lunedì 31 maggio 2010

Ottimizzare il tempo

Dopo natale e pasqua ecco un altro ponte che trascorreremo a Milano. Non è che mi dispiaccia poi così tanto. Più che altro sono le allergie dei bambini a non trarne grande giovamento, ma quest'anno va così.
Comincio a trovare noioso stare davanti al computer senza produrre nulla di redditizio. Mi hanno stancato particolarmente i social network, così superficiali e vacui. Non credo siano un modo per allacciare nuove relazioni, anzi, penso che ci allontanino ancora di più dalla vita reale.
In fondo la nostra generazione funge un po' da cavia per questo nuovo modo di declinare la vita in forma di byte e, come ogni esperimento che si rispetti, miete qualche vittima e non è esente da effetti collaterali anche seri. Chi riesce a trascorrere più di due giorni senza cellulare, senza controllare l'e-mail, il sito personale, il blog, facebook e compagnia? Quanto tempo sottraiamo all'affetto reale e tangibile dei nostri amici, figli, mogli per dedicarci a relazioni astratte e fumose che vivono esclusivamente dietro lo schermo del computer?
Dopo la perdita del lavoro, trascorrevo spesso intere giornate davanti al monitor senza combinare niente di costruttivo; saltando da un sito all'altro, da un blog alle notizie, dal porno al social network, dai video di youtube fino all'abbruttimento più totale della realtà più macabra e improbabile.
Ora mi dò delle regole: controllo la posta e aggiorno il blog appena acceso il computer, un giro veloce sulle notizie e, ogni paio di giorni, un'occhiata a facebook e linkedin (ma spesso trascorre molto più tempo) e poi produzione. Che sia al computer o con tele, pennelli, cartapesta e colla, la mia giornata deve essere finalizzata alla realizzazione di qualcosa.
In questi giorni mi sto dividendo tra la partecipazione a qualunque concorso fotografico e la creazione artistica prettamente manuale.
Ho scoperto infatti che esiste un'offerta di concorsi fotografici pressoché infinita. No, non lo faccio per la gloria, né per rendere grazie a dio (come si cantilenava in chiesa da piccoli), ma perché sono interessato ai premi come forma di integrazione al reddito familiare. Per esempio, il concorso organizzato da un grande supermercato mette in palio buoni spesa da mille euro, mentre le solite macchine fotografiche digitali, che sono la stragrande maggioranza dei premi, si possono sempre vendere su ebay. Quindi perché non sfruttare un archivio fotografico che spazia lungo un arco di oltre trent'anni di passione?
Così mi sono messo a scartabellare fra raccoglitori, negativi e diapositive che rappresentano per immagini gran parte della mia vita. Mi sono accorto che ho sempre privilegiato fotografare i paesaggi e la natura, forse per mantenere una certa distanza fra me e il resto del mondo. Riguardando oggi queste immagini provo a volte un senso di vuoto, di abbandono, di mancanza, malgrado siano tecnicamente impeccabili. Manca però la presenza umana, i visi, i sorrisi, gli sguardi, il calore fisico della vita.
Senza le persone, le fotografie mi appaiono come le foto di stelle e galassie del telescopio Hubble: di una struggente bellezza, ma sterili, scientifiche.
Le poche immagini in cui ho ritratto delle persone, hanno acquistato col tempo un valore intrinseco: quello dell'immagine in sé, quello dei volti, delle storie, della vita sfumata e di quella futura. Sono divorato dalla curiosità di sapere com'è andata a finire, cos'è successo dopo lo scatto, quando me ne sono andato. Una foto che ritrae delle persone è una storia che non ha fine.
Scansire le foto per partecipare ai concorsi mi fa sentire occupato, è un alibi per non pensare che sono qui, da solo, senza un vero lavoro, senza la possibilità di aiutare la mia famiglia. Guardando il tempo che passa e i risparmi di anni che si consumano, e non poter fare altro che incazzarmi e ingannare me stesso.

venerdì 28 maggio 2010

Il nuovo medioevo

Questa è un'offerta tipo, una di quelle che consulto ogni giorno per trovare qualche straccio di lavoro. Naturalmente l'azienda è sempre leader del settore, dinamica e in espansione, con una mission molto ambiziosa. La richiesta è più o meno sempre la medesima: grafico editoriale con esperienza anche in design, ottima conoscenza del pacchetto Adobe Cs (Photoshop, Illustrator, Indesign, Acrobat, Flash) e Xpress, conoscenza del linguaggio html e della formattazione tramite fogli stile css, del web design e di Dreamweaver. È gradita la capacità di lavorare in team, la conoscenza della lingua inglese, la predisposizione all'elasticità degli orari e alla gestione delle urgenze editoriali. È titolo di privilegio l'essere automuniti. L'inquadramento è immancabilmente a tempo determinato, a partita iva o magari anche a stage gratuito. Insomma, un vero affarone.
La mia esperienza trentennale in questo settore mi ha insegnato che una figura di questo tipo non esiste in natura. Infatti si tratta di un ibrido pensato in laboratorio da qualche brillante amministratore delegato, che fonde nello stesso involucro tre distinte figure: il grafico editoriale, il web designer, l'art director. Un pallido ectoplasma di questa chimera è a volte racchiuso nella figura dello smanettone. Un occhialuto e foruncoloso secchione che ha studiato a memoria tutti i manuali dei vari programmi di grafica e web, sviluppando una certa infarinatura sul loro funzionamento, ma che non ha, e mai potrà sviluppare, il gusto, il bagaglio culturale, la creatività e l'esperienza per essere, non dico un grafico editoriale o un art director, ma nemmeno un grafico esecutivista.
Ecco allora che la brillante intuizione di un amministratore delegato senza scrupoli e senza morale, si trasformerà in prodotti che potranno anche tecnicamente funzionare, ma che sono di una bruttezza, di una illogicità e di un banale squallidume come non se ne sono mai visti.
Non vi siete mai chiesti perché certi prodotti, usciti da aziende anche di un certo prestigio, siano così irrimediabilmente brutti e fuori tema? La soluzione è scritta poche righe sopra, ovvero, succede quando si vuole pagare una sola figura che sappia fare (male) un po' di tutto, invece che tre professionalità distinte.
Così non si può andare avanti, non è ammissibile pretendere la luna da persone con l'acqua alla gola in cambio di un sonoro calcio nel culo. Non dobbiamo e non possiamo sottometterci ad una logica di questo tipo in cui la professionalità è carta straccia. Si è chiusa l'epoca del libero scambio e si è aperta (o riaperta) l'epoca del feudalesimo, della carità in cambio di schiene spaccate e dignità offese. Meditate.

giovedì 27 maggio 2010

Meglio il mio appartamento

Un bel po’ di tempo fa, quando morì mio padre, ricordo che un suo cliente, un signore dall’aspetto molto per bene, disse qualcosa che mi rimase impresso e che, sul momento, mi fu anche di una certa consolazione.
Più o meno disse: “Comprendo la vostra disperazione, ma pensate che lui vi sarà vicino, soprattutto nei momenti più difficili. Sarà sempre nei vostri cuori e vi meraviglierete per quanto vi sarà d’aiuto nell’affrontare le difficoltà della vita come se fosse al vostro fianco”.
Lo so, sono parole di circostanza, però le trovai, in un certo senso, non banali. Sempre meglio insomma dei soliti: “Adesso si trova in un posto migliore”, o “Ora ha smesso di soffrire e sta molto meglio di noi”, oppure “Non angustiatevi; dal cielo veglierà sulle vostre vite”.
Meglio un formale “Sentite condoglianze”, invece di queste favolette per bambini.
Confesso che le parole di quel signore, di cui non ricordo nemmeno il nome, me le sono rigiocate in simili occasioni e credo abbiano sempre sortito un buon effetto teatrale.
Anche nei giorni scorsi mi è capitato di ripensarci, giungendo però alla conclusione che, per quanto possano essere d'aiuto sono, in effetti, aria fritta.
“In fondo - mi sono detto - quando sei morto sei morto. Cosa me ne importa se i familiari credono che io possa vivere in eterno nei loro cuori o nelle loro parole? Il risultato non cambia di una virgola”.
A conferma di tutto questo, voglio citare un passo dal libro Woody Allen, conversazioni su di me e tutto il resto edito da Bompiani. Si tratta di una intervista in progress raccolta da Eric Lax che racchiude i pensieri del regista su argomenti quanto mai vari fin dal 1972 e che, guarda caso, contiene, a pagina 587, una battuta quanto mai azzeccata su ciò che ho spiegato così male. Eccola: “Anziché continuare ad abitare nel cuore e nella mente delle persone, preferirei continuare ad abitare nel mio appartamento”.

mercoledì 26 maggio 2010

Il sole, la terra e noi

Ho letto che la luce del sole impiega circa 8,33 minuti per percorrere i quasi 150 milioni di chilometri che lo separano dalla Terra.
Se, per ipotesi, il sole esplodesse, ci resterebbero quindi poco più di otto minuti prima di essere inceneriti.
Giusto il tempo per una sveltina.

