venerdì 8 luglio 2011

Le unghie dei piedi, l'inferno e il paradiso

Certe volte mi ritrovo con le unghie dei piedi oscenamente lunghe. Ma proprio lunghe; sembrano quasi artigli.
Non c’è una ragione precisa, e non credo sia una forma di idiosincrasia dovuta alla mania per la pulizia tipica di mia madre.
Non credo alle spiegazioni semplicistiche “causa-effetto”, come quella accampata da un professore di architettura al liceo, che pretendeva di giustificare le sue unghie sporche col fatto che la madre lo costringesse a pulirle con lo spazzolino tutti i giorni.
Penso sia più plausibile una mia innata pigrizia verso la cura del corpo e, in parte, anche dell’anima.
Dicono che non è possibile amare se non si è in pace con sé stessi. Se è così, allora non dovrei amare nessuno, perché non solo non sono mai stato in pace con me stesso, ma addirittura un po’ mi odio.
Mi viene in mente mia nonna, che aveva un negozio da calzolaia in viale Monza quando ci passavano ancora i tram, e i platani napoleonici rinfrescavano le serate estive. Diceva che ogni tanto entrava ancora qualche contadina per farsi fare gli zoccoli, e avevano le unghie degli alluci così lunghe e sporche, che una volta gliele ha tagliate con le tronchesi fingendo di sbagliarsi.
Sembra incredibile, ma mia nonna era davvero così. Se non liberavo in fretta il bagno era capace di innaffiarmi con la canna della lavatrice, altre volte invece, per divertirmi, faceva suonare come una trombetta i fili d’erba.
Comunque non credo ci sia un motivo preciso per cui odio così tanto tagliarmi le unghie dei piedi. È vero però che da piccolo ero terrorizzato da quelle storie di unghie incarnite che si sentivano in giro. Anche mio cugino aveva dovuto farsi incidere un alluce infetto, e io ne ero rimasto scioccato. Ma ora sono cresciuto e queste cose non mi fanno più paura; è che proprio non mi va di perdere tempo in un’attività così faticosa - provate voi a tagliarvi le unghie con una pancia da babbo natale - e francamente inutile.
Non basta a convincermi nemmeno lo spauracchio usato da mamme e nonne per essere sempre puliti e in ordine: “E se per caso ti senti male o ti succede qualcosa mentre sei fuori? Non vorrai mica fare la figura dello sozzone mentre ti spogliano all’ospedale?”. Questo è quello che mi sentivo ripetere un’infinità di volte, proprio come era impossibile evitare l’ispezione a vestiti, unghie, capelli, orecchie, piedi, prima di uscire per andare a scuola. “Non vorrai mica che ti cresca il prezzemolo nelle orecchie vero?”.
O forse non le taglio perché il lavoro è - per fortuna - diventato così asfissiante che ho perso anche la cognizione del tempo. Jean-Cul - l’editore francese - è così lanciato che non ho più tempo per fare altro. Dieci ore al giorno davanti al computer sono diventate la norma e, durante le chiusure, tirare le undici di sera è una prassi consolidata.
A quanto pare, l’inferno sembra finito, anche se non sono più così certo del confine tra inferno e paradiso, e quale sia di preciso l’uno e l’altro.

domenica 26 giugno 2011

Il Signore del Male

Mia moglie dice che sono un po’ “sopra le righe”.
Può darsi, questo periodo mi ha provato piuttosto duramente e non è facile per uno come me passare dal pianto al riso, o dalla tristezza alla gioia, come schiacciare un interruttore. Non so se è così anche per il resto del mondo; per me il mondo sono i miei figli, la mia famiglia, mia moglie e ora, anche un cane, l’ultima novità di questo periodo così concitato e confuso.
Il contratto con Jean-Cul - l’editore francese - almeno fino a dicembre è stato firmato, il sigaro che tanto ha aspettato nell’humidor, è stato fumato proprio oggi, ma la paura non è ancora svanita.
Non so nemmeno io come mi sento; ogni tanto mi prende ancora il groppo allo stomaco e, specialmente la notte, ho ancora qualche piccolo attacco di panico. Mi sembra ancora incredibile la fortuna che ci è capitata così improvvisamente, non riesco a capacitarmi, non riesco a rilassarmi, non riesco a gioire come dovrei.
Questa mattina, mentre andavo a comprare il giornale, sono passato sotto alla finestra della casa in cui, più di trentacinque anni fa, abitavano due fratelli che conoscevo di vista. Il più piccolo - più o meno mio coetaneo - era strano, manesco, incomprensibile anche per uno come me, cresciuto in quella specie di far west che era la periferia milanese a ridosso di Sesto San Giovanni. Ogni tanto però era d’obbligo parlarci, o almeno scambiarci due parole per non farselo nemico. 
Passando sotto quelle finestre, che oggi sono occupate da chissà chi, mi è tornato in mente di quando mi fermò proprio mentre passavo lì sotto, chiedendomi, con un fare tra il minaccioso e l’amichevole, se io c’avevo lo spiuting. Che potevo dire se non che non sapessi di cosa stava parlando? Lui rispose con un tono leggermente spazientito: “Lo spiuting! Non sai cos’è lo spiuting? - così, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ha sputato sul marciapiede mezzo litro di saliva rossastra e schiumosa. “Vedi? È questo lo spiuting. C’è chi lo sa fare e chi no. Tu lo sai fare?”.
“Beh - ho risposto - lo so fare anch’io, ma il mio non è colorato. Tu come fai?”.
“Eh, bisogna saperlo fare, e poi c’è il segreto. Devi ciucciare un ghiacciolo, così quando sputi, la saliva ha lo stesso colore. Allora, tu ce l’hai lo spiuting?”.
Questa conversazione mi era sembrata così scema e, al contempo, così surreale, che l’unica cosa che mi premeva in quel momento era togliermi di torno nel modo più veloce e dignitoso possibile. Non ricordo esattamente cosa dissi; forse qualcosa come: “Ah sì, ho capito, voglio provarci anch’io”.
Un ricordo stupido, ne convengo, ma non posso farci niente. È un periodo in cui, come con le madeleine per Proust, basta un niente per far riaffiorare alla memoria cose stupide e affogate in qualche angolo del cervello da chissà quanto tempo. 
Si dice che la nostra mente operi una selezione dei ricordi che vanno conservati rispetto a quelli che invece sono destinati all'oblio, perché, come in un hard disk, lo spazio è quel che è, e non è possibile conservare tutto quanto. Ma allora, cos’ha di così importante un episodio apparentemente futile come questo?
Forse ha ragione mia moglie, sono sopra le righe e il mio cervello avrebbe bisogno di un buon antivirus, o almeno una deframmentazione del disco. In effetti forse non riesce a comprendere come mai, quando ero ancora nel pieno di ciò che definivo inferno, ero padrone del mio tempo, sperimentavo nuove cose, passavo la giornata con la mia famiglia, mentre, ora che dovrei vivere finalmente nel paradiso del lavoro, non ho più tempo per me stesso o chiunque altro. Non è che ho commesso un’inversione dei termini? Non è che, come nel Il Signore del Male di John Carpenter, quello che sembrava il bene, in realtà non era altro che il male travestito da agnello?

domenica 19 giugno 2011

Sarà, ma (quasi) non ci credo

È incredibile come, a volte, cose che parevano immutabili, cambino così repentinamente. Anni in cui nulla accade, in cui tutto si sussegue monotono e sempre uguale, vengono improvvisamente spazzati via in pochi giorni, o settimane; al massimo qualche mese.
Vivo nello stesso quartiere da oltre quarant’anni. Lo ricordo assolato e silenzioso nei pomeriggi estivi durante le vacanze scolastiche; oppure freddo e grigio negli inverni infiniti di austerity e terrorismo. Ma sempre immutabile; le stesse case, le medesime fabbriche, i soliti campetti malridotti. Poi, come una bella addormentata che si risveglia sotto baci di cemento, le fabbriche sono state demolite, le vecchie case sventrate e i campetti violentati da nuovi condomini, spuntati come i ponti del diavolo che ogni paese italiano racconta costruiti dal maligno nel corso di una sola notte.
Se sia bene o male non lo so dire; quello che è certo, è che il quartiere ha cambiato il suo volto immutabile nel giro di pochi anni. Ciò che credevo immodificabile si è modificato, ciò che credevo eterno, non lo è stato.
È facile ora, col senno di poi, dire che anche la mia situazione, che pareva così nera e fossilizzata in un voodoo senza fine, è finalmente cambiata. Quasi due anni di disperazione e pessimismo totale, sembrano  avviarsi a esaurimento e, per una curiosa combinazione, tutto questo coincide con un mutamento politico negli assetti della città e di un’Italia intera che sembra finalmente risvegliarsi da un torpore quasi mortale. Via gli affaristi snob, a casa chi pensava di arricchirsi con l’atomo, o vendendo un bene prezioso come l’acqua.
Come per il mio lavoro, non so dire se e quanto durerà questo vento allegro e profumato di nuove cose e freschi entusiasmi. Ciò che al momento è la realtà, che io stesso stento a credere, è che mi sono ritrovato nuovamente art director di una piccola rivista, e che ne curerò anche l’edizione francese; e che sono art director anche di un’altro giornale che l’ex direttore è finalmente riuscito a piazzare a qualcuna delle sue infinite conoscenze e che, se tutto va bene, sarò nuovamente in grado di mantenere la mia famiglia in modo dignitoso.
Tutto come prima allora? No, non credo proprio. La lezione è stata dura e non è detto che sia finita così presto. Robert Heinlein scriveva che La Luna è una severa maestra, ma la vita lo è ancora di più. Come ogni malattia lascia sempre qualche parte del nostro corpo indebolita rispetto a prima della sua comparsa, anche questa esperienza lascerà le sue cicatrici. La paura di ricadere nel baratro non scomparirà così facilmente, e anche il modo di vedere le cose non potrà più essere lo stesso.
Un fatto inconfutabile è che non ho ancora firmato nessun contratto. Solo quando questo accadrà potrò tirare fuori dall’humidor il Cohiba Siglo II e stappare il moscato del trentino. Ricordandomi però che nulla dura in eterno, niente è immutabile e che lo scalino che potrebbe farmi inciampare nuovamente è lì che aspetta, ben nascosto fra tutti gli altri.

