti ostili.
Come? Proprio io che rifuggo le nuove amicizie, i contatti umani troppo ravvicinati, il parlare in pubblico, come posso aver accettato una cosa del genere? Sono terribilmente impaurito, ma anche eccitato, incuriosito, stranamente attratto dal rapporto con questi ragazzi.
Entro e mi presento: “Buongiorno mi chiamo D. e per qualche tempo sarò il vostro professore di... - quasi mi sfugge la parola, ma poi arriva all’improvviso - di scienze”. 
Pensavo peggio, anche se la classe al momento è formata solo da cinque o sei ragazzi. Chiedo come mai siano così pochi e scatta un interruttore: click, il dialogo si apre, i ragazzi ascoltano e intervengono, si parla di tutto e un’ora passa in fretta, troppo in fretta.
Mi rendo conto che non potrò mai essere un professore di scienze, non conosco la materia, non l’ho mai studiata e non mi sono mai nemmeno laureato, e poi le graduatorie? I documenti? Verrà senz’altro fuori e succederà un disastro. Questa cosa non può funzionare, nemmeno in un sogno. 
È qualcosa che mi intristisce e a cui vorrei trovare una soluzione. Vado dal responsabile scolastico che, per l’occasione, si trasforma in un maresciallo dei carabinieri di paese, e la presidenza in una caserma vuota, con una scrivania e un piantone che funge da bidello. Spiego che voglio con tutte le mie forze stare con i ragazzi, dialogare con loro, parlando a ruota libera, perché sento che ne hanno bisogno, e ne ho bisogno anch’io.
Aver capito quanto sia importante questo rapporto simbiotico proprio mentre ne sto parlando, mi riempie di una gioia così dolce che non riesco a trattenere le lacrime. 
Come quando sono nati i miei figli. È un sentimento così forte che non riesco a descriverlo: è gioia, è amore, esaltazione, tenerezza e anche qualcosa che assomiglia alla paura. Un insieme di emozioni che manda in tilt il mio cervello, che non riesce più a decidere se ridere, piangere o fare entrambe le cose.
È allora che il preside-maresciallo mi abbraccia come si abbraccia un figlio e mi sistema il colletto della camicia, poi mi abbraccia ancora e mi guarda tenendomi le mani sulle spalle e distendendo le braccia, come quando si ammira un disegno venuto bene. Dice che sì, ha capito cosa intendo dire e che sarò una figura che potrà occuparsi dei ragazzi ogni volta che ce ne sarà la necessità.
Ed ecco l’epifania. È questo che devo fare: stare con i giovani, inventare qualcosa che mi permetta di guadagnare e, al contempo, trasmettere qualcosa di utile a chi lo desidera. Questa è la vera creatività, questo significa produrre qualcosa degno di durare nel tempo. Già, ma come?

PS: Ciao Zaccheo, benvenuto!

lunedì 9 agosto 2010

Carlo dei cani

E così Carlo dei cani è morto. L’hanno trovato una mattina, seduto sulla panchina dei giardinetti dietro casa. Magari è rimasto lì tutta la notte e nessuno se n’è accorto.
Carlo dei cani era un pezzo del quartiere, uno che c’è sempre stato, che ricordo da che ho memoria. Uno che non ha mai fatto un cazzo in vita sua, se non bighellonare per le strade insieme ai suoi cani, non sempre gli stessi, ma almeno due, rigorosamente meticci e brutti quanto lui.
Tutte le generazioni dei ragazzi che si sono succedute l’hanno conosciuto. O meglio, era lui che attaccava bottone, specialmente con le ragazzine.
Ogni scusa era buona, i cani, la politica, gli interessi di chi ha dai tredici, quattordici anni in su.
Sempre con un barbone nero alla Marx, capelli lunghi e incolti trattenuti da una fascetta sulla fronte, camicia sbottonata e pantaloni al ginocchio tagliati con la forbice.
Non si sa come facesse per vivere e, almeno io, nemmeno dove abitasse. Si diceva che prendesse una pensione di invalidità, o che vivesse a scrocco della vecchia madre o, successivamente, che lo mantenessero le sorelle, che però non ho mai visto. Chissà se anche loro hanno la barba...
Il mercoledì, giorno di mercato, verso le due se ne andava a raccogliere gli avanzi con un carrellino carico di cassette di legno e gli immancabili cani che gli trotterellavano dietro. Nei giorni di afa estiva girava a torso nudo, con l’enorme pancia esposta come un trofeo di non si sa cosa, ma sempre con barba e capelli lunghi che, per un po’, lo fecero assomigliare al De Niro di The Mission, anche per quel suo trascinare in infiniti viaggi le cassette degli avanzi del mercato.
Le ragazze gli giravano al largo, ma non ho mai sentito di molestie da parte sua. Era semplicemente appiccicoso in modo esasperante, e abbindolava le poche che non riuscivano a sfuggirgli, in discorsi sui massimi sistemi, oppure sulla salute, l’alimentazione e l’educazione dei cani.
Qualcuno, non sapendosi spiegare come facesse a mantenersi, diceva che fosse un informatore di polizia e carabinieri e, forse, qualcosa di vero dev’esserci anche stato. Ma nessuno ne ha mai avuto la certezza.
Mia figlia, non so perché, lo odiava e non ne sopportava nemmeno la vista; io l’ho sempre considerato come un pezzo d’arredamento che a nessuno piace, ma che non si ha il coraggio di buttare via.
Aveva, dicono, sessantadue anni, e questo credo sia l’unico necrologio che qualcuno gli abbia dedicato.