martedì 25 maggio 2010

Fantasia rubata

Ne ho le palle piene di gite scolastiche a Torino per vedere il museo egizio, al Pime di Milano, ai parchi preistorici, all'Arena per improbabili manifestazioni sportive, al grattacielo Pirelli per omaggiare la giunta. Sono stufo dei saggi scolastici di piano, di chitarra elettrica, di commerci equi e solidali solo per la scuola. Sono nauseato dalle gare sociali della palestra, degli esami per l'ennesima cintura multicolore di karate. Fuggo come un ladro dalle feste scolastiche di fine anno, dalle esposizioni dei lavoretti di prima, seconda, terza, quarta e quinta, dalla mostra d'arte degli studenti di terza media, dalla creatività banale e stereotipata dei genitori attivi e non, dai musical fortemente voluti da un preside totalmente rimbambito, dallo stress da palcoscenico, dai capricci da primedonne delle insegnanti.
Da questa scuola in generale. Dal concetto di controllo sulle nuove generazioni che un'istituzione così concepita non può fare a meno di esercitare.
Ogni anno le lezioni terminano sempre più tardi e ricominciano sempre prima. Negli anni sessanta potevamo crogiolarci in lunghissime e oziose estati indolenti. Ai primi di giugno c'era già chi partiva per la casa dei nonni in campagna, altri passavano un mese in città, un altro al paese dei nonni e un altro ancora al mare con mamma e papà, poi, a settembre, con gli amici in città.
Oggi, tra compiti delle vacanze, un mese di ferie e qualche giorno di sacrosanto far niente, l'estate vola in un soffio e ci ritroviamo al sette, l'otto di settembre a ricominciare una scuola pressoché inutile se non per i giorni sempre più numerosi di inutile presenza. Non più un luogo di incontro e confronto, ma una economica bambinaia per genitori impegnati. Non qualità dell'insegnamento, ma mero calcolo dei giorni scolastici. Tra vacanze sempre più brevi e tempi prolungati sempre più lunghi, ai ragazzi non rimane più tempo da dedicare a sé stessi, niente fantasticherie, niente ore trascorse sul letto o sul divano con le gambe per aria a scrutare ombre misteriose sul soffitto, niente interminabili pomeriggi assolati trascorsi con gli amici, niente fumetti e libri, nemmeno la bici con le gomme consumate fino a scoppiare, nulla di quella libertà che oggi appare così improbabile.
Di quale libertà possono nutrirsi dei bambini dai sei agli undici anni che sono obbligati a trascorrere oltre otto ore in quella gabbia chiamata scuola? Per poi, una volta usciti, fare che? Un corso di ginnastica da un'ora, o la piscina, o la lezione di piano. E poi i compiti, compresi sabato e domenica, le ricerche, il quaderno con la copertina gialla, l'altro blu, l'altro ancora rossa, quello per matematica deve essere verde, quello di scienze ad anelli, ma non quello di inglese. Libri sempre più pesanti per insegnare a memoria mille desinenze che mai più si ricorderanno.

lunedì 24 maggio 2010

La lista della spesa

La giornata comincia sempre con le migliori intenzioni: finire i quadri in sospeso e iniziarne altri (le idee ci sarebbero), pensare a nuove forme promozionali per trovare lavoro, fare un po' di attività fisica, magari mettersi a dieta - come se in due mesi potessi rimodellare questo aspetto da larva australiana - e invece finisce che mi rincoglionisco davanti a questo maledetto computer per buona parte della giornata. Prima il blog, che non decolla neanche a calci in culo, poi uno sguardo alle notizie e qualche video curioso, la posta che annovera al massimo tre o quattro messaggi al giorno di cui almeno tre sono spam, lo ammetto, anche un'occhiatina a qualche sito porno, un panino a mezzogiorno, un sigaro e buona parte della giornata se n'è andata. Poi rientra mia moglie con il lavoro che non è riuscita a fare e che, naturalmente, finisco io, così, per uno stipendio part-time, lavoriamo in due, poi torna da scuola il più grande che, dopo essersi abbuffato al bar del liceo, alle tre del pomeriggio pretende di mangiare di nuovo, e alle quattro e mezza arriva anche la piccola, con le sue innumerevoli domande e la bocca che non la smette mai di parlare.
Per me la pace e la concentrazione per pensare a qualcosa durano l'arco di non più di tre ore, poi è il caos, l'anarchia, inquinamento acustico, favori continui fra moglie e figli.
Mi sto perdendo, non riesco a ottimizzare il mio tempo ma, soprattutto, la mia volontà. Meno faccio e più il tempo vola, ore, giorni, settimane, mesi. La mia tragedia lavorativa si è consumata a dicembre e ormai siamo in giugno. A parte preventivi a fondo perso, non ho battuto chiodo e le prospettive sono quanto mai nebbiose. L'arte, a essere onesto, un po' mi ha deluso. Pensavo di fare determinate cose e invece ne scaturiscono altre che non so ancora se e quanto mi piacciano realmente e quale favore potrebbero riscontrare.
Questa sera ci dobbiamo anche sorbire l'autoinvito di una vecchia amica che approfitta della vicinanza del suo dentista per venirci a trovare alle ore più impensate. Non c'è dubbio che sia una brava ragazza, ma non comprende gli impegni e le scale di valori di persone sposate e con figli. Pensa che il massimo impegno della vita sia accudire il suo grasso gatto e che la più grande preoccupazione che si possa provare è quando la bestiolina si ammala, o dove metterlo quando va in vacanza in qualche luogo molto di moda fra quelli di sinistra, più comunemente conosciuti come ci'chezz.
Anche la famiglia del "lungo" rientra nella categoria: ascoltano solo musica di un certo tipo, frequentano gente di un certo tipo, guardano film di un certo tipo, leggono (quando leggono) libri di un certo tipo e potrei andare avanti all'infinito. Sono in pratica gli stereotipi di come ci si immagina un certo tipo di persone. Tanto per fare un esempio elementare, è come se considerassero solo ciò che è rosso, trascurando e ignorando volutamente tutto ciò che è verde, giallo, blu, o di qualsiasi altro colore. Un po' come essere rimasti alla tv in bianco e nero e far finta di non sapere che invece il mondo è a colori.
A proposito, sono quasi certo che legga questo blog, perché la sera del mio compleanno ho ricevuto una sua telefonata. Mentre preparava da mangiare, mi ha fatto gli auguri, promettendo di richiamarmi dal lavoro. Sono passati tredici giorni, ma non l'ho più risentito. Come vedi, amico mio, la tua buona azione non è servita a tenermi buono, ma sappi che, anche se posso apparire acido o risentito, mi sono sempre comportato con onestà (anche con il "corto") e vi voglio bene.

venerdì 21 maggio 2010

Caro, vecchio pediatra

Quanti blog esisteranno al mondo? Ho fatto una ricerca con google, ne risulta solo un gran casino. L'unico dato numerico risale al 2009 e dice che ci sarebbero circa 133 milioni di blog.
Ora, di tutti questi blog, quanti saranno quelli italiani? Difficile scoprirlo. Per quanto la rete sia una miniera di informazioni, a volte le cose più banali risultano difficili da trovare. In ogni caso, Eurisko calcola che siano circa 650mila.
Parlando di probabilità, diciamo che la possibilità di azzeccare un terno secco al lotto è di 1 su 11.748. Ora, quante probabilità ci sono che, cliccando a casaccio sul link "blog successivo" di blogspot, possa capitare nella pagina di qualcuno che conosco direttamente o indirettamente? La matematica non è mai stata il mio forte, ma riesco a capire che sono sicuramente inferiori rispetto a quelle di fare un terno al lotto. Eppure.
Eppure, così facendo, oltre che capitare in blog di pazzi nazisti propugnatori della pena di morte che, in effetti, le forze dell'ordine ogni tanto già applicano di loro iniziativa, o degli immancabili poeti (ma quanti sono?), sono finito in un tipico blog familiare, con foto di bambini, resoconti di gite e roba del genere. Quello che ha attirato la mia attenzione è stata la foto di un compleanno di famiglia con tanto di nonni.
"Ma io questo nonno lo conosco! - ho pensato - questo è il nostro caro vecchio pediatra!". Leggo il post e sento un pugno allo stomaco: "Per fortuna la tua sofferenza non è dovuta durare troppo a lungo. Buon viaggio".
"Ma che cazzo! Non è possibile, questo vorrebbe dire che il vecchio R. se n'è andato, è morto!".
Incontrarlo è stato per noi uno di quei casi fortuiti che nella vita si verificano molto raramente. Mio figlio è sempre stato di salute cagionevole, allergico e gracilino e non riuscivamo a trovare un medico che lo seguisse per bene, finché non trovammo Lui. Era già piuttosto anziano, oltre i settanta, ma fu l'unico che, nel giro di qualche mese, riuscì a rimettere in sesto mio figlio.
Ciò che ci ha irrimediabilmente conquistato di lui è stata la simpatia, la disponibilità, la passione, l'umorismo, la modestia, l'amore per i bambini di quello che, in seguito, scoprimmo essere un grande pediatra.
Lui mi prendeva sempre in giro per via dei vini che gli offrivo quando veniva per una visita a domicilio: "Ma dove l'hai comprato questo vino? - mi domandava - ma lo sai che fa proprio schifo?". Io proponevo di portarlo via, ma lui diceva: "No no, lascialo qui, anche se fa schifo lo bevo lo stesso".
Gli piaceva venire a casa nostra perché offrivamo sempre qualcosa: formaggio, salame, qualche tarallo, un po' di vino, e a noi piaceva la sua compagnia, il suo modo di essere, le sue battute, la maniera con cui trattava i nostri figli. Aveva capito subito il carattere della piccolina e amava apostrofarla scherzosamente: "Vieni qui, che sei cattiva come l'aglio! - oppure - sei perfida come un prete!".
L'altro, il più grande e timido, lo trattava sempre con affetto e rispetto, come si tratterebbe un vero nonno.
Le vaccinazioni antinfluenzali erano quasi un appuntamento fisso e, anche se a volte la mano gli tremava un po' e il liquido bruciava, non ce le saremmo fatte fare da nessun altro.
Quando la gamba non gli permise più di fare visite a domicilio, eravamo noi ad andarlo a trovare a casa, quella casa ricolma di libri, di quadri, di reperti archeologici che affascinavano i bambini. Lui era solito dire che non poteva morire fino a che non avesse terminato di leggere tutti i suoi libri, e invece.
Per mia moglie e me era diventato davvero come un vecchio, caro, saggio nonno. Sapeva curare i bambini, sapeva di cosa avessero bisogno, non ha mai sbagliato una diagnosi, la sua serenità e il suo distacco dalle cose della vita erano sempre una boccata di umanità per tutti noi.
Ora sentiamo che una persona speciale non c'è più e rimpiangiamo di esserci solo sfiorati durante le nostre vite.