giovedì 16 giugno 2011

Sono ancora qua

Sì, ci sono ancora. Con la testa dolorante per il poco dormire e il troppo lavoro. Senza il tempo di pensare a cosa sto facendo. Senza aver ancora visto una lira.
Vi terrò informati...

lunedì 6 giugno 2011

Quasi arrivederci

La settimana appena trascorsa è stata la più strana, faticosa, eccitante, inquietante e incredibile che mi sia capitata da molto tempo a questa parte.
Iniziata per davvero solo martedì scorso, con la visita di Jean-Cul, l’editore francese, e la sua coordinatrice.
Abbiamo messo in piedi il solito teatrino: l’enorme robot di cartapesta sul pianerottolo, proprio come si vede in certe agenzie, il caffé espresso con le bustine di zucchero e il vassoio, le bottigliette di minerale, i vestiti buoni, le telefonate fasulle. È divertente e, allo stesso tempo, meschino. Una insulsa commedia, una recita da scuola elemetare che però sembra dare i suoi frutti.
Jean-Cul si è ormai convinto ad affidarci anche l’edizione francese del suo giornale, tanto che, nei giorni successivi, abbiamo parlato e contrattato di compensi, chiusure, ulteriori progetti.
In effetti sono su di giri, non pensavo che le cose sarebbero cambiate così in fretta ma, anche se ho già pronti nell’humidor tre Cohiba Siglo II, non mi sentirò tranquillo fino a che non avrò la firma di Jean-Cul sul mio contratto.
Per dirla fino in fondo, l’assunzione di un impegno così grande mi agita come un temporale: dovrei essere felice, eppure provo una strana oppressione alla bocca dello stomaco. Paura? Preoccupazione? Felicità? Non lo so, mi torna in mente il bel commento su questo blog di Sara, una ragazza coraggiosa che ha mollato tutto per vivere diversamente, libera dalle logiche che io mi sento costretto a seguire, e mi domando se ricadere in questo vortice sia ciò che voglio veramente. In fondo conosco già anche la risposta, ed è no. Non è questo che voglio davvero, ma non ho scelta. I tentativi di vivere la mia vita in modo diverso, senza la pazzia di questi orari insensati, del lavoro festivo, del dover essere imprenditore per forza, non hanno avuto riscontro. Si vede che non era cosa.
Quello che invece continua a meravigliarmi è la sincronia con quello che sta accadendo, anzi, è già accaduto a Milano. Un cambiamento impensabile che però avevo già avvertito nell’aria. Un cambiamento che, come nel lavoro, un po’ mi fa paura, ma che più di tutto mi riaccende di speranza.
Finalmente, incrociando le dita, questo blog sta per raggiungere il suo scopo, il suo compimento, e questo, come tante altre cose della vita, mi eccita e mi deprime contemporaneamente. Ormai mi ci sono affezionato, e mi sono affezionato anche a chi lo ha seguito fino ad ora. Quindi non chiuderò. Intanto perché è ancora troppo presto per cantare vittoria e proclamare al mondo intero l’uscita dall’inferno, e poi perché qualcosa da dire ancora ce l’ho. Semplicemente cambierà da una cadenza quasi quotidiana, a una variabile, dettata dagli impegni di lavoro.

domenica 29 maggio 2011

O la va, o la spacca!

La proposta di Jean-Cul arriva inaspettata come un infarto di prima mattina. Vuole sapere se, oltre alla "localizzazione" della rivista, accetteremmo di realizzare anche la versione originale francese.
Non è soddisfatto dei suoi grafici, dice che non capiscono il senso del giornale e non hanno un briciolo di buon gusto o creatività. Però la mia risposta deve essere immediata e, in caso affermativo, ci vedremo per una riunione martedì mattina.
In realtà non me l’aspettavo. Mi crogiolavo nella fanghiglia tiepida di una localizzazione che, sebbene portasse un’infinità di problemi e rotture di palle, poggiava comunque su una base, seppur minima.
E poi con l’ex direttore le cose hanno preso finalmente una piega promettente, come l’arcobaleno che l’altra sera sembrava infondere la speranza in qualcosa di meglio. La rivistina legata agli eventi è ormai cosa sicura, e altri progetti stanno nascendo sotto una stella che appare più luminosa del solito.
Caricarmi sul groppone la responsabilità totale di una rivista, in cui ogni pagina nasce da grandi travagli e innumerevoli ripensamenti, non mi entusiasma così tanto. Ma penso anche a questo anno e mezzo di desolazione e vuoto, alle depressioni a singhiozzo, alle giornate di disperazione, alle speranze sfumate e al futuro incerto e mi dò dello stronzo.
Questa potrebbe essere davvero la fine di un incubo da mezza età, l’inizio di un Rinascimento nel quale non speravo più.
Non riesco a non pensare a quanto tutto questo assomigli all’illusione che Milano sta vivendo in queste ore, alla voglia di rivincita mia e di questa città così maltrattata.
Milano è diventata terribilmente brutta, maleducata, triste e arrogante, ma la sua anima non è questa. Milano è una città multietnica, amorevole nei suoi inverni tristi e nebbiosi che ti abbracciano e ti nascondono, entusiasta e allegra durante le rare giornate pulite e serene, così belle che ti impediscono di odiare questa città dal fascino tossico e sottile.
Non so se il vento è cambiato davvero, o se mai cambierà, ma sento qualcosa nell’aria, nelle facce della gente. Un’elettricità positiva, un orgoglio di essere milanese che per tanto tempo si era nascosto chissà dove.
Allora perché pensarci tanto? Io mi butto. Dico di sì a Jean-Cul, dico che non ci sono problemi, che di giornali come il suo ne possiamo fare quanti ne vogliamo. Ma, francamente, mi sto cagando sotto. Ho una paura fottuta di ritrovarmi inchiodato davanti al computer per dieci ore al giorno o anche più. Anzi, sono attanagliato dal panico, sono stordito e al contempo preso da una stupida euforia. La testa galoppa senza sosta, giorno e notte, organizza collaboratori e fornitori, studia strategie fiscali, elabora tariffe e preventivi, contratti e clausole, in una girandola che a me pare una minacciosa ed enorme pala eolica.
Fanculo, ci provo. Anzi, già pregusto il costosissimo sigaro cubano e la bottiglia di champagne con cui festeggerò la firma del contratto. E se andasse male, che mai potrà succedere di peggio rispetto a ciò che ho sopportato fino a oggi?

giovedì 26 maggio 2011

Vediamo 'sto stupido dove vuole arrivare!

I rapporti con l’editore francese, che per comodità e poco rispetto, chiamerò Jean-Cul, si stanno facendo quanto mai tragicomici.
Lui è un caffèespresso-dipendente dallo sguardo allucinato e le movenze da elefante al festival del domino con effetto a catena. Rovescia l’acqua dai bicchieri o fa cadere telefoni altrui mentre raccoglie una rivista, proprio come se non avesse la percezione esatta delle distanze. Sarà la caffeina o, come dice mia moglie, la cocaina. Niente di più facile.
È il perfetto archetipo dell’indeciso: ciò che ieri andava bene, oggi è da cambiare, quello che è cambiato lo preferiva com’era prima.
All’inizio si doveva semplicemente “localizzare” la rivista, adesso vuole qualche piccola sistemazione in alcuni articoli che non gli piacciono così come sono usciti, però quando li vede, vorrebbe che fossero “graficamente più singolari”. 
La coordinatrice - che si è scusata per il comportamento del traduttore - dice che Jean-Cul sta cercando di marciarci sopra. In fondo, lamentandosi degli scontorni delle foto che andrebbero sistemati, delle pagine più "graficamente singolari", o delle  cromie da calibrare, non fa altro che costruire un restyling pagato sì e no, nascondendosi dietro al paravento che però le font non si cambiano, manteniamo quelle originali.
Non so, ma la mia piccola e stupida testolina non riesce a capire cos’abbia in mente questo Jean-Cul, o meglio, forse comincio a intuirlo seppur vagamente. Un francese che vuole lanciare una rivista che è impossibile definire: di moda, di consigli pratici, di copiature del look di attricette misconosciute. Senza la minima ricerca di marketing, senza lanci pubblicitari, senza avvalersi di qualcuno che abbia una vaga cognizione della moda italiana e il mondo dell’editoria. Senza un restyling degno di questo nome, senza una redazione che sappia scrivere "fa" senza l’accento sulla a, o che sappia come battere una "È" maiuscola accentata senza usare l’apostrofo, o che scrive p/e per dire pimavera/estate.
Tutto questo mi fa arrivare a fine giornata prosciugato di ogni energia, specialmente mentale. In casa è tutto un parlar francese maccheronico come: va da via el cül, tut bòn, tartufòn, Sìlvie Vartàn e roba simile.
Ormai il gioco è diventato così perverso che, come Totò nello sketch su Pasquale, continuo a pensare: “Chissà ‘sto stupido dove vuole arrivare!”.