venerdì 6 agosto 2010

Piove, embè?

Nemmeno una settimana di vacanze e già due giorni di pioggia e una pizza sbagliata. Avevo ordinato una Parmigiana (mozzarella, pomodoro, melanzane alla griglia e parmigiano), e mi ritrovo con una non ben identificata pizza ai quattro formaggi e funghi porcini (forse una Colesterolina?). Non si può dire che sia la stessa cosa, ma piuttosto di aspettare un’altra mezzora, la fagocito come un polpo si ingoia la prima cosa che gli capita a tiro.
È la prima volta che Luciano mi gioca un tiro di questo genere in tutti questi anni. Di solito è sempre preciso e veloce. Forse è colpa della moglie; da quando è sconvolta per l’ictus che ha colpito il fratello in così giovane età (settantaquattro anni?!), l’ha lasciato da solo a impastare le pizze. 
O forse è colpa di quelle cavolo di macchinette elettroniche con cui raccolgono le ordinazioni: bip, bep, e ti arriva un’impepata di cozze invece della caprese.
Giusto il tempo di pagare il conto e scoppia il temporale, e qui quando piove, piove sul serio: salvagenti che volano come foglie secche, gente che fugge con gli asciugamani in testa come tanti beduini variopinti, le auto che fanno a gara a inondare i passanti.
“Sarà un agosto freddddissimo!”, dicevano le mamme delle compagne di E., che sembrano sempre avere un canale privilegiato o chissà quali dritte dai bookmakers delle previsioni del tempo.
Chissenefrega, in tv c’è la serie originale rimasterizzata di Star Trek, C. mi rompe i timpani con la chitarra elettrica (eh sì, abbiamo dovuto portarla), E. non la smette mai di parlare, dicendo che le manca la lucertolina che abbiamo ospitato per un paio di giorni e L. si ostina a fare le parole crociate chiedendo le definizioni ogni mezzo secondo.

giovedì 5 agosto 2010

In effetti...

Penso che anche se non ce lo saremmo potuti permettere, abbiamo fatto bene a partire per queste vacanze.
Restare a Milano, significava continuare a rimuginare sempre sulle stesse cose, col risultato che non sarebbe cambiato niente e io sarei diventato ancora più bilioso e triste.
Non che qui le cose possano cambiare, ma le probabilità sono sempre maggiori che in una città deserta e afosa. Incontrare persone nuove - anche se non sono mai stato uno che fa comunella molto facilmente - potrebbe offrire senz’altro qualche occasione in più. Il destino a volte è strano, bizzarro, e poi come si dice: chi non osa non potrà mai sperare in niente di buono. Questa è una regione viva, attiva, che potrebbe offrire ciò che a Milano è ormai introvabile.
E se non accadrà nulla, poco male, snebbiare la mente, vedere le cose in una prospettiva diversa, trarre ispirazioni da panorami nuovi, non può che ricaricare un cervello stanco e che, come un cane chiuso da troppo tempo in appartamento, non fa che rincorrere la propria coda.

mercoledì 4 agosto 2010

Parlando d'altro...