giovedì 20 maggio 2010

Leggi, morale e carità

Tanto per andarci leggeri, mi domandavo quanto sia giusto e soprattutto morale, che una persona o un gruppo di persone, abbiano il potere di rovinare la vita altrui. Persona, o gruppo di persone, che non sono stati né democraticamente eletti, né investiti da alcun organo dello stato.
Persone che effettivamente detengono un potere che permette loro di ricattare economicamente e non solo quelle che, a questo punto, sarebbe lecito definire "vittime".
Non più un rapporto di scambio tra domanda e offerta, ma tra sfruttato e sfruttatore, legalizzato dalle leggi dello stato.
Si dirà che non è più l'epoca della rivoluzione industriale, invece non ne sono così sicuro. E allora, le frustate ai dipendenti nel call center della Italcarone? Le dieci, dodici ore di lavoro al giorno di chi non è definibile in altro modo se non "lavoratore dipendente", obbligato invece ad aprire la partita iva? Gli extracomunitari reclutati dalle mafie e non solo, trattati come bestie per raccogliere pomodori o arance a poco meno di dieci euro al giorno? I contratti, purtroppo legali, in forma di stage non retribuito? Le lettere di dimissioni firmate in bianco all'atto dell'assunzione?
Cos'è tutto questo se non bieco sfruttamento di una classe che non possiede più i mezzi, la forza e la voglia per ribellarsi?
Avete mai provato a intentare una causa per un torto subito sul lavoro? Avete vinto? Non credo, oggi chi detiene il mercato del lavoro è favorito da leggi, sotterfugi, scappatoie e mezzi che gli permettono immancabilmente di gabbare chiunque: dal lavoratore licenziato al fornitore non pagato, con la semplice e sola seccatura di dover retribuire avvocati più cari del debito.
Qual è oggi il potere contrattuale dei lavoratori? Salire su una gru? O il tetto della propria fabbrica? Cosa fanno i sindacati e lo stato quando i padroni sventolano i soliti spauracchi ricattatori? Una volta è la crisi economica, un'altra il terrorismo rosso o nero, o quello esterno dei kamikaze o delle bombe, poi la crisi petrolifera, le guerre di religione, l'unità nazionale, il costo del lavoro e il cazzo che se li porta via.
Non ho soluzioni e non ne voglio proporre. Ho solo una domanda: è lecito, morale e, lo dico da ateo, cristiano e caritatevole che un essere umano abbia il potere di rovinare la vita di un altro essere umano e della sua famiglia?

mercoledì 19 maggio 2010

Anche per oggi non si vola

La mia situazione comincia pericolosamente ad assomigliare al film Prigioniero della seconda strada. Non l'avete visto? Male, perciò ne racconterò brevemente la trama. Tratto da una commedia di Neil Simon, racconta la storia di Mel (Jack Lemmon), un uomo licenziato dopo 22 anni di lavoro integerrimo. Inoltre viene rapinato e cade in una forte depressione. Mel cerca aiuto da vecchi amici e conoscenze incontrando solo cortesi rifiuti. Anche i suoi fratelli e sorelle, convocati dalla moglie, fingono di non accorgersi della sua disperazione e si defilano con mille scuse. Vista la situazione finanziaria, la moglie riprende a lavorare, mentre Mel frequenta inutili sedute psicanalitiche. Quando anche Edna (Anne Bancroft), la moglie, sta per cadere in depressione, Mel finalmente riesce a recuperare la fiducia in se stesso aiutando così la coppia a guardare di nuovo al futuro con speranza.
Tutto perfettamente uguale direi. A partire dall'età di Mel, quarantotto anni; alla perdita del lavoro dopo anni di onesto servizio; agli amici e i conoscenti che voltano la testa; alla moglie che riprende a lavorare; all'abbattimento psicologico che segue tutto questo.
Manca solo il finale consolatorio che ancora non compare all'orizzonte. Anzi, come la nube del vulcano Eyjafjallajokull (ma che cazzo di nome!), capricciosamente decide quali voli saranno cancellati e quali no, ogni giorno arrivano notizie contrastanti sul fronte lavoro.
Si sono fatti sentire gli editori di Genova. Premetto che, oltre al progetto grafico e l'impaginazione della rivista, avevano richiesto un preventivo anche per la realizzazione e il mantenimento del relativo sito web. Non essendo in grado di fornire questo tipo di servizio, mi sono avvalso dell'esperienza di un amico professionista del settore, al quale avrei girato l'importo del lavoro tranne una piccola commissione per me. Beh, come quelli che andarono per suonare e furono suonati, ecco la mail che ho ricevuto ieri: "Per la grafica la ditta che mi ha chiesto resta come sta, x il sito web ne parliamo in settimana in quanto e da preparare insieme." Lo so, non si capisce niente e infatti ho telefonato per farmi spiegare meglio. In pratica la traduzione in lingua italiana sarebbe: "Per il progetto grafico della rivista non se ne fa niente, mentre per il sito ci vediamo in settimana per parlarne". A parte la beffa di aver procurato lavoro per il mio collaboratore e aver perso quello di mia pertinenza, mi domando se valga davvero la pena continuare a perdere del tempo con gente che scrive in questo modo. 
Direi che, per il momento, il vulcano ha deciso che non si vola.