mercoledì 25 maggio 2011

Gli occhiali

La prima volta che ho dovuto comprarmi gli occhiali per leggere è stato cinque anni fa. Fino ad allora mi sono sempre vantato dei miei dieci decimi, di eredità paterna.
All’inizio è stato anche divertente avere questi occhiali con cui giocherellare a fare l’intellettuale. Sì, sono ancora uno di quegli ignoranti patetici che si sentivano interessanti indossando gli occhiali; come il signor dottore, o il farmacista del paese, o il maestro elementare delle nostre nonne. O, peggio ancora, come i khmer rossi che sterminarono migliaia di cambogiani muniti di occhiali perché considerati dei pericolosi intellettuali.
Poi, quei primi occhiali da 0,50 sono diventati insufficienti; mi incazzavo pensando che i quotidiani facessero a gara per scrivere gli articoli in corpo sei, invece ero io che perdevo la capacità di leggerli.
Ora col mio nuovo paio di occhiali - anzi di lenti, perché la montatura è sempre la stessa - nuovi fiammanti, riesco a leggere anche l’analisi fisico-chimica dell’etichetta dell’acqua minerale.
Questi cinque anni di lavoro davanti al computer mi sono costati una diottria secca. Da 0,50 a 1,50. Tutto quanto solo per impaginare stupidi giornali di poveri stronzi che non fanno altro che cantarsela e suonarsela a vicenda.

martedì 24 maggio 2011

Cominciamo male...

Alle sei e quindici la signora Italia - dirimpettaia ultrasettantenne - è già sveglia. 
Mi sono alzato per il caldo e anche per la rabbia. Non la rabbia di non poter dormire - Voyager di Giacobbo è un ottimo sonnifero: alle dieci di ieri sera già russavo sul divano come una balena spiaggiata - ma quella ancora schiumosa come una birra appena versata che ha cominciato a montare da ieri sera.
Ricevo una mail da chi si occupa della traduzione e l’adattamento dei testi della rivista francese. Ci accusa di aver tagliato “arbitrariamente e a capocchia” i testi degli impaginati, ci spiega che siamo noi a dover adattare le pagine alle traduzioni, anche quando sono esattamente il doppio rispetto agli originali, che non dobbiamo agire meccanicamente ma ragionare e via di seguito.
Onestamente, non mi era mai capitato di imbattermi in tanta arroganza e cialtroneria.
Fare un giornale è un’operazione di alta diplomazia; chi scrive un testo lo ritiene perfetto e intoccabile, chi impagina lo fa come se ogni servizio dovesse essere esposto alla galleria d’arte moderna, il caposervizio e l’art director cercano di arrivare a un compromesso che salvi capra e cavoli, soprattutto per rispetto verso chi si ritroverà il giornale fra le mani.
Spesso le redazioni sono teatro di tragedie, altre volte di commedie dell’assurdo, ma poi, tutti devono piegare la testa per passare sotto le forche caudine della chiusura del numero.
In tutto ciò, l’unico imperatore, l’unico dittatore a cui si deve cieca obbedienza, è il direttore, nessun altro.
Quello che penso è che, se cominciamo così, cominciamo davvero male.

lunedì 23 maggio 2011

Inferno, purgatorio, paradiso

Non so se essere felice oppure no. Non della mia vita personale, quella va a gonfie vele, o almeno, fila senza grossi guai, il che è sicuramente già una bella cosa.
Parlo del lavoro. Quello che c’è, quello che non c’è, quello che potrebbe esserci.
Sono alcuni giorni che non mi stacco dal computer prima delle sette e mezzo di sera, che lavoro anche di sabato, che rispondo al telefono all’ex direttore di domenica. Ieri, fra la una e la una e venti, mi ha chiamato almeno quattro volte, facendomi pranzare a singhiozzo. 
Qualche anno fa non avrei nemmeno risposto al telefono, oggi mi sento come nella bella recensione di The Company Men su Mymovies (http://www.mymovies.it/film/2010/thecompanymen/): 
“John Welles esplora l’impotenza della perdita del lavoro, mentre esamina come la rabbia, la paura e l’umiltà forzata possono sostituire la sicurezza dei ‘normali’”. 
Ecco, è l’ultima frase quella che mi ha colpito nel profondo, "l’umiltà forzata", che sostituisce, in chi è alla ricerca di un lavoro, la sicurezza del “normale”.
La giusta definizione per chi, come me, è alla disperata ricerca della propria normalità, dell’illusione di essere parte di una grande macchina, un piccolo ingranaggio con una sua collocazione ben precisa, un suo compito minimo ma funzionale, e la scoperta improvvisa che la macchina funziona anche senza la mia rotellina, che comunque va avanti e che quel piccolo ingranaggio può essere sostituito senza problemi, senza intoppi.
In queste ultime settimane di improvvisa operosità sento montare dentro l’orgoglio di essere nuovamente una parte della macchina, la sera sono così soddisfatto della mia stanchezza che è come se fosse sempre natale. 
Ma c’è un ma. Intanto è robetta. La rivista di barche per ricconi sfondati sarà nelle mie mani per un solo numero ancora, poi il mistero rimane fitto. Quella che si occupa di eventi e per la quale l’ex direttore ha firmato un contratto (ma io no), economicamente è ancora ben poca cosa, e dall’editore francese e la localizzazione della sua rivista, non è ancora ben chiaro cosa ne sarà in futuro.
Tanto rumore per nulla insomma. O meglio, tanto lavoro, ma nessuna certezza. Intendiamoci, rispetto al vuoto cosmico dell’ultimo anno, è una calda coperta di lana in una notte gelida, ma non è certo ancora la certezza di avere un tetto sulla testa.
Questo blog si chiama Uomo in Mare; forse avrei dovuto chiamarlo all’Inferno e Ritorno, ma mi sembrava, così facendo, di essere fin troppo ottimista e allora, per scaramanzia, ho mantenuto il nome originario che nacque prima ancora della tempesta lavorativa. Diciamo che, per ora, questo viaggio all’inferno - senza nemmeno la compagnia di un Virgilio - si sta forse avviando verso il purgatorio, ma si trova ancora molto lontano anche dalla sola idea del paradiso.

giovedì 19 maggio 2011

Senti che bel vento...

Quando C. era piccolo, guardavamo spesso il cartone animato intitolato La leggenda del Vento del Nord. La storia, a volte un po’ pallosa, dei fratellini Anna e Leo che, con l’aiuto del loro piccolo amico indiano Watuna, riescono a sconfiggere il terribile Vento del Nord, che ha assunto le sembianze del perfido Attanasio e non intende rinunciare così facilmente al suo potere...
A parte questo, pare che si cominci a lavorare con l’editore francese.
Per ora si tratta di realizzare la “localizzazione” della rivista originale, apportando qualche miglioria in corsa. Continuando con la metafora sportiva, sarebbe un po’ come pretendere di cambiare le gomme alla moto mentre corre a 300 all’ora.
È chiaro che è un modo come un altro per risparmiare i soldi di un progetto grafico organico e completo, ma non mi lamento. Se tutto funzionerà come deve, si andrà avanti, altrimenti pazienza.
Devo dire che questa novità estremamente piacevole, unita agli speciali in collaborazione con l’ex direttore, apre una prospettiva leggermente più rosea. Non ci risolve la vita, ma forse il vento comincia a cambiare anche per noi.

lunedì 16 maggio 2011

Il futuro è quel che è...