È innegabile che essere a dieta in una regione come le Marche equivalga a un ossimoro o, più precisamente, a un supplizio. Certo, le verdure sono più gustose e fresche, la frutta più dolce e saporita, ma ogni visita al minimarket con gastronomia annessa, si trasforma in un’immersione nel giardino dei supplizi culinari, un nirvana della gola.
Vedere le verdure grigliate, i cremini (cubetti di crema pasticcera) impanati e fritti, le olive ascolane, le lasagne - che qui chiamano vincisgrassi dal nome di un ufficiale austriaco, Windisch Graetz - la porchetta e i supplì di patate e prosciutto, gli arrosticini e altri ben di dio, mi procura sofferenza solo a nominarli.
Non importa se volto lo sguardo e fingo di non vedere il bancone gastronomia, perché, anche fra gli scaffali, si ripropongono i maccheroncini di Campofilone che, a dispetto del nome, sono sottilissimi spaghettini all’uovo, ruvidi come solo una trafila al bronzo artigianale sa produrre, piadine con uova e strutto, come la crescia sfogliata di Urbino, che è a un tiro di schioppo e ha un palazzo ducale che pare uscito da una fiaba, mozzarelle che al solo sguardo trasudano latte come un bambino che arrossisce, pappardelle artigianali all’uovo da far morire nel ragù di papera, tanto simpatica quanto buona, Ciauscoli grossi come zamponi, che poi sono salami a pasta fresca con aglio e spezie da spalmare su fette di pane leggermente tostate alla brace, o i salami di Fabriano - che non produce solo la carta - a grana finissima e spezie, che non c’è nemmeno bisogno di masticare ché si sciolgono in bocca. E un mucchio di altre cose che, in questo bengodi del palato, ho dimenticato, come, per esempio, le caciotte di pecora che produce una famiglia sarda trasferitasi in queste dolci colline da generazioni. C’è quella leggermente rosata, prodotta col latte delle pecore che hanno brucato i fiori di campo a primavera, dolce e profumata, quella stagionata da mangiare col miele o la marmellata, quella fresca che, insieme a un piatto di pomodori e cipolle, ti spedisce direttamente in paradiso. 
Un’esperienza che deve assolutamente provare chi, come me, ama i formaggi, è un pranzo nella loro fattoria, tutto a base di formaggi e salumi. Dai ravioli ricotta e spinaci - buoni quanto quelli di borragine liguri - al culatello e i salami, per finire con caciotte e miele, e il dolce a base di ricotta e panna fresche con frutti di gelso quando è stagione, oppure con frutti di bosco.
E, anche se non sono un amante del pesce e i frutti di mare, non posso fare a meno di ricordare i moscioli (cozze) del Conero, le uniche che la legge permette di consumare senza lavaggi e sterilizzazioni, o il “brodetto” di pesce di Porto Recanati.
Insomma è davvero duro resistere e accontentarsi, per quanto sia gustosa, della ormai inflazionata “insalatona”, così di moda fra gli inappuntabili borghesucci di Milano.
Il trucco che ho escogitato nel corso degli anni per concedermi, ogni tanto, una di queste opere d’arte culinarie, è piuttosto semplice e, credo, alla portata di chiunque: fare delle lunghe nuotate di almeno un paio d’ore, mattino e pomeriggio. Non serviranno a dimagrire, ma quasi certamente permettono di tornare a casa con l’identico peso di quando si è partiti. Una cosa non da poco se paragonata alla gioia di un piatto di maccheroncini di Campofilone al ragù di papera. Qualcosa che, per ora, non mi sono potuto permettere, visto che con questo schifoso raffreddore fantozziano, non ho fatto ancora un bagno.