martedì 18 maggio 2010

Voto di scambio

Continuare a scrivere ogni giorno questo blog sta diventando un lavoro, un lavoro che però non mi fa guadagnare un centesimo. Sì, proprio come diceva zio Paperone. Anche noi finalmente possiamo esprimerci con quelle parole che da piccolo mi suscitavano tanta invidia: "Da me non avrai nemmeno un centesimo!" Noi avevamo le lire e, al massimo, potevamo dire: "Sono rimasto senza una lira!", che però non fa lo stesso effetto. Certo, euro non suona come dollaro o verdone, ma dobbiamo accontentarci.
Per il momento penso di proseguire, se non altro per me stesso. Certo, se dovessi basarmi sui commenti che ricevo, sarebbe più soddisfacente parlare col muro. Meglio così, perché quando arrivano sono solo offese gratuite.
Chissà, forse dovrei trasformare il blog in un contenitore per barzellette, o in una raccolta di foto porno. Scommetto che se postassi un po' di parole chiave tipo: fica, teenies, amateur e amenità simili, ci sarebbe un'impennata delle visite. Anzi, scommetto che basteranno queste tre paroline magiche ad incrementare le visite odierne. Oppure potrei buttarmi in politica, o nel calcio, ma non me ne frega assolutamente nulla né dell'una, né dell'altro.
Non ricordo se ho già raccontato del tentativo di trovare lavoro attraverso la politica, ma il blog è mio e quindi faccio quello che mi pare, perciò lo racconto.
Capiterà anche a voi che, poco prima di qualunque appuntamento elettorale si riempia la casella della posta di depliant, inviti e lettere personali di aspiranti assessori, sindaci, parlamentari eccetera. Proprio come a me. Quindi mi dico: "Perché non tentare anche con questi?".
Ho scartato a priori l'estrema sinistra perché si presume siano persone integerrime e poi perché, diciamocelo chiaro, cosa avrebbero da offrirmi?
Un tentativo, quasi una prova del nove, l'ho fatta con Di Pietro e compagnia. È uno molto attento alla rete e sa sfruttare le nuove tecnologie. Quindi il suo staff dovrebbe essere sensibile a ciò che arriva dal web. Ho fatto un breve riassunto della mia situazione chiedendo una qualsiasi forma di aiuto. Niente, nessuna risposta. Però mi sono ritrovato abbonato alla sua newsletter.
Provo col pezzo forte: un assessore che ogni anno, verso natale, mi invita a un rinfresco panettone-e-spumante. Non ci sono mai andato, ma gli scrivo. Dico che non è mia abitudine cercare sostegno così apertamente, ma che ho avuto grosse difficoltà e bla, bla, bla. Concludo che apprezzerei molto qualsiasi tipo di appoggio potesse darmi.
Beh, è incredibile, ma dopo nemmeno quattro ore ricevo una mail con la sua risposta. Dice: "Egregio signor eccetera, ho letto la sua mail ... purtroppo è un brutto periodo per la nostra economia ... le professioni qualificate come la sua ... ora (a pochi giorni dalle elezioni regionali) non ho proprio il tempo materiale per ... la invito quindi a farsi sentire dopo le elezioni in primis per conoscerci e poi affrontare il suo problema".
Wow! Che figata! E poi dicono che questi del pdl pensano solo ai loro intrallazzi e invece, guarda qui! Non mi ha risposto l'idv, non mi ha risposto il pd, ma il pdl sì. Questo non significa che voterò pdl, anzi, questo non significa nemmeno che voterò. E no, a votare ci devo andare, perché basta fare un controllo delle liste elettorali per capire se ci sono andato o meno e, visto che quello che ho appena raccontato non è né più né meno che un voto di scambio, almeno deve figurare che a votare ci sono andato. Poi quello che voterò sono fatti miei.
Aspetto con ansia le elezioni regionali. "Siamo in Lombardia, a Milano, - mi dico - chi vuoi che vinca? È praticamente automatico!". Faccio passare un po' di giorni, il tempo per festeggiare, per occupare le nuove poltrone, poi spedisco la mail.
Piccolo particolare: il caro assessore ha sì triplicato le preferenze personali (secondo la sua pagina facebook), ma non è stato eletto come consigliere regionale. Non so bene quale sia ora la sua posizione, ma visto che ogni promessa è debito, mi faccio risentire, non una, ma tre volte. Nessuna risposta.
Come dice il proverbio? Passata la festa, gabbato lo santo.
Meno male che non ho votato per lui!

lunedì 17 maggio 2010

La vita è come una pizza

La settimana si apre male, molto male. L'editore di Milano, la persona seria di qualche post fa, quello presentato dall'ex direttore, mi ha gelato. Dice che, al momento, "tutto sembra accantonato", che la mia analisi grafica della rivista è "molto interessante", ma che sta pensando a una "centralizzazione" dei servizi compresa la grafica e che, quindi, "attivare ora un nuovo rapporto potrebbe essere fuori luogo".
Che dire, per me è stata una doccia fredda. Credevo fosse una cosa sicura al settanta per cento, e invece mi trovo a ripartire per l'ennesima volta da zero.
Anche gli editori di Genova sono latitanti e non rispondono alle mail. Forse è meglio così; mi ero sbilanciato con un preventivo davvero troppo basso e probabilmente ho pagato per questo.
Come dovrei consolarmi? Pensando che basta la salute? Già, se solo bastasse la salute. Ma la salute non paga la spesa, il mantenimento dei figli e della casa, la dignità della persona.
Mi guardo allo specchio e vedo un cinquantenne stanco, demoralizzato, offeso, umiliato, frustrato. Uno che ha perso la voglia di ridere, uno che ogni giorno deve affrontare una ricerca che non porta quasi mai a niente.
L'arte, ho provato anche con quella, per scoprire che qualche idiota ha fatto dopo di me le stesse mie cose, ma che lui, per chissà quali motivi, agganci, raccomandazioni o conoscenze è finito sul giornale mentre io ho preso solo calci nel culo.
Questa è l'Italia, un paese nel quale non conta il merito, la creatività, la competitività, ma solo l'amicizia influente, la spinta giusta, l'interesse, la cricca. Ma quale sogno americano! Qui nessuno ha mai fatto fortuna senza essere figlio di, amico di, raccomandato da, aver leccato il culo a. E io mi sento troppo vecchio per queste cose.
La vita è bella, bellissima, anche se però mi ricorda sempre più una pizza della quale ho già mangiato la parte migliore. Ora è rimasta solo la crosta che spesso è dura, senza condimento e salata.

venerdì 14 maggio 2010

Come ideare e lanciare un giornale di settore

Inventarsi modi per fregare il prossimo, a volte è meno difficile di quanto si pensi. Per esempio, nel campo delle testate di settore, le cose funzionano più o meno sempre allo stesso modo. Ecco un esempio di come buttarsi nel mondo della comunicazione che, se vogliamo, è fra i più difficili da conquistare, ma la ricetta è adattabile un po’ a tutto.
Cercate di formare la vostra esperienza giornalistica in qualche rivista di settore. Per esempio nel mondo della comunicazione. Se non avrete troppe pretese e sapete scrivere decentemente, non dovrebbe essere difficile.
Cercate di instaurare il maggior numero possibile di rapporti con creativi, manager, amministratori delegati e compagnia bella, di qualsiasi agenzia, centro media o professionisti del settore.
Parlate sempre bene di qualunque cosa li riguardi: cambi di agenzia, nuove iniziative, campagne, cariche, anche se possono sembrarvi delle cazzate incredibili. Siate adulatori entusiasti e assecondate i loro capricci, un po’ come fa Vincenzo Mollica nei servizi in tv. Se dedicherete il giusto impegno, nel giro di qualche anno potreste aspirare alla carica di vicedirettore o direttore. Tanto sono giornali che, al massimo, hanno quattro o cinque dipendenti.
Nel frattempo, continuate a coltivare i vostri contatti e cercate di stabilire con loro quella specie di falsa amicizia formale e ipocrita tipica di certi ambienti. “Ciao carissimo! Come va? Ho visto l’ultima campagna direct marketing, davvero eccezionale! Perché non facciamo un articolo?”.
Sono ambienti in cui si parla di niente, ma in tono molto pacato, non si dicono volgarità e, soprattutto, non ci si manda mai a cagare (ricordatevelo!). Caso mai, meglio pugnalarsi alla schiena, ma questo al momento non ci interessa.
Quando, grazie alle vostre doti adulatrici, avrete conquistato e consolidato il maggior numero possibile di contatti, sarete pronti per il gran salto.
All’inizio, si crea un sito piuttosto semplice che fornisca informazioni in tempo reale sul mondo della comunicazione. Chi fa cosa, chi va dove, chi ha vinto la tal gara, quale agenzia è stata scelta per la prestigiosa campagna e via discorrendo. Lo si spaccia come uno strumento innovativo che faccia incontrare aziende, fornitori e persone, tipo: “Strumento innovativo per permettere alle aziende di comunicare in maniera efficace al proprio target”. È chiaro che si tratta di un’accozzaglia di stronzate, ma è quel genere di cosa per cui impazziscono gli operatori della comunicazione. Un falò delle vanità insomma.
Naturalmente bisogna avere la predisposizione a vendere questo genere di pornografia, ma non ci vuole molto per imparare quelle dieci parole da stronzi, e l’esperienza giornalistica maturata, vi sarà molto utile.
Sì, ma il guadagno in tutta questa operazione dov’è? Se avrete leccato e adulato come si deve le vostre false amicizie, sarà relativamente semplice convincerle a sottoscrivere un piccolo abbonamento al vostro sito. Che so, cinque o seicento euro all’anno sono una cifra più che abbordabile per qualunque struttura. Considerate, per esempio, che la quota associativa all’art directors club italiano è di quasi trecento euro, in cambio di un bel niente.
Diciamo che, durante la fase di start-up (altra parola ignobile che sta per avvio, partenza), siete riusciti a convincere almeno una sessantina di coglioni: avete già incassato oltre 36mila euro, a fronte di un investimento consistente nell’acquisto di un dominio, un paio di computer e due o tre stagisti che vengono via quasi gratis.
I materiali per il sito saranno forniti dagli stessi iscritti che non vedranno l’ora di apparire nelle news quotidiane.
E adesso viene il bello: si tratta di abbinare servizi supplementari. Per esempio, ci si può inventare una rivista in cui gli articoli sono costruiti a misura del committente. Lui deciderà di cosa vuole parlare, o cosa vuole promozionare, fornirà le immagini a corredo, o scriverà lui stesso il testo dell’intervista o del servizio. Sparerà qualunque cazzata desideri, senza praticamente alcun vincolo o alcuna censura. Tutto questo avrà un prezzo: diciamo dai 400 ai 600 euro per un servizio di due, quattro pagine. Le tematiche sono infinite e ognuno potrà trovare la collocazione che preferisce. Amministratori delegati, creativi, art director, event manager eccetera.
Ipotizzando almeno una ventina di articoli, ci potremo mettere in tasca circa dai 12 ai 15mila euro a numero. Poi ci sono le pagine pubblicitarie, la seconda, terza e quarta di copertina e le sponsorizzazioni che renderanno almeno altri 5.000 euro. Inoltre non dimentichiamo l’abbonamento alla rivista, che non sarà a buon mercato come Topolino. Almeno 300 o 400 euro l’anno.
E la stampa? La Carta? L’impaginazione? Beh, con più o meno 1.500 euro un grafico lo si trova, impaginerà da casa sua, così non ci sono costi di computer, programmi, contributi eccetera.
Per la carta, si può proporre a qualche cartiera un cambio merci: loro forniscono la carta necessaria e il giornale regala una serie di interviste o il logo in copertina.
La stampa invece tocca pagarla, ma esistono centinaia di tipografie che navigano in pessime acque e sarà estremamente facile spuntare un ottimo prezzo.
Per gli articoli sono sufficienti un paio di stagisti neolaureati. Se li pagate 500 euro a ritenuta d’acconto, vi ringrazieranno pure. A volte gli articoli somiglieranno a frammenti di tesi di laurea, ma tanto ci pensa il cliente a dire cosa scrivere; loro si preoccuperanno di sistemare l’italiano.
Se avrete seguito a dovere la parte cartacea, tra articoli, inserzioni, sponsorizzazioni e abbonamenti, incasserete circa 20mila euro a numero, con un costo, tra grafica, carta, stampa e redazione di non più di 10mila euro. Niente male vero?
Ora siete in piena fase click & paper, come dice qualcuno di mia conoscenza con pochissimi capelli e la mentalità da padrino. Ma non è finita, anzi, è appena cominciata.
Attenzione solo a non mungere la vacca più di quanto possa sopportarlo. Ogni zecca, vampiro, pulce, pidocchio e parassita che si rispetti, sa bene che non si può uccidere la propria fonte di nutrimento.
A questo punto, è necessario qualche mese di rodaggio, per controllare che tutti gli ingranaggi girino a dovere. Se tutto va bene, dopo circa un anno, è giunto il tempo della ciliegina sulla torta, ovvero l’organizzazione di un premio.
Si sa, l’essere umano è schiavo della vanità. Chi potrebbe resistere alla tentazione di ricevere un sontuoso quanto inutile trofeo vinto grazie alla capacità professionale, alla creatività e un bel gruzzolo di euro? Per esperienza personale, posso dire che i più sensibili a questo genere di adulazione sono in assoluto i creativi. Come nei film di Carlo Verdone, non sanno più cosa inventare affinché il proprio look sia più creativo, originale e cool di quello dell’odiato collega dell’agenzia concorrente. Primedonne, vanitosi, presuntuosi, arroganti imbecilli.
Anche l’scrizione al premio avrà il suo prezzo, diciamo 500 euro per una campagna, più altri 200 euro per ogni campagna aggiuntiva. I premi saranno innumerevoli, in modo da accontentare il maggior numero di partecipanti; la giuria sarà molto elastica e, per chi è rimasto a bocca asciutta, non c'è che da creare i “premi dell’editore” che lui stesso si premurerà di distribuire a chicchessia, creando categorie ad hoc per ogni esigenza.
Inutile che faccia i conti anche per i premi: la filosofia sarà la stessa del giornale: minimo investimento, massimo rendimento.
Il giochino potrà andare avanti all’infinito con minime varianti: altri giornali, altri siti, altri concorsi eccetera.