Se c’è qualcosa di cui forse devo rimproverarmi è l’aver sempre pensato troppo al futuro.
Cosa farò da grande? Come sarà il mondo domani? Che cosa troverò dopo la scuola? Come sarà, se ci sarà, la mia famiglia, la mia vita, il mio futuro?
Appena potrò permettermelo voglio una grande libreria, in una casa fatta come dico io. Appena ci siamo sistemati col lavoro faremo questo e quest’altro. Quando i bambini saranno più grandi, allora li porteremo in quel posto e anche in quell’altro, dove ci siamo divertiti tanto da giovani.
Tanti domani, tanti progetti, tante fantasticherie, tante speranze.
Il risultato? Che spesso ci si dimentica di vivere il presente.
Da piccolo, la fretta di crescere non era mai abbastanza. Non bastava dire di avere otto o dieci anni: si diceva otto anni e mezzo, o quasi undici, in una fretta di mangiarsi il futuro, prenderlo per la camicia, rallentarlo, illudersi di raggiungerlo.
I quattordici anni per il motorino, i sedici per il patentino, i diciotto per l’automobile, sposarsi per raggiungere l’indipendenza di una vita propria, di una vera famiglia. Chiedersi a che età si diventa uomini per non essere considerati più ragazzi.
Ho sempre pensato al futuro come se fossi immortale, un super eroe della Marvel, che so, un Thor, un Silver Surfer, come se il tempo non passasse per me. Come se l’unica cosa veramente importante fosse ciò che deve ancora accadere e non quello che vivo adesso, ora.
Forse è per questo che, come dice Berlusconi, non mi piace quello che vedo quando mi guardo allo specchio.
Solo ieri ero un ragazzetto insicuro che non sapeva cosa sarebbe stato della propria vita, e oggi, chi è quella faccia coi capelli brizzolati e la barba sale e pepe che mi sta guardando?
Chi mi ha rubato tutto il tempo che sta fra questi estremi? Quello che è successo lo so, ma preso com’ero dal luccicante futuro, ho come l’impressione di non aver sfruttato come si deve un passato spesso remoto.

sabato 14 maggio 2011

Aspettando in riva al fiume

Ieri mattina appuntamento all'istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani. 
Vogliono che renda una dichiarazione sui miei rapporti col mafioso pelato: tipo di lavoro, rapporto di subordinazione e compagnia bella. Il loro intento sarebbe quello di dimostrare che, benché svolgessi il mio lavoro da casa con una certa autonomia, in verità il mio fosse un rapporto subordinato, essendo sempre disponibile secondo gli orari dell’azienda, comprese le chiusure estive e dovendo comunque rapportarmi con la redazione a ogni ora del giorno eccetera eccetera.
È strano come quando gli interessi si spostino dall’associato all’associazione, cambino anche le modalità di tutela. 
Quando ho disperatamente cercato di far valere i miei diritti (sacrosanti) sulle gabbie sorgenti che ho creato e usato per il mio lavoro, le richieste probatorie erano praticamente impossibili da esaudire, mentre ora che è l’Istituto ad andare al recupero di contributi e balle varie, tutto sembra così facile e trasparente.
Per quel che mi costa, ho fornito la mia bella dichiarazione. 
Non è che abbiano dovuto fare chissà quale opera di convinzione, basta e avanza il mio dente avvelenato, anche se il veleno va ormai diluendosi sempre più nell’oblio.
La cosa che invece mi ha meravigliato, è stata apprendere che molti dei fuoriusciti - volenti o nolenti - dall’azienda, spesso si sono rifiutati di fornire qualsiasi dichiarazione. Il motivo è, direi, più che evidente: la paura di incorrere in rappresaglie da parte di chi si vanta di nutrire numerose conoscenze nell’ambiente. Credo abbia avuto il sopravvento la paura di essere sputtanati sul mercato, il terrore che, e qui non possono che tornare alla mente i toni e le intimidazioni non definibili in altro modo se non mafiose, che l’emerito presidente dell’azienda porrebbe in atto verso chiunque osi anche solo esprimere quella che altro non è se non la verità nuda e cruda.
Tutte quelle lamentele, quelle recriminazioni e maldicenze che dovevo ascoltare dalla redazione durante le telefonate di lavoro, sono improvvisamente sparite come un ghiacciolo ad agosto. 
Nessuno parla, nessuno ha il coraggio di sputtanare situazioni incrostate dalle innumerevoli leggi che permettono a gente come il mafioso pelato di sfruttare, spremere e buttare nell’immondizia gente che vorrebbe solo lavorare in pace.
Per quel che mi riguarda, ho sempre pagato personalmente, e molto salate, tutte le prese di posizione, ma non per questo penso si debba tacere di fronte alla prepotenza, al ricatto, all’intimidazione. 
Ho fornito la mia dichiarazione senza reticenze e denunciato una situazione che è diventata regola nel mondo del lavoro. Le conseguenze non potranno certo essere peggiori di quelle che ho dovuto sopportare fino ad ora. Non sono uno stupido, so che è stata fatta tabula rasa intorno a me e il mio lavoro, ma come mi sono sempre guadagnato da vivere con le mie sole forze, credo che anche questa volta terrò la schiena dritta.
Se andrà bene, potrò recuperare tutti quei contributi pensionistici che ho sempre versato in prima persona, se va male, farò infuriare ancora di più quel piccolo ometto presuntuoso, e questo non voglio perdermelo per tutto l’oro del mondo.

giovedì 12 maggio 2011

Il paradosso del mentitore

Avrò anche compiuto quarantanove anni - e qui potrei citare la logora storiella di ottimisti e pessimisti. Sapete, il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Beh, c’è poco da essere ottimisti, perché a questa età, il bicchiere tende sicuramente al mezzo vuoto - ma il mondo lo capisco sempre meno.
Dell’editore francese avevo parlato in “Chapeu” e in “Grazie dio”. In quest’ultimo post, con la solita megalomania, mi ero addirittura lanciato in un coccodrillo commemorativo sulla perdita del lavoro. E il lavoro era perso, non c’è ombra di dubbio, perché quando qualcuno ti dice testualmente:
“...la decisione è stata presa ieri pomeriggio. Purtroppo devo comunicarti che abbiamo affidato il lavoro ad un’altra agenzia”.
Mi pare che ci sia poco da sperare o da recriminare.
Invece no, siamo noi a non aver capito, perché proprio ieri pomeriggio, mentre ero sdraiato sulla poltrona del dentista con in bocca due specilli, una matrice e il trapano, ha chiamato l’assistente dell’editore per chiederci se fossimo disponibili a impaginare un numero dell’edizione italiana del giornale. 
In pratica si tratterebbe di lavorare sugli impaginati francesi sostituendo esclusivamente il testo e una certa percentuale di fotografie.
“Ma scusi, non avevate deciso di affidare il lavoro ad un’altra agenzia?”. Non siamo riusciti a trattenerci dal dire.
“Sono mortificata - fa lei - ma l’editore è molto indeciso e piuttosto insicuro, so di non aver fatto una bella figura, ma le assicuro che in effetti non c’è ancora niente di definitivo, tutto è ancora da decidere”.
Beh, allora ci hanno preso per il culo la prima volta, oppure la prima volta hanno detto la verità e ci stanno prendendo per il culo adesso.
Mi spiego meglio, potrebbe essere che effettivamente un’altra agenzia stia lavorando al restyling mentre, nel frattempo, l’editore vuole testare il mercato italiano con un numero della rivista che è solo la traduzione dell’edizione francese...
Mi sembra uno di quei paradossi filosofici, tipo quello del mentitore, quello di Epimenide di Creta - cretese egli stesso - che enuncia: “Tutti i cretesi sono bugiardi” con le conseguenze che ben potete immaginare da voi.
Ma perché tutto deve essere così complicato? Perché nessuno riesce a dire la verità? 
Siamo davvero diventati così meschini, mentitori per interesse, compiacenza o vigliaccheria?
Venerdì vedrò nuovamente l’editore francese e, statene certi, non sarò certo io a mentire, anzi, dirò pane al pane e vino al vino e vada come vada.

PS: grazie a tutti per i vostri auguri, siete così riservati e discreti che a volte dimentico che non sto scrivendo sul diario che tengo sotto al letto.

mercoledì 11 maggio 2011

49 motivi per essere felici

Oggi compio quarantanove anni. 
Non lo dico per avere auguri, o quelle solite, stupide frasette con trenta punti escamativi, anzi, non c’è nemmeno una ragione precisa per la quale lo dico.
Vedrò di godere quest’ultimo anno che mi separa dai cinquanta con un certo disincanto. 
In fondo mi consolo pensando di essere un coetaneo di quello stronzetto di Tom Cruise, o dei Beatles se non si fossero sciolti.
Quarantanove anni: la stessa età in cui mio padre ha avuto il primo infarto, gli stessi di quella specie di ranocchietta palestrata di Demi Moore.
Li festeggio proprio nel giorno in cui, secondo un vecchio pazzo di nome Raffaele Bendandi, Roma srà colpita da un terremoto devastante. Boh, staremo a vedere.