martedì 3 agosto 2010

Raffreddore e esperimenti

Più che una maledizione di Montezuma, mi sembra la classica nuvola di Fantozzi. Si vede che non era cosa, che i disoccupati non devono andare in vacanza. Ho un raffreddore micidiale che non mi fa dormire da due giorni. Ma in verità non c’entrano né Montezuma, né Fantozzi, ma la mia maledetta manina che rivedo continuamente come in una moviola mentre abbassa a diciannove gradi il climatizzatore dell’automobile.
Due giorni me li sono già fregati, per non parlare dei soldi partiti in medicine: Fluifort, Acqua di Sirmione e Aspirina.
Per ora mi ritrovo qui, in questo confortevole appartamento, con il computer per scrivere queste quattro fesserie, i libri, la tv.
Mi fa venire in mente quando, da piccolo, nei momenti di solitudine, tentavo esperimenti particolari, come ad esempio, accorgermi del momento esatto in cui mi sarei addormentato, essere consapevole insomma, del preciso istante del passaggio tra veglia e sonno, da cosciente a incosciente, tra esistere e non esistere, essere o non essere.
Naturalmente non ci sono mai riuscito, malgrado ci mettessi il massimo dell’impegno, non ho mai vissuto l’esatto momento scopo dell’esperimento.
Altre esperienze che spesso tentavo sconfinavano quasi in stati alterati di coscienza. A volte era come se riuscissi a scindere il sé, un andare molto oltre il classico “cogito ergo sum”. Con una parte di me stesso riuscivo a intravedere il mio io più profondo, provando a volte sgomento nello stabilire quali fossero le radici stesse della mia esistenza, dell’esistenza del mondo stesso, degli altri e, soprattutto di quella parte di me che riusciva quasi a osservare dall’esterno del corpo la mia coscienza. Ero io ma al tempo stesso non ero più io. Potevo realizzare l’angoscia, l’irrazionalità, la verità sull’esistenza mia e di tutto quanto il resto. E in tutto questo non ci ho mai trovato neppura la più lontana presenza di un dio qualunque o di una qualche forma di spiritualità. Credo che il mio essere ateo sia nato proprio da questo genere di esperienze.
Poi, come quasi tutti i bambini, provai con esperimenti di telecinesi e influenza del pensiero. Purtroppo, anche se durante alcune sedute mi venivano mal di testa e gli occhi strabici, non sono mai riuscito a far muovere alcun oggetto di un millimetro e, tantomeno, a piegare una chiave o una forchetta come avevo visto fare a quell’imbroglione di Uri Geller in televisione. Quanto a influenzare la mente, il mio cane se ne infischiava altamente di ubbidire agli ordini che gli trasmettevo con la forza del pensiero e mi guardava inclinando la testa e muovendo le orecchie, indeciso e incerto sul perché lo guardassi fisso senza proferire parola.
Ero affascinato da tutto questo armamentario di poteri misteriosi e da tutti quei ciarlatani che affermavano di possederli. Leggevo libri, interpretavo la bibbia sotto il profilo ufologico, studiavo le antiche civilta maya o egizie alla ricerca di prove inconfutabili che questi popoli possedessero conoscenze ultraterrene. Col tempo però mi resi conto che mai nessuno era riuscito a dimostrare scientificamente anche il più misero di questi poteri e, a malincuore, dovetti convincermi che tutta questa faccenda dei poteri della mente, degli ufo, delle antiche civiltà fondate dagli alieni, degli spiriti, della vita ultraterrena e compagnia bella, non fosse altro che un mucchio di stronzate per creduloni.
Ecco perché non posso credere alla sfiga, o alla sfortuna, o al malocchio e altre amenità del genere quando, come in questo periodo, tutto sembra andare storto.

lunedì 2 agosto 2010

Boh

Siamo partiti da Milano con la sensazione di evadere da una prigione a cielo aperto, come in 1997 fuga da New York o, volendo essere più raffinati, La fuga di Logan.
Una città che, col tempo, si è trasformata in una macchina micidiale che distrugge tutti quelli che non riescono a soddisfare gli standard che richiede vivere in questo luogo. Una giostra folle che sbalza fuori chiunque non sappia dedicarle tutte le proprie energie. Una macchina da soldi, cemento a perdita d’occhio sotto un cielo bianco e indifferente.
Ma poco per volta, mano a mano che ci si allontana dal mostro, cambiano anche il paesaggio e il colore del cielo. I chilometri da fare sono davvero tanti prima di ricordare l’aspetto della natura ormai addomesticata con la quale abbiamo perso ogni contatto. Riscopro l’azzurro del cielo e le infinite tonalità che può avere il verde. E la sola vista di uno spicchio di mare fa scordare ogni mirabolante invenzione della tecnica tesa a imitare ciò che non potrà mai.
Cercherò di non pensare a quanto costerà in termini economici questa vacanza, non mi farò sopraffare dal senso di colpa, né dal confonto con chi si diverte spensierato perché sa che troverà un futuro al suo ritorno. Penserò ai miei figli, a farli divertire, ai benefici che questo mese di mare porterà in termini di salute e di decompressione psicologica. Non posso fare altro.