giovedì 13 maggio 2010

Se lo dici tu

Ieri, su questo blog, qualcuno mi ha dato dello sfigato. Per principio, sono contrario a ogni forma di censura, anche se l'educazione imporrebbe di non offendere l'ospite e quindi ho pubblicato il commento.
Si sa, ormai il mondo è dei cafoni, ma pensavo che concedere totale libertà di espressione li avrebbe portati ad autoregolarsi. Forse è una pura illusione. Lo vediamo nel calcio. Quale forma di protesta civile potrebbe mai permettersi i comportamenti delle tifoserie dopo ogni partita? Quale governo democratico concederebbe a questa gente ciò che viene concesso in Italia?
Questo è un blog aperto a tutti, ma è pur sempre casa mia e, come casa mia, è aperto a ogni persona e ogni critica che non scada nell'offesa fine a sé stessa.
La spinta a scrivere questo post, non viene dal voler riparare a un torto, ma piuttosto dal voler soddisfare una curiosità. Com'è possibile che, nel giro di cinque minuti, qualcuno mi abbia bollato come uno "sfigato" con tanto di punto esclamativo?
Mi piacerebbe conoscere, sempre che sia in grado di mettere insieme più di quattro parole consecutive, per quali motivi il mio gentile ospite mi consideri uno sfigato. Forse posso aiutarti con qualche spunto.
Perché dopo ventinove anni di lavoro ininterrotto ho perso la possibilità di mantenere la famiglia? Perché essere disoccupati è vergognoso e da sfigati? Perché leggo gli inserti cultura dei quotidiani vecchi anche di una settimana e non la Gazzetta dello Sport fresca di giornata? Perché non sopporto l'andazzo fatto di amici degli amici, della raccomandazione dello zio prete, della muta accettazione di un sistema corruttivo che parte dal capo del governo e arriva fino al pezzo di colore sul quotidiano? Perché trovi sia poco virile guardare i passeri sul mio balcone? Perché ho pochi amici? Perché mi preoccupo di quanto sia caro fare la spesa invece di delegare a mia moglie le faccende che competono a una donna, cioè fare la calzetta e preparare da mangiare? Perché mia nonna ruttava e scoreggiava e la cosa era secondo me divertente? Perché pensi che raccontare qualcosa di più intimo delle conquiste da discoteca o dei "puttan tour" fra uomini sia da froci? Perché ho ammesso che una donna possa saper fare qualcosa meglio di me? Perché gioco con i miei figli e non nascondo i miei sentimenti verso di loro?
Perdonami, ma davvero non riesco a capire le tue ragioni. Non mi reputo uno sfigato, anzi, mi sembrava chiaro, e l'ho anche ripetuto spesso, che sono una persona felice, fortunata, con una vita più che soddisfacente, che ha semplicemente avuto la sventura di imbattersi in un momento avverso, ma che non scambierebbe la sua vita con quella di nessun altro al mondo.
Un po' di esperienza di vita l'ho maturata, caro anonimo di Cernusco sul Naviglio, e ho capito che dietro all'insulto (come dice quel pagliaccio di Berlusconi), non si nasconde altro che l'invidia.

mercoledì 12 maggio 2010

Ancora la Chiappori!