martedì 10 maggio 2011

Uomini e caporali

Ecco le differenze fra gli esseri umani. Ciò che ci rende diversi l’uno dall’altro. L’ex direttore vive per il lavoro. Non riesce a godere della seppur lauta pensione, senza sentirsi “nella merda” perché non riesce a accumulare lavori su lavori grazie ai fasti degli anni passati. Alle otto e trenta di mattina è già attivo su skype, alle otto e trenta di sera telefona per sollecitare il lavoro. Non esiste sabato, né domenica. Non solo per lui, ma per tutti quelli che con lui collaborano.
Domenica scorsa, festa della mamma; per quello che può valere una festa da fiorai e pasticceri. Ma tutti hanno una mamma e credo che nessuno possa esimersi dal farle almeno gli auguri e pranzarci insieme. Almeno così è per i miei figli e, mio malgrado, anche per me. Non è una giornata di gran riposo, soprattutto dopo aver imbastito un progetto grafico in due giorni e, una volta tanto, aver ricevuto i complimenti dell’editore. I ragazzi si devono fare la doccia, tutti quanti aiutiamo in cucina, ad apparecchiare, scrivere e disegnare bigliettini, cucinare crostate. Alle dodici e trenta chiama l’ex direttore:
“Allora, hai pronto qualcosa per me?” chiede come se fosse un normalissimo giorno lavorativo.
“Veramente ho aiutato i ragazzi con la festa della mamma - rispondo - sai, oggi mi tocca sorbirmi pure la mia, per questo non ho ancora acceso il computer...”
Lui dice di non preoccuparmi, di procedere tranquillamente e se per caso impagino qualcosa, di chiamarlo pure in serata.
“Sì, come no! - mi verrebbe da rispondere - adesso per settecento euro mi metto a lavorare pure di notte o nei festivi!”. Ma invece applico l’infinita pazienza che ho dovuto imparare - volente o nolente - durante questo periodo e abbozzo, prometto, accampo scuse fumose.
Penso di essermela cavata, che abbia capito, che almeno per oggi non rompa più le scatole.
Ore ventuno e quindici, squilla il cellulare, è lui, lo lascio squillare, non ho nessuna voglia di rispondere, di riaccendere il computer, di inventare scuse.
Io non sono così, le mie ambizioni sono più “socialmente responsabili” nel senso che mi basta mantenere la famiglia, togliermi qualche soddisfazione ogni tanto e, soprattutto, avere tempo da dedicare ai miei figli e a me stesso.
Che senso ha, passare la propria vita davanti a un monitor di computer per arrivare, la sera, a non aver più occhi per leggere il titolo sulla copertina di un libro? Per stramazzare addormentati sul divano quando non sono ancora le nove? E risvegliarsi come zombie, con la tv che sbraita, alle cinque meno un quarto, con in mente il lavoro da finire?

lunedì 9 maggio 2011

Meglio di un calcio nel culo

Forse per farsi perdonare la perdita della rivista di barche per ricconi sfondati, o forse per quelle strane combinazioni che non riusciremo mai a prevedere, l'ex direttore mi ha dato incarico per un altro progetto del quale, dice lui, ha già firmato il contratto.
Non so nemmeno se si possa definire una rivista perché le uscite sono strettamente legate a eventi ben precisi come, per esempio, il Motor Show di Bologna, lo Smau di Milano, il Salone Nautico a Genova e compagnia bella. Il tutto per una decina scarsa di numeri all'anno, ma non è detto: dipende tutto dalla raccolta pubblicitaria.
Dunque, incarico ricevuto mercoledì scorso, venerdì ho dovuto consegnare il progetto grafico e sabato una decina di pagine fatte e finite.
Lamentarsene sarebbe da ingrati, ma mi domando chi al mondo potrebbe mettere insieme il progetto grafico di un giornale in due giorni e le prime pagine in tre, se non un disperato come me.
Naturalmente di pagare il progetto grafico non se n'è accennato, mentre, per ogni numero del giornale di circa 35 pagine effettive, riuscirò forse a prendere settecento euro. Non c'è da stare allegri, ma confesso di essere comunque felice di riuscire, forse, a tirarci fuori le spese alimentari per la famiglia.
Oggi bisogna accontentarsi così. Domani si vedrà.

giovedì 5 maggio 2011

La maledizione voodoo

Avevo questa rivista di barche per ricconi sfondati che mi aveva passato l’ex direttore. Poca roba, quattro numeri all’anno per meno di cinquemila euro netti in totale. Non mi avrebbe cambiato la vita ma, come si dice, tutto fa brodo e quindi era il modo giusto per ricominciare.
Ne ho impaginato un numero e, visto che le gabbie, dopo anni di rimaneggiamenti e distrazioni, erano ormai un disastro quasi ingestibile, ho rifatto le pagine mastro come si deve, senza prendere un centesimo in più. Poco male, mi sono detto, servirà per lavorare meglio, più velocemente e con maggiore precisione.
Se non fosse che, proprio ieri, l’ex direttore mi ha comunicato che l’editore ha deciso di affidarne la realizzazione all’agenzia che cura già la sua immagine e che, per questo, la impaginerà praticamente gratis o a prezzo di costo. Dice che la flessione pubblicitaria gli impedisce di coprire le spese e a stento riesce a pagare la stampa.
Faremo ancora un numero e poi ciao ciao, se ne andrà affanculo anche questo lavoro. E pensare che sono oltre vent’anni che l’ex direttore aveva questo cliente; ne parlava che sua figlia ancora non camminava e oggi ha diciannove anni.
Inoltre, al colmo dell’umiliazione, mi ha detto che un ex grafico della Rizzoli con il quale abbiamo lavorato entrambi, lui come suo direttore e io come collaboratore esterno, guadagna alla grande come fotografo, roba da oltre settantamila euro all’anno.
È proprio vero che il mondo va a cazzo di cane. Ho sempre pensato che questo F. fosse un emerito coglione e questo era anche il parere della redazione tutta. Un cretino che si vestiva come l’opinione comune pensa si debba vestire un creativo - ne ho già parlato -; che andava a ballare latinoamericano con la moglie, altrettanto cretina; uno che per fare un servizio da quattro pagine ci impiegava una settimana, totalmente disimpegnato da tutto ciò che è sociale o solidale o umanitario, insomma un vuoto vanesio presuntuoso quanto stupido.
Inutile dire che queste cose mi fanno montare un’invidia che non dico, mi fanno pensare che, crisi o non crisi, ci sono persone che lavorano e anche bene, che comunque il mercato si muove e che io, non so perché, ne sono tagliato fuori.
Vacillano anche le mie convinzioni antisuperstiziose; sono quasi convinto di essere vittima di un terribile malocchio, una maledizione per qualcosa di innominabile che devo aver commesso nelle vite passate, un castigo divino per le infinite bestemmie, un voodoo praticato per errore da qualche santone caraibico che mi deve aver colpito per sbaglio. Non c’è altra spiegazione.

martedì 3 maggio 2011

Gli uomini della compagnia e il culo di Pippa

Se solo mia nonna sapesse che a ogni appuntamento dal dentista, ne corrisponde un altro in libreria, non so immaginare cosa direbbe.
Lei, che credo non abbia letto nemmeno un libro in vita sua ma che, per mandare avanti la famiglia, è stata la prima calzolaia, se non d’Italia, certamente di Milano, forse avrebbe sbottato come il padre di R. durante l’ennesima visita a una chiesa di Mosca: “Ostia! Basta chiese! Vista una, viste tutte!”.
Ieri è stata la volta di Don Delillo, scrittore che amo a prescindere, con La stella di Ratner; un salasso da 24 euro a favore di Einaudi, e quindi del nano maledetto.
Non importa, come dicono a sinistra ogni volta che bisogna votare: turiamoci il naso. Solo che a forza di turarci il naso, non sentiamo più né puzze, né profumi, e questo non va bene.
E forse proprio per questo, per il gusto cioè di farmi del male, questa sera abbiamo visto The Company Men, un bel film di John Wells nel quale è rappresentata l’improvvisa discesa all’inferno e la difficoltà nei rapporti familiari e di amicizia di Bobby Walker, brillante e benestante manager con tanto di Porsche, improvvisamente licenziato dall’azienda per cui lavora.
Si troverà ad affrontare ciò che io stesso ho provato e continuo a provare tutt’ora sulla mia pelle, fino ad accettare un lavoro da falegname edile offerto dal cognato. Il superficiale Bobby imparerà così ciò che significa dover rinunciare a tutti quei privilegi che riteneva ormai consolidati, alle partite a golf, ai bei vestiti, ai ristoranti da 500 dollari. Imparerà a capire i veri valori dell’amicizia, dell’amore e della dignità del lavoro.
Naturalmente Bobby è un trentasettenne e può permettersi la fatica fisica e l’idea di dover ridefinire in qualche modo la propria vita, quindi le affinità tra la sua situazione e la mia finiscono bruscamente prima ancora di cominciare.
Inoltre, nel finale, Bobby riesce a risollevarsi e trovare un lavoro adatto alle proprie capacità, anche se con uno stipendio pressoché dimezzato. Un lieto fine forse un po’ troppo rosa per situazioni che, nella maggior parte dei casi, hanno ben altri esiti.
Semmai dovrei immedesimarmi più nel suo collega Phil Woodward, anche lui licenziato, che alla soglia dei sessant’anni, tintosi i capelli grigi, tenta di rivendersi in un mercato che non considera chi è al di sopra dei trent’anni e finisce per suicidarsi con i gas di scarico della propria auto.
Cosa c’entra tutto questo col culo di Pippa? Niente, solo che nel titolo del post ci stava così bene...