Negli ultimi tempi mi è presa l’abitudine di leggere i quotidiani vecchi anche di tre o quattro giorni. Lo faccio perché mi sembra uno spreco buttarli senza averli esaminati da cima a fondo. E poi, a distanza di qualche giorno, le notizie prendono una nuova luce, si potrebbe quasi dire che crescano, si evolvano.
Per esempio, in un vecchio inserto spettacoli de la Repubblica, vedo uno dei soliti articoli inutili sugli usi e costumi della buona società milanese dal titolo: Home music. Rock, folk o jazz, l’ultima moda è il concerto fatto in casa.
“Che stronzata - penso - chi di noi, persone ordinarie, potrebbe mai organizzare un concerto per cinquanta persone in un bi o trilocale più servizi?”.
È proprio vero che il concetto di abitazione varia col reddito: ciò che, per un benestante, potrebbe essere al massimo la cuccia del cane o la stanza della servitù, per la maggior parte dell’umanità sarebbe una reggia.
Ecco cosa mi infastidisce di questo quotidiano: ergersi a censore dei ceti medio alti, tacciarli di ladrocinio e meschinità di ogni genere, per poi, dieci pagine dopo, incensarli, ossequiarli e farsene servitore e giullare.
“Lascia perdere - mi dico - in questo periodo sei già abbastanza incazzato per i fatti tuoi, che ti frega, salta la pagina e lascia perdere, la tua ipertensione ringrazierà”. E così stavo per fare, quando vedo la firma dell’autore: Sara Chiappori. E chi poteva essere altrimenti? Nel post dell’8 ottobre 2007, era finita nel mirino per un articolo che incensava una sedicente scrittrice quattordicenne che aveva pubblicato, addirittura per Mondadori, un patetico romanzetto nel quale una sua coetanea si innamorava perdutamente di un vecchio sessantenne nell’Inghilterra del XVIII secolo. Una emerita porcheria pubblicata semplicemente perché rampolla di gran buona famiglia.
Sara Chiappori fece molto bene il suo lavoro e, oltre che intervistare la piccola, non dimenticò di menzionare tutte le filiali della gioielleria del papà, trovando anche lo spazio per un breve accenno all’attività materna. Andatevi a vedere il sito personale di Maria Elisabetta Scavia (www.mariaelisabettascavia.com) perché, se riuscite a non farvi venire un infarto dalla rabbia, potrebbe essere una delle esperienze più divertenti della vostra vita.
Insomma, come si dice in gergo giornalisto, una innocua marchetta. Niente di terribile, ma fastidiosa e indice del modo ormai consueto di farsi strada nel mondo.
Ecco perché, seppure di malavoglia, mi sento in dovere di leggere l’articolo.
Lo stile è il solito: vaneggiamenti vari e citazioni di nomi e indirizzi di chi evidentemente ha le sue buone ragioni per vedersi pubblicato. Il nome che ricorre con frequenza impressionante e quello dei Pan del Diavolo, definiti “Scatenato gruppo palermitano punk-folk (?!) pronto a esibirsi in versione acustica e molto domestica. Il concerto è stato organizzato su facebook e myspace da Secret Concerts (ecco finalmente il deus ex machina!), fondato nel 2009 da Tania Varuni (giusto essere precisi), compagna di Giovanni Gulino, cantante dei Marta sui tubi (e chi sono?), non a caso fra i primissimi gruppi a importare a Milano la moda dei concerti in casa...” (adesso basta però!). Ma non finisce qui, Sara ci deve propinare anche la nota di colore: “I Pan del Diavolo cominciano con le loro chitarre ed è subito ritmo (caspita, neanche al carnevale di Rio!). Finiscono un paio d’ore dopo, gran serata. Era il nostro primo house concert, bello - dice uno dei due, Pietro Alessandro - suonare senza barriere di amplificazione, così vicini a chi ti ascolta. è un’esperienza da fare”.
Poi non poteva mancare la chiusa di Tania Varuni, che dice: “In poco più di un anno abbiamo fatto circa una sessantina di date in tutta Italia, di cui una decina a Milano. Su facebook i contatti ormai sono 10mila. E sono sempre di più quelli che mettono la casa a disposizione”. E minchia! Basta! Abbiamo capito!
Ecco, è finita che mi sono incazzato di nuovo. Forse sarò prevenuto, chissà.
Cambio giornale, sempre la Repubblica ma di qualche giorno prima. Lo so, faccio così, mi piace saltare avanti e indietro. Sempre nella sezione milanese, c’è un boxettino che s’intitola: “I Pan del Diavolo sfornano il primo disco”. Ma che coincidenza!
L’articoletto è quanto di più adulatorio abbia mai letto. “Interessantissimo, testi intelligenti, ritmo che trascina, nuovi punti di vista sonori, da tenere d’occhio e d’orecchio”. Questi alcuni dei commenti in solo sedici righe di testo.
Peccato non sia firmato, ma ho una mezza idea su chi potrebbe esserne l’autore (o l‘autrice!).
Ora, oggettivamente, è possibile negare che tutto questo non sia un’operazione commerciale? Almeno scriveteci in corpo cinque “informazione pubblicitaria”. Magari i ragazzi saranno pure bravi, ma metti che, fidandosi di queste entusiastiche recensioni, qualcuno acquisti il cd e che poi si riveli essere una schifezza, i soldi chi li restituisce? Sara Chiappori?
In effetti li ho ascoltati su youtube: sono davvero agghiaccianti.
E volete scommettere che, se mi leggo con attenzione gli ultimi due o tre numeri del Venerdì, o D, ci ritroverò ancora i due simpatici ragazzi palermitani?
Questi comportamenti non saranno certo gravi reati, anche se l’ordine dei giornalisti sanzionerebbe la pubblicità occulta, ma per un lettore sanno tanto di presa per il culo perché, in fondo, se oggi mi ritrovo praticamente disoccupato, è anche per non aver mai accettato nessun compromesso morale.

martedì 11 maggio 2010

Quarantotto

Oggi compio quarantotto anni. È ancora presto per cominciare a tirare le somme, anche se spesso è la vita stessa a tirarle per noi. Non voglio pensare ai coetanei già morti; amici, parenti, conoscenti, ma devo per forza prestare ascolto a quelli che raccontano dei loro problemi su facebook.
Già, facebook; questa mattina ho ricevuto gli auguri di buon compleanno da un ex professore  di architettura e da un'amica con la quale ho collaborato quasi quindici anni fa.
Niente dagli ex compagni che, come mi hanno immancabilmente deluso durante gli anni della scuola, non potevano che deludermi anche oggi.
Tutti bravi a fare gli spiritosi o gli intellettuali o a dire quanto siamo importanti gli uni per gli altri, che la nostra vita fa parte anche di quella altrui e tante altre belle parole vuote e inutili.
È vero che ogni esperienza di quegli anni ha contribuito a fare di noi ciò che siamo, ma questo non significa che fossero buone persone o buoni amici. Hanno contribuito per ciò che erano, chiuso.
Nessuna notizia nemmeno dal "lungo" e il "corto". Siete avvisati, se vi siete offesi per qualcosa che ho scritto in questo blog, il bello deve ancora arrivare.
Il lavoro per ora è ancora fermo. Gli editori di Genova non si fanno più sentire, anche se li ho sollecitati proprio ieri. Eppure stentavano a credere che il preventivo fosse così basso.
L'editore di Milano penso sia ancora in fase di valutazione. Speriamo bene, in questo momento è quello su cui ho puntato tutto quanto.

lunedì 10 maggio 2010

Coliche

Che strano, ieri ero spalmato sul divano come un morto annegato sugli scogli, quando, dopo un tramezzino alla marmellata di pesca, mezzo panzerotto con feta e pomodoro e un cerealix, mi ha preso un attacco di coliche addominali mica da ridere. La cosa curiosa è che da qualche tempo dal mio voluminoso ventre provengono strani rumori idraulici: briighr, ghiiirignaao e gorgoglii vari.
Gli stessi che produceva mia nonna quando, nel silenzio della sera, eravamo seduti a guardare la tv. Pensavo fossero una sua caratteristica personale visto che, in tema di immissioni ed emissioni corporee, era una vera miniera. Ero convinto insomma, che quei gorgoglii, non fossero altro che il tranquillo ronzare della macchina che aveva come unico scopo la produzione di quei rutti poderosi e quelle sonore scoregge con cui amava sorprendermi, tanto che ad ogni emissione, corrispondeva sempre un accesso di allegria per entrambi.
Un po’ come quando le capitava di vedere un culo nudo in televisione, in particolar modo se apparteneva a un uomo. Si metteva una mano davanti alla bocca e piegando la testa scoppiava a ridere fulminandomi con i suoi occhi grigi socchiusi e pieni di lacrime.
Quando invece doveva andare in bagno per quella grossa, pareva uno sciatore di fondo in prossimità del traguardo: muoveva le gambe a piccoli passi, strascicando leggermente le ciabatte, ma con grande velocità, così che il risultato la faceva sembrare una locomotiva, o una di quelle strane macchine che inventava Archimede Pitagorico su Topolino. Se poi per caso trovava il bagno occupato, il suo tono di voce pareva quello di un generale che vede ormai imminente una sconfitta senza alternative. Pieno di autorità, ma con una vena di disperazione nella voce.
“Luigi? Gavaria bisogno de andar al bagno!”.
Questo se era occupato da mio padre.
“Movete, che go de andar a cagar! Se no te sbrighi me la faso soto!”.
Se in bagno c’ero io.
E, come la nonna, se non avessi avuto il bagno a disposizione, ieri sera me la sarei vista davvero brutta. Mi sono sentito come quel personaggio interpretato da J.K. Simmons nel film Ladykillers, quello che, nei momenti meno opportuni, veniva assalito da imprevedibili e catastrofiche coliche.
Però sono contento di questo improvviso mal di pancia, perché mi ha permesso di ricordare, a modo mio, la mia vecchia nonna.

venerdì 7 maggio 2010

Maledetti teppisti!