lunedì 2 maggio 2011

Tornerò a votare

Mancano meno di due settimane alle elezioni amministrative ed eccoli, gli zombie, gli scarafaggi col cilindro, i parassiti, i morti viventi che ci hanno portato via tutto - libertà, allegria, futuro - eccoli, puntuali ad ogni appuntamento elettorale, che intasano la cassetta della posta, i tergicristalli delle auto in sosta e ogni spazio utile su cui si posa l’occhio appena fuori casa.
Eccoli, con le loro foto da prima comunione, chi posato e serio sul solito fondale azzurro, chi falsamente sorridente come una iena che attende la morte della sua preda, chi in giacca e cravatta, chi con le maniche rimboccate come se dovesse davvero fare qualcosa che non ha mai fatto in vita sua, cioè lavorare.
C’è chi non esita a fregiarsi del logo e, probabilmente ad utilizzare i fondi, del Comune di Milano, come quello che si definisce, ahimé, “Un poliziotto in Comune”, cosa che suscita una certa apprensione.
Lui non si accontenta del solito volantino formato busta, no, per uno come lui serve una brochurina formato mezzo A4, piena di fotografie di un sessantenne invecchiato male, in divisa da poliziotto e l’aria tra l’ammiccante e il minaccioso.
Ma più delle foto, a far davvero paura, è il contenuto del libretto, inviato a mia moglie in virtù “della napoletanità che ci accomuna”.
Ecco qualche esempio:

“Vi ricordate? Avevo scritto: stop alle bande giovanili ubriache di birra il sabato sera. Fatto”.
“Vi ricordate? Avevo promesso: farò quanto servirà per consentire ai Cittadini di Milano di tornare in Piazza nelle tiepide sere di maggio ...dopo il rosario. Fatto”.
“Unico caso in Italia a Milano abbiamo introdotto il ‘Patto di legalità e socialità’ nei campi nomadi per garantire il rispetto delle norme di convivenza civile! E questi sono i risultati: 405 sgomberi di insediamenti e campi nomadi abusivi, 2.600 costruzioni illecite abbattute, 6.500 nomadi allontanati da Milano”.

Minchia, signor tenente!
C’è poi quell’altro, sempre al servizio di un sindaco sciagurato, che si propone come un prosciutto, o un mobilificio brianzolo, con lo slogan “Professionalità e competenza” che è un po’ come dire “Qualità e cortesia” oppure “Comfort e convenienza” che mi ricordano tanto gli esordi di Berlusconi con Telemilano 58. A proposito, come mai su YouTube si trovano sigle e programmi Rai che risalgono ai primi anni sessanta, ma niente, assolutamente niente, che ricordi gli esordi televisivi del cavaliere?
Ma chissenefrega, per tornare al candidato “Professionalità e competenza”, dirigente, tra l’altro, di un reparto dell’ospedale di Niguarda Cà Granda, va ricordato almeno in parte il brillante curriculum che snocciola in così poco spazio:
Maturità classica presso l’Istituto Gonzaga, antipatica quanto prestigiosa istituzione privata della Milano bene, di cui si vanta di essere un componente direttivo dell’Associazione ex allievi. Un modo come un altro per non disperdere conoscenze importanti e influenti, in poche parole e, alla faccia di ciò che pensa l’esimio Gustavo Zagrebelski, una delle tante caste che se la cantano e se la suonano alle nostre spalle.
Ma non basta, Canino - così si chiama, perché nasconderlo? - si laurea in Medicina e chirurgia con specializzazione in ginecologia e istologia patologica, con tanto di master in sessuologia. È inoltre presidente dell’associazione cattolica operatori sanitari della diocesi di Milano, segretario della società lombarda di ostetricia e ginecologia e fiduciario per la Lombardia del sindacato medico FESMED. Più altre varie cariche nel Pdl e in associazioni, compreso ‘sto cazzo di Rotary Club, che non ho ancora capito a che cavolo serve, anche se ho il dubbio che sia un po’ come una specie di P2 che, con la scusa delle opere di volontariato e amenità simili, non fa altro che raccogliere l’ennesima casta degli affari. Ma a scanso di equivoci, qui lo dico e qui lo nego, potrei anche sbagliarmi...
E poi tutti gli altri peones della politica che, improvvisamente, si accorgono di essere nostri carissimi amici, concittadini, compaesani e compagnia bella, compreso il solito consigliere comunale che a natale mi invita sempre a mangiare una fetta di panettone in qualche prestigioso albergo milanese e che, questa volta, ha il piacere di invitarmi in un albergo in zona Centrale per “...uno scambio di idee in vista della prossima scadenza elettorale...” alla presenza addirittura dell’onorevole Mariastella Gelmini.
Sì, è proprio lui, l’unico che risponde alle mie email, quello che promette sempre di interessarsi al mio caso, ma che riesce sempre a non ricevermi.
Penso che gli scriverò anche questa volta. Per me è ormai diventato un gioco, un gioco in cui lui fa la parte del gatto e io del topo e che, in tutta onestà, mi diverte non poco.
Alla luce di tutto questo, credo che questa volta sia davvero giunto il momento di tornare a votare dopo anni di disinteresse e disillusione totali. Non tanto perché ho riacquistato fiducia nella politica, anzi, ma per evitare almeno che gente come questa occupi posti dai quali possa dirmi cosa fare o non fare, come vivere, quali valori insegnare ai miei figli.

venerdì 29 aprile 2011

Momenti di riflessione

Qualche volta mi chiedo se vale la pena continuare questa manfrina del blog. Ma non per le ragioni che, qualche tempo fa, aveva espresso mia moglie, e cioè che i panni sporchi si lavano in famiglia. 
Sono una persona limpida, non ho niente da nascondere, i fatti miei sono simili a quelli di un’infinità di altre persone e quindi non ho niente di cui vergognarmi.
Per ciò che ho detto su persone che ho conosciuto, conosco, o che non ho mai visto in vita mia, non ho fatto altro che dire la verità; se mai, condita con un filo di ironia, perciò sono tranquillo e se qualcuno si sente ferito, non è un problema mio ma piuttosto della sua autostima.
Lo scopo di denunciare la mia situazione, che poi è la stessa di quasi tutti i lavoratori autonomi precari - volontari o meno - non ha sortito il benché minimo effetto. I giornali se ne fregano (lo dico perché ho toccato con mano), movimenti d’opinione non ne esistono se non per sfamare chi li guida, lo stato poi, mi aiuterebbe solamente se non avessi nemmeno un centesimo in banca, ma quattro figli sulle spalle, un mutuo da pagare e nessun parente che mi possa foraggiare. Peccato che poi si scoprano ciechi che guidano la macchina, paraplegici che saltellano, invalidi che camminano sulle proprie gambe e più guardie forestali che alberi.
“È sempre stato così - potrebbe dire qualcuno - è nel dna degli italiani, non cambierà mai”. Ma le cose stanno davvero così? Siamo davvero un popolo di stronzi di tal fatta? Non lo so, può anche darsi.
Un altro motivo era testimoniare ai miei figli che le cose brutte passano, le notti prima o poi finiscono, il buio deve per forza cedere il passo alla luce. Ma comincio a nutrire qualche dubbio.
Qualcuno ha suggerito anche che, sotto sotto, questa fosse un’operazione letteraria, che dietro ci fosse qualcuno che non fossi io: un grafico disoccupato e moderatamente disperato. Per me è un grande complimento e non nego che cederei i diritti di tutto quanto al primo che li chiede ma, anche se ho cercato di pubblicizzarmi il più possibile, vi garantisco che non interessano a nessuno.
Devo ammettere che ci sono stati momenti in cui mi è stata espressa molta solidarietà; mi è stato di conforto e ve ne sono molto grato, però l’interazione è davvero minima (vedi le impressioni riguardo ai miei lavori). 
Forse perché alla fine non è poi così interessante leggere tutti i giorni di qualcuno così vicino al ciglio della depressione e di una vaga miseria. Posso capirlo.
Insomma, amo, ma davvero, raccontare ciò che scrivo. Mi piace, mi dà soddisfazione, ma purtroppo non mi riempie la pancia e richiede molto tempo, tempo che forse dovrei impiegare più produttivamente, anche se non ho idea di cosa produrre.
Mi sono ripromesso di proseguire fintanto che le cose non cambieranno, ma a volte mi trovo a pensare: “E se le cose non cambieranno? Che farò, andrò avanti all’infinito a scrivere sciocchezze mentre la nave affonda inesorabilmente? Continuerò a suonare la trombetta mentre l’acqua gelida lambisce i coglioni?”.
Abbiate pazienza, ma sono momenti di riflessione che ogni tanto si presentano, volente o nolente.

giovedì 28 aprile 2011

Grafica e ciabatte

Una volta ho lavorato per un tizio, anche lui grafico, che divideva lo studio dalle parti di via Nino Bixio con un architetto o qualcosa del genere.
Si occupava di impaginare le versioni italiane di quei libri del Reader’s Digest e simili che hanno perseguitato le nostre famiglie dalla cultura medio-bassa negli anni settanta e ottanta.
Il meraviglioso mondo degli animali, oppure La vita nella savana, Le foreste pluviali del sud America, Marocco misterioso, I popoli della Terra e altre amenità del genere.
Il mio compito consisteva nell'inserire il testo italiano nelle gabbie che arrivavano dall’estero e, dato che notoriamente l’italiano era sempre più lungo dell’inglese, fare le relative correzioni di bozza per far rientrare il testo e correggere i refusi.
Il compenso a pagina era davvero basso: qualcosa come 500 o mille lire, ma ero piuttosto veloce e preciso e quindi faceva brodo.
L’unico inconveniente è nato dal fatto che una volta ho dato un leggerissimo track - qualcosa come -0,3 o -0,5 - per far rientrare qualche lettera ed evitare almeno un giro di bozze. Mi è stata fatta una lavata di testa perché l’editore non voleva assolutamente che il carattere subisse la minima modifica o variazione dovuta a questo tipo di accorgimenti. Insomma, doveva essere sempre perfettamente identico a se stesso. Una linea di condotta sulla quale non ho nulla da eccepire e una delle grandi lezioni sui caratteri del mio bagaglio professionale.
La prima lezione però l’ho imparata quando il lettering si faceva coi trasferibili Letraset. L’armonia tra le lettere (crenatura o kern) non è una cosa campata in aria; sapere quanto spazio lasciare fra due lettere curve - per esempio una “b” e una “o” - o fra un bastone e una curva - come fra la “d” e la “o” - o ancora fra due bastoni - come fra la “l” e la “i” - era una cosa che si imparava con l’esperienza. Non esistevano misure da prendere col righello, era una questione di occhio e sensibilità. 
Un altro maestro in questo senso è stato l’art director sosia di Carl Marx. Da lui ho imparato ad apprezzare la pulizia di un testo, l’equilibrio fra corpo e interlinea, l’armonia delle spaziature.
A pensarci adesso sono cose che fanno incazzare; una vita a imparare la sensibilità, l’armonia, le proporzioni e ora non frega più un cazzo a nessuno. La maggior parte delle crenature le fa (male) il computer in automatico, quasi tutti i grafici non capiscono nemmeno di cosa stia parlando e i clienti, beh, lasciamo perdere, basta guardare cosa si vede in giro per capire che l’unico plus che interessa loro è il costo: più è basso è meglio è.
Solo una decina d’anni fa, trovare qualche refuso in un libro era qualcosa di impossibile; oggi non c’è libro che abbia letto, anche di case editrici importanti, che non abbia almeno tre o quattro refusi.
Comunque, tornando al tipo di via Nino Bixio, era uno piuttosto strano. Non nell’accezione comune che vede chi fa questo mestiere come uno che per forza deve andare in giro con un cappello da Davy Crockett e gli stivali da Waffen-SS, ma proprio perché era l’esatto opposto. Capelli spettinati come di uno che si è appena alzato dal letto, blue jeans, una felpa da fornaio e le ciabatte. Ma proprio ciabatte di quelle dei nonni: quelle marroni, di finta pelle, con due fasce incrociate davanti. D’estate poi, era sempre in pantaloncini corti e canottiera come Ninetto Davoli nel Carosello della Saiwa degli anni ‘70. (http://www.youtube.com/watch?v=fjdhYuMvypg)
Una volta l’ho incontrato mentre mentre scendevo dall’auto, una Nissan Micra 1300 che ci ha scarrozzato per quasi tredici anni, era insieme a una ragazza che gli faceva da assistente. Appena mi vede lei fa:
“Che bella! La Nissan Micra! L’auto dei sogni di S.!”
S. era il tizio, insomma, quello per cui lavoravo, che era di fianco a lei e guardava la mia macchina con gli occhi che brillavano e un sorrisino che spuntava in mezzo alla barba.
Sono rimasto leggermente interdetto. D’accordo che era uscita da pochissimo, parliamo quindi del 1993, ma da qui a considerare un’utilitaria anche piuttosto economica, come l’auto dei propri sogni, beh, è alquanto strano.
Non è che con questa storia volessi dimostrare qualcosa di particolare o curioso, se mai è curioso il motivo per cui si ricordano certe persone o alcune circostanze. Ecco perché, almeno per me, S. sarà sempre il grafico in canottiera e ciabatte che sognava di possedere una Nissan Micra.

martedì 26 aprile 2011

Il cane che si morde la coda

Credevo che lo sfiancamento da festa fosse una conseguenza della festa stessa o, al massimo, un effetto collaterale delle mie condizioni fisiche sempre così misteriosamente altalenanti.
Mi ci sono voluti quasi cinquant’anni per capire che, invece, non è colpa della festa in se stessa, o delle aspettative che crea, ma, in ultima analisi, dei parenti; non c’è alcun dubbio.
Ciò che da giovane sopportavo con noncuranza e una certa masochistica soddisfazione, ora mi esaspera terribilmente. D’accordo, le feste comandate a casa dei genitori di mia moglie erano elettrizzanti, divertenti e incredibilmente rumorose. E il cibo abbondante e cucinato nel modo più dannoso alla salute che si possa immaginare.
L’opposto di quello che succedeva a casa mia, luogo in cui le feste comandate si ammantavano di solennità, silenzio e noia.
Ma alla fine, la novità diventa abitudine, e l’abitudine noia e poi senso di insofferenza. 
Passi per mio suocero che, come un Emilio Fede stalinista, storpiava il mio nome in mille modi diversi, passi per i ravioli fatti a mano da mia suocera, vere armi di distruzione di massa, e gli infiniti capricci degli innumerevoli nipoti.
Ma tutta questa confusione, le grida dei bambini, le tombole, i mercanti in fiera, i litigi fra cognati, le mille sigarette fumate sul balcone, i pettegolezzi, le piccole cattiverie, la voce roca, la sensazione di trascurare la mia famiglia per quella acquisita, i musi di mia moglie quando invece era il turno dei miei e, successivamente, quando le famiglie si sono smantellate come una vecchia ma ancora pericolosa centrale nucleare, i parenti che si infilavano nella nostra intimità familiare, sono tutte cose che mi corrodono lentamente dall’interno.
Sento come un parassita che rosicchia i muscoli, i tendini e le ossa, fino a che la sera sono sfinito, un pupazzo senza spina dorsale, una batteria irrimediabilmente scarica.
Il parente di questa pasqua è mia madre, unica sopravvissuta, la più pesante da sopportare, con tutte le sue manie, fisime e capricci da primadonna. La saga infinita delle sedie che le provocano mal di gambe, o di schiena, o che le fanno dolorare perfino la testa, si è arricchita ancora.
Dopo la marocca con braccioli, la sedia della cucina in acciaio con la seduta imbottita, le due sedie a stantuffo dello studio, l’altra, sempre a stantuffo, della camera dei ragazzi, ecco aggiungersi una vecchia sedia in legno da professore recuperata dalla scuola media qui vicino.
“Comoda?” Le chiedo.
“Una cannonata - risponde lei - anche se questo piccolo bordino rialzato mi preme proprio dietro alle gambe. Anzi, dopo un po’ fa proprio male. Guarda, si vede il segno sulle gambe?”
“No - rispondo - non si vede proprio niente, mi sa che stai giocando a fare la principessa sul pisello, ma l’età ormai è passata”.
“Ah, caro mio, se solo tu sapessi i dolori che provo! Non hai proprio idea di come soffro!” Abbocca subito lei, come se non avesse aspettato altro per tutto questo tempo.
“È meglio lasciar perdere - penso sconsolato - perché se appena glielo concedo, ci distrugge con gli infiniti dispiaceri della sua - secondo lei - sfortunata vita; i parenti cattivi, il papà morto in guerra, le ingiustizie in ufficio, le malattie, i dolori, mio padre che l’ha sempre trascurata, io che mi comporto come un insensibile bastardo... Cazzo! che ingiusta punizione la mia!”.
Chissà, forse è tutto vero. Sono un insensibile bastardo che non sopporta nessuno, tanto meno i propri genitori. E se fino a ieri, la soggezione che incuteva mio padre mi obbligava a onorare feste che lui invece disertava subito dopo pranzo per uscire di casa, oggi non sento obblighi di alcun genere. Se sopporto ancora mia madre è solo per un senso di pietà e protezione verso una vecchia ormai sola. Nulla di più.
Per questo ho sempre lavorato da solo. Non so stare in mezzo alla gente, non so vivere in comunità, non ho savoir faire, non riesco a far finta di niente quando incontro gli stronzi, non riesco a non prendere per il culo i presuntuosi, gli incapaci. Insomma non sono capace di farmi i cazzi miei, non riesco a non rispondere alle provocazioni, mi accendo come un fiammifero, come uno stupido energumeno, facendo spesso la figura dell’ignorante e del maleducato, solo perché esplodo dopo infinite provocazioni che gli altri sanno invece girare a loro favore o che, più saggiamente di me, riescono a ignorare.
Insomma, sono l’antitesi di tutti quelli che fanno un lavoro simile al mio: grafici, creativi, designer, pseudoartisti della domenica, architetti e compagnia bella. Non li sopporto, non sopporto i loro luoghi comuni, il credersi superiori, i locali che devi frequentare per essere cool, il credersi artisti solo perché tirano quattro secchiate di vernice su una tela quattro metri per tre; ho il rigetto verso i giovani creativi del salone del mobile o, peggio ancora, del controsalone, solo a sentire nominare via Tortona mi viene da vomitare.
Niente di male; basta non pensarci, non frequentarli. Già, ma come faccio a cercare lavoro senza dover trattare con gente simile? È quasi impossibile, e sentirmi trattato da imbecille solo perché non mi vesto o mi comporto da giovane artista o creativo emergente mi fa incazzare ancora di più.
Sono un cane che si morde la coda, questo lo so, ma, come lui, non so nemmeno come smettere.

venerdì 22 aprile 2011

Del doman non v'è certezza

Avere i ragazzi per casa in questi giorni di vacanze scolastiche, trasforma giorni che di festa non sono, in qualcosa che invece assomiglia al natale. 
Sono loro grato per aver trasformato dei grigi giorni lavorativi - ma senza lavoro -, in qualcosa di più allegro. Se non altro devo costringermi ad essere di un umore migliore del solito, di quando non li ho attorno e non c’è molta voglia di essere sereni o spiritosi.
Ma tra le tante cose che dice mia moglie, da quando apre gli occhi al mattino a quando li richiude addormentata, una è tanto saggia quanto evidentemente semplice: “Non ti incazzare, perché la vita è breve e in più, è anche una perversa umorista; quando meno te l’aspetti te la mette nel culo. E allora è inutile compatirsi e vivere male perché, come dicevano i poeti, del doman non v’è certezza”.
In effetti leggere in questi giorni della morte del rampollo della famiglia Ferrero - a soli 48 anni - e, agli antipodi, del bidello dell’isola dei famosi a 58, sono cose che fanno riflettere.
Ha ragione mia moglie, perché avvilirmi per qualcosa che forse si risolverà o forse no, ma che non è certo influenzata dal mio umore? O meglio, può essere influenzata dal mio umore, ma solo in peggio.

mercoledì 20 aprile 2011

Grazie dio!