C'è un gruppo di passeri stanziato da anni fra il cortile del condominio e altri piccoli giardini adiacenti. Cadendo nell'errore di antropomorfizzarli, li definirei un gruppo di teppisti scatenati. Rubano, si infilano nelle case, scagazzano ovunque, cinguettano a pieni polmoni quasi a voler dire: "Facciamo quello che ci pare, Prendici se ci riesci!".
La loro principale attività consiste nel mangiare e rubare cibo. Per far ciò non esitano a entrare nelle case da ogni portafinestra lasciata socchiusa, saltellare su tavoli e cucine e rubare qualsiasi cosa.
A titolo di ringraziamento lasciano invariabilmente qualche cagatina sul pavimento.
Sono tutti grassi e grossi, tanto da aver superato la normale taglia dei passeri che, solitamente, dovrebbero essere più minuti di un canarino. Ognuno di questi è, come minimo, l'equivalente di una coppia di canarini e d'inverno, quando gonfiano le piume, sembrano piccoli piccioni.
Conosco il loro capo: è il più grosso e sfacciato di tutti. Se ne sta spesso sulla ringhiera, cinguettando furiosamente a destra e sinistra ed è l'ultimo a scappare quando apro improvvisamente la porta.
È impossibile coltivare qualche pianta aromatica perché ne fanno invariabilmente scempio. La loro preferita e senz'altro il basilico anche se, oltre al pesto, non so cosa potrebbero farsene, non disprezzano la salvia, ma sono indifferenti a rosmarino e alloro.
Ogni mattina il balcone sembra un cagatoio della stazione centrale: si infilano in ogni anfratto fra il carrello per la spesa, o una scala, o fra l'armadietto delle scope e il muro, e cagano, e cinguettano, e litigano e cagano ancora.
Mia moglie non li sopporta più. Ogni condomino ha escogitato i sistemi più fantasiosi per scacciarli: strisce di alluminio fatte con il cuki, enormi girandole colorate, strani spaventapasseri, balconi ricoperti da fogli di giornale, pezzi svolazzanti di strisce di platica rosse e bianche con cui si delimitano i lavori in corso, tende verdi di stoffa che racchiudono il balcone come una dimora berbera.
Il risultato è quello di una immonda accozzaglia che fa pensare a qualcosa tra un condominio di pazzi e uno sfasciaccarrozze ma, secondo me, non c'è niente da fare: sono troppo furbi, troppo maleducati, troppo sveltii, impudenti e sfacciati.
Per questo li trovo così irresistibilmente simpatici.

giovedì 6 maggio 2010

Che strana coincidenza

Finalmente mia moglie comincia a raccontarmi qualcosa del nuovo lavoro.
Premetto che la dritta è arrivata attraverso un social network privato di ex studenti del liceo artistico. Non compagni di classe, ma studenti degli anni precedenti; grosso modo dal 1969/70 in avanti.
Infatti è stato molto più facile e soddisfacente stringere rapporti con loro, invece che con i miei ex. Perché? Non lo so di preciso, probabilmente perché meno ipocriti, superficiali e menefreghisti.
Sono convinto che, per uno strano scherzo del destino, la mia classe si sia distinta fra tutte per la più elevata concentrazione di stronzi, individualisti, ambiziosi, ottusi cazzoni. Non sto dicendo che le nuove generazioni non valgano niente eccetera. Sto dicendo che la mia classe in particolare era la più eterogenea accozzaglia di gente inutile. Le altre sezioni, precedenti o successive, erano tutt'altra cosa; questa era così. È chiaro quindi che, quando ho iniziato a dialogare principalmente con le vecchie leve, ricevendo attenzione, solidarietà e un embrione di amicizia, li ho preferiti. Ed è proprio da loro che ho avuto la possibilità di cominciare a guadagnare qualcosa in questo momento difficile, nel quale i vecchi compagni mi hanno totalmente ignorato.
Sì, lo so, qualche post fa avevo detto che amavo tutti quanti indistintamente, è vero, ma rimane pur sempre un affetto non ripagato, a senso unico. Qui sta la differenza sostanziale.
Per non farla troppo lunga, cercavano qualcuno e oplà, ecco che ci ho piazzato mia moglie che, anche se lamenta di non essere tecnicamente all'altezza, so che la sua creatività sarà più adatta della mia.
Quella in cui lavora è una realtà più consona alla sua formazione, infatti si occupano di promozione, ma attraverso oggetti di valore artistico elevato, utilizzando artisti e creativi più o meno affermati. E dopo la lezione di pittura che mi ha rifilato, non poteva che essere lei la persona più giusta.
Tutta questa manfrina, solo per dire che sono rimasto colpito da una strana coincidenza: e cioè che una delle capoccione dello studio, oltre che ex del liceo artistico, è anche seguace di Sai Baba, di cui ho parlato giusto ieri. Trent'anni sembrano essere trascorsi invano, come le varie accuse al santone. Anzi, come per Berlusconi, più viene attaccato, più si rafforza la fede dei seguaci nei suoi confronti.
Questa cinquantenne che veste ancora con gonnelloni di lana colorata e gioca a fare la freddolosa, si tiene appiccicato sulla tastiera il bel faccione del suo maestro, foto dell'india sulla scrivania e quadri indiani alle pareti.
Credo quindi che mandare mia moglie invece che andarci personalmente, sia stata quasi una premonizione, alla faccia di Sai Baba e i suoi seguaci.
Naturalmente ho dovuto pagare il mio contrappasso. I bambini sono entrambi malati: mal di gola raffreddore eccetera, e io devo occuparmene.
Mentre con una mano lavoro per l'editore di Milano, con l'altra preparo aerosol, colazioni, pranzi, lavo i piatti, pulisco sederi.

mercoledì 5 maggio 2010

Ma mai la fiera dell'intimo

Oggi è il secondo giorno di lavoro per mia moglie. Per fortuna è un part-time, anche se quattro ore sarebbero un po' troppe e lo stipendio va fatturato con partita iva, ma per quello ci sono io. 
Da parte mia, sono in attesa. I preventivi per gli editori di Genova e Milano sono partiti ma, per ora, ancora niente.
Sono così frustrato e avvilito per aver causato un tale sconquasso alla mia famiglia. Io avrei dovuto provvedere affinché non le mancasse niente, e l’ho fatto per ventotto anni.
Quando i compagni di liceo si dilettavano all’Accademia di Belle Arti di Brera, al Politecnico di Milano, al Dams di Bologna o in qualche facoltà di architettura in giro per l’Italia, io frequentavo un corso serale di fotografia, rischiando, ogni notte, di essere spinto sui binari della metropolitana da qualche tossico in astinenza, o sparato da un poliziotto in borghese dalla pistola troppo facile. Di giorno, invece, facevo l’assistente fotografo alla Fiera Campionaria.
Ogni mattina, alle otto in punto, ero davanti a porta Carlo Magno, di fronte al vecchio stabilimento dell’Alfa Romeo del Portello, o porta Meccanica, o piazza Giulio Cesare; dipendeva da quale fiera dovevamo fotografare.
Arrivavo dalla parte opposta della città, dai confini di Sesto San Giovanni, grigia e triste Stalingrado milanese, in sella alla mia Honda cb 350 four usata.
I titolari erano due fratelli ebrei agli antipodi in tutto e per tutto.
Uno sempre elegantissimo, in giacca e cravatta, a volte coi gemelli ai polsini, abbronzato, tonico. Portava le bretelle perché, diceva, la cintura sforma la linea del corpo e non è per niente elegante. Da lui ho imparato a non parlare con le persone tenendo le mani in tasca e non appoggiarmi a ogni muro, palo o roba del genere perché segno di maleducazione e sciatteria. Insomma un vero dandy che, per certi versi, mi ricordava un Valentino in versione etero.
L'altro era esattamente l'opposto: più anziano, in sovrappeso, vestito male, sempre col solito maglione e gli stessi pantaloni sformati. Non rinunciava mai alla pausa pranzo e amava prendere in giro bonariamente il suo assistente che, comunque, ci metteva molto del suo. Un giorno si chiacchierava fuori dalla fiera e l'assistente venne fuori con: 
"Ieri sono tornato a casa e mi sono cucinato una bella bistecca; era buonissima".
"E come l'hai cucinata? - chiede il fratello grasso - con la salvia?".
"No! - risponde l'assistente - ero da solo!".
Mi pagavano più o meno l'equivalente di venticinque euro a giornata, che però si concludeva al massimo verso le due del pomeriggio. Una cifra che moltiplicata per una quindicina di giorni al mese, mi permetteva una certa indipendenza.
L'unico cruccio che mi è rimasto è di non essere mai riuscito a lavorare durante la fiera dell'intimo. Macchine industriali, presse, attrezzature per dentisti e compagnia bella, ma mai la fiera dell'intimo.
In seguito, mentre gli ex compagni passeggiavano e studiavano fra le calli veneziane o i portici bolognesi, avevo mollato la fiera e lavoravo in un piccolissimo studio grafico in via Ravizza, di fronte al parco omonimo.
Assunto come ragazzo jolly, in verità passavo la maggior parte del tempo in camera oscura a sviluppare strisciate di testi, titoli o logotipi, perché si faceva ancora tutto a mano: carta, forbici, lettere trasferibili, retini, rapidograph e colla.
L’agenzia era minuscola: il titolare, Mario, con baffi stile Magnum P.I.; una segretaria (fidanzata ufficiale del titolare e sua futura rovina); una grafica esecutivista, piccola, riservata, bruttina, sempre triste e una art director, ambiziosa, carina, fumatrice, piena di bracciali che tintinnavano ogni volta che si raccoglieva i capelli a coda di cavallo, segno che si cominciava a fare sul serio.
Io ero molto giovane, tanta voglia di fare, di imparare. Sognavo una carriera da art director, una delle figure più carismatiche e affascinanti della Milano da bere socialista degli anni ‘80.
Mi lasciavano provare senza tante restrizioni e allora, fatto il mio dovere in camera oscura, mi davo da fare: qualche esecutivo, qualche bozzetto, qualche idea di layout. Fino al giorno in cui un cliente scelse la mia proposta per una pagina istituzionale. Ero così felice! Così accecato dalla gioia e dall’ingenuità da non accorgermi di aver offeso l’orgoglio e la vanità di grafica e art director.
Da quel giorno, Mario mi guardò con un occhio diverso, come di chi si è appena accorto di aver scovato per due soldi un quadro di pregio al mercatino della domenica. Anche se però rimanevo pur sempre l’addetto alla camera oscura.
Un lavoro di merda, quasi sempre al buio, fra esalazioni di acidi, ore e ore trascorse in compagnia di me stesso, dell’oscurità e del silenzio. Era diventato il mio regno, in cui nessuno osava avventurarsi e nel quale, tra una stampa e l’altra, avevo tempo per pensare e sognare.
Poi, dopo un anno o poco più, cominciò il declino inarrestabile. I pochi clienti si fecero ancora più rari: prima se ne andò l’art director, sostituita da un tizio di quelli "comunisti così!", democraticamente presuntuoso nella sua incapacità. Gran barbone alla Marx, e poca puntualità. Ora lavora in rai, democraticamente raccomandato dal cugino dirigente.
Di lì a poco se ne andarono sia lui, che aveva democraticamente capito che aria tirava, sia la grafica bruttina.
Per me non era così facile; non avevo ancora abbastanza esperienza e, soprattutto, nessun portfolio per potermi proporre in agenzie migliori, perciò dovetti subire la nuova art director: una vegetariana seguace di Sai Baba che si faceva chiamare Nishav Do, o qualcosa del genere. Ci siamo odiati dal primo momento. Non sopportavo la sua ridicola religione, le sue nenie irritanti, il tè, le tisane, il credere in concetti così assurdi e illogici, il suo essere così insensibilmente e ottusamente ostile nei miei confronti, la sua infinita presunzione umana e professionale, il suo sentirsi infinitamente superiore verso chiunque non fosse stato illuminato dalla sua stupida religione. Eppure, una delle massime più conosciute del suo maestro celebra la non violenza, l’amore, il rispetto: "Ama tutti, servi tutti - Aiuta sempre, non ferire mai". Le stesse cose del cristianesimo, salvo che poi quasi tutti si comportano come nel famoso proverbio: "Sabato al bordello, domenica a messa". O qualcosa del genere.
Qualche anno dopo, quel cialtrone di Sai Baba fu accusato di essere un volgare prestigiatore da fiera di paese, di molestare sessualmente gli adepti e di aver avuto un ruolo non ancora chiarito in un omicidio plurimo commesso presso il suo ashram nel 1993.
Andava un po’ meglio con Bantù, l’amica di Nishav Do, un’irsuta mezza rasta, mezza drogata, ma con un bel paio di tette sode e un carattere più incline al sorriso e la tolleranza.
In tutto ciò, il punto fermo è che rimasi sempre il ragazzo jolly, quello della camera oscura, malgrado avessi una mano quasi fatata nel realizzare i layout preferiti dai pochi clienti rimasti.
In fondo non me ne importava molto, la mia grande passione rimaneva la fotografia; come se non ne avessi avuto ancora abbastanza di tutte le ore passate in camera oscura.
Il declino non si arrestava e, ben presto, rimasi l’unico dipendente dell’agenzia. Toccava tutto a me: la camera oscura, i layout, gli esecutivi, l’assistente fotografo per il titolare che, nel frattempo, cercava disperatamente di diversificare la sua attività. Provò con la politica, spedendo a Roma la fidanzata in cerca di chissà quali appoggi. Invece, lei se la spassava con una specie di attivista comunista che, la sera e durante i fine settimana, subaffittava lo studio per vendere le enciclopedia della Utet.
Veramente un mezzo industrialotto della Lomellina che voleva buttarsi in politica venne a fare dei manifesti elettorali, ma alle elezioni fu sonoramente trombato, perciò, anche la politica andò a farsi benedire.
Poi fu la volta di un altro strano individuo, che acquistava sistemi hi-fi in Polonia per rivenderli in Italia. Era l’epoca in cui il dollaro valeva poco e niente e la Polonia comunista mica da ridere e, visto che pagava in dollari e rivendeva in lire, gli affari gli andavano piuttosto bene. Ma non a Mario, che veniva imbrogliato allegramente.
Tutto questo passava sotto i miei occhi come uno strano teatrino di umanità varia, compresa la ragazza che veniva a fare le pulizie: una rossa minuta che indossava sempre una minigonna di jeans. Quando puliva il soppalco, a volte riuscivo a spiarle le mutandine.
In fondo tutta questa situazione era alquanto bizzarra, e Mario, coinvolto in questo turbinio, riusciva quasi a farmi pena. Specialmente quando cercava di barcamenarsi fra i creditori che lo seguivano fin dentro lo studio. Come la padrona della profumeria che reclamava il saldo dei conti in sospeso di quella che, nel frattempo, era ormai l’ex fidanzata.
Mario era di un’ingenuità davvero incredibile: si domandava perché mai, da alcuni mesi non ricevesse più la copia di Playmen di Adelina Tattilo, amica di Bettino Craxi, che fece fortuna con fumetti e riviste erotiche. L’ingenuo non sospettava che dopo aver scoperto quali erano i giorni di consegna, ero io quello che la faceva invariabilmente sparire.
Penso che, sotto sotto, si fosse anche affezionato a me, visto che ero l’unico rimasto ad ascoltare le storie della guerra in Grecia e Albania, o dell'enorme tumore che avevano asportato alla moglie, che suo padre raccontava ogni qual volta capitava in studio, o perché, fra tutti quanti, ero l’unico a essergli rimasto più o meno fedele.
Tutto questo è durato, credo, per un paio d’anni, fino a che, senza più una lira, Mario chiuse definitivamente lo studio, cedendolo a quei pirati che nel giro di qualche mese lo avevano mandato in rovina e io mi sono ritrovato punto e a capo.

martedì 4 maggio 2010

Senza capo né coda

Non riesco a capire questa storia dei blog che si leggono al contrario. È come leggere un libro dalla fine, non per spiare come si conclude, ma perché è fatto così. 
Per quale motivo dovrei leggere un diario dalla fine, sempre che un diario possa mai avere fine e non capirne le motivazioni, la spinta iniziale, il suo piccolo big bang? Forse perché il blog non è un diario, ma qualcosa di più simile a un prodotto usa e getta, un fast food della parola, qualcosa che può essere interessante oggi, ma domani è già cosa vecchia, dimenticata. Memorie affidate a impulsi elettrici e non alla frusciante carta, al tangibile inchiostro.

lunedì 3 maggio 2010

Qual è la cosa che sai fare meglio?

Mia moglie dipinge, e mi surclassa come Coppi straccerebbe un bambino sul triciclo.
Lei dice che avrei avuto le potenzialità per essere nell'ordine: uno scrittore, un paroliere, un fotografo, un cantante, un attore, un pittore.
Invece sono un grande bluff, un camaleonte che, come lo Zelig di Woody Allen, è così insicuro da non poter fare altro che trasformarsi, di volta in volta, in tutto ciò che gli altri vorrebbero lui fosse.
Lei è creativa, libera, ha un senso del colore e della pennellata che io non potrei nemmeno immaginare. È lei, non io, che potrebbe fare qualsiasi cosa volesse. Io sono una scimmietta ammaestrata, capace di imitare ciò che ha visto fare ad altri.
Ieri mia figlia ha proposto a tutta la famiglia una domanda che, a prima vista, potrebbe sembrare un giochino innocuo: "Quali sono le cose che sai fare meglio?".
Ho risposto con una delle mie solite battute stupide: "I bambini!". E, fra me e me, ho pensato che è davvero la cosa migliore che ho fatto in tutta la mia vita. Anche se il mio contributo si è limitato a un istante di piacere e uno schizzetto di qualcosa che non ha un bell'aspetto e un odore ancor meno gradevole.
Quindi, anche in questo caso, non sono io ad aver fatto qualcosa, o averla fatta meglio di altre.
È mia moglie, sangue del suo sangue, carne della sua carne. Io, al massimo, ho pagato il mantenimento, i vestiti, i giocattoli, l'educazione. Ma non è la stessa cosa che fabbricare bambini. Non è saper fare qualcosa e, quel poco che ho fatto, non l'ho fatto né meglio né peggio di qualsiasi altro padre al mondo.
In effetti non so quale sia la cosa che so fare meglio. La mia sensazione è la stessa della canzone dei Ricchi e Poveri: "So far tutto o forse niente, da domani si vedrà". Solo che a forza di aspettare un domani che non arriva mai, ho abbondantemente oltrepassato la maggior parte della mia vita senza essere ancora in grado di rispondere alla semplice domanda di una bambina di nove anni: "Qual è la cosa che sai fare meglio?".