Forse ho sbagliato mestiere, forse dovrei pensare a qualcos'altro, come l'indovino, o il negromante, il veggente, il mago. Forse così farei dei bei soldi e senza nemmeno pagarci le tasse.
Già, il grande Jolly Roger, il mago di Milano.
Almeno non dovrò buttare via questo bel coccodrillo che avevo preparato da tempo. Eccolo.

Sono davvero uno stronzo. Il solito ingenuo, sognatore, illuso stronzo.
È che non riesco a convincermi. Come è possibile che non riesca a trovare nemmeno uno stupido lavoro per impaginare che so, il giornale dello scarparo o anche un porno? Che mi frega, andrebbe bene anche quello; non ho mai avuto grandi ambizioni o manie di grandezza.
Basterebbe un lavoro qualsiasi che mi permetta di vivere decentemente.
Forse per questo mi illudo sempre, come un allocco di campagna, perché tutto questo è paradossale, incredibile. E allora, ogni preventivo, ogni nuovo contatto, ogni proposta, non fa che illudermi nuovamente, fa accendere una speranza che, col passare dei giorni, come uno idiota sapiente, trasformo in una quasi certezza, scottandomi irrimediabilmente ogni volta che le cose vanno male, cioè sempre.
Anche con questi francesi ammetto di essermi illuso. Ho pensato che essere in gara solo in due e che il mio antagonista fosse una non ben identificata agenzia, e dunque non una struttura esperta in grafica editoriale, mi avrebbe posto in una posizione vantaggiosa.
Già immaginavo e pregustavo il momento della vittoria; quello in cui stappavo insieme a mia moglie una bottiglia di champagne e fumavo un costoso sigaro cubano, ringraziando la buona stella che questo incubo fosse finito, che questo viaggio all’inferno terminato. Ma non solo, il sogno si proiettava ancora oltre nel futuro: in viaggi di lavoro a Parigi, in vacanze all’estero in cui finalmente avrei fatto vedere ai miei figli qualcosa di diverso, di culturalmente nuovo.
Troppo bello per essere vero. Troppo assurdo perdere ancora una volta, l’ennesima volta.
Sono incredulo e schiumo di rabbia, no, non è rabbia, è delusione, mortificazione, tristezza, apatia. Comincio a convincermi che l’inferno, quello vero, sia qui, ora, e che non abbia mai fine.

Visto che ormai il progetto è sfumato, posso anche allegarne qualche immagine. Forse fa schifo davvero e io non sono in grado di capirlo, o forse non è così; comunque, grazie dio!




martedì 19 aprile 2011

A volte ritornano

Per conto mio era ormai una faccenda chiusa. E l’ho confermato proprio qui. Ma per l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani, a quanto pare è invece un caso aperto.
Parlo del mafioso pelato e la sua maledetta azienda.
Ora salta fuori che, secondo il servizio contributi e vigilanza, la mia posizione non sarebbe stata quella di un libero professionista, ma di un subordinato a tutti gli effetti. Non ho idea di come e quando sia saltata fuori questa convinzione. So solo che quando avevo chiesto un aiuto legale, prima ero stato illuso e poi disilluso.
Adesso che invece gli interessi sono quelli dell’Istituto, mi assicurano che l’azienda dovrà versare i contributi e io potrò chidere il rimborso di quelli versati personalmente.
Onestamente l’idea di sfilare dalle tasche del mafioso un bel po’ di soldini mi fa sorridere sotto i baffi, come pure quella di rientrare in possesso di una parte dei miei soldi che mi farebbero davvero comodo.
Dopo pasqua sono stato convocato dall’Istituto, vedremo cosa proporranno.
Dell’editore francesce, malgrado le sue sincere assicurazioni, non c’è traccia. È evidente che siamo stati presi per il culo anche stavolta, come pure da uno stampatore di Genova che, con un annuncio, cercava creativi per realizzare stampe di grandi dimensioni incentrate sulle maggiori capitali europee. Il compenso è ridicolo: 80 euro per realizzare un soggetto su tre misure diverse, con un esecutivo in photoshop che mediamente pesa attorno a un giga. Insomma mica uno scherzo. Naturalmente in questi ottanta euro è compresa la cessione di qualsiasi diritto futuro sull’immagine. Insomma, un affarone! 
Ma tant’è, non avendo nulla da fare ho provato anche questa. E come sempre è stato un buco nell’acqua.
Questa volta però voglio sottoporvi il mio lavoro. Devo sapere se sono davvero diventato così inetto come tutto sembra dimostrare.




venerdì 15 aprile 2011

Preghiera

Caro dio, non ti dispiace se uso un tono così confidenziale vero? 
Beh, caro dio, mi dispiace ma ho una brutta notizia: io non credo in te, né alle favolette di vecchi e nuovi testamenti e, tanto meno, in figli ipotetici, madonne vergini, profeti, santi, miracoli, angeli e demoni.
Non credo a un universo infinito ridotto a diorama (fortunatamente un termine con cui non hai nulla a che fare, perché deriva dal greco did - attraverso) di una misera umanità.
Non credo, e mai potrò credere, a un essere che si definisce il bene e l’amore infiniti, capace poi di ire funeste (come il pelide Achille), e vendette terribili. Un dio che, da esclusiva proprietà di un popolo eletto (pervaso da un vago senso di xenofobia), ci ha degnato, in seguito, del suo amore universale e, soprattutto, delle sue regole.
Intendiamoci, non sono un integralista. Odio gli estremismi culturali e tanto più religiosi. Per me ognuno è libero di pensarla come crede. Io credo che, come tutti gli animali di questo pianeta, quando si muore si muore. Non esiste anima, non esiste aldilà, non esiste inferno (se non su questa terra e adesso) e nemmeno paradiso. 
La mia morale è universale e non cristiana, ma umana, innata in ognuno di noi. Ho in me il coraggio di affrontare una fine definitiva e non la facile consolazione di qualcosa che mi aiuti ad affrontare lo sgomento del nulla.
Pretendo di sentirmi libero di pensare che, come non posso dimostrare scientificamente l’inesistenza di qualcosa che però non è mai stata vista, nessuno mi imponesse la visione di qualcos'altro di cui nessuno è in grado di dimostrare l’esistenza.
Ciò che resta, caro dio, è che se misurassimo tutto il bene e tutto il male fatti in tuo nome a questo povero mondo, non ho alcun dubbio che la bilancia penderebbe sicuramente dalla parte del male. Ecco perché, se proprio devo, non potrei che definirti “signore del male” (come nel film di Carpenter).
Comunque, caro dio, voglio darti una sola e unica opportunità: se vuoi dimostrare di esistere e di essere così misericordioso come amano definirti, questo è il momento giusto. Fai finire questo inferno.

mercoledì 13 aprile 2011

Il canto del cigno

L’editore francese, prima così impaziente di vedere i nostri progetti e che aveva garantito una decisione entro la scorsa settimana, tace. 
La segretaria, venerdì scorso, ha detto che sono stati molto impegnati con l’edizione francese e hanno duvuto accantonare momentaneamente la discussione sul nuovo progetto. Però, afferma che sono persone serie e, comunque vada, non è nel loro stile o filosofia non dare notizie, buone o cattive che siano.
Sarà, ma pare che nel frattempo si sia aggiunta un’altra struttura alla gara. E per come vanno le cose negli ultimi tempi, saremmo capaci di perdere una gara anche se fossimo gli unici concorrenti. 
Io comunque avevo già scritto il coccodrillo per l’ennesimo progetto perso. È lì, sulla scrivania del computer; non aspetta altro che una mail o una telefonata, per apparire su questo blog. 
Spesso mi chiedo se, dopo trent’anni che mi sono mantenuto con questo schifo di lavoro, davvero non sia più capace di inventarmi qualcosa di creativo, di concorrenziale, di professionale.
Sono pensieri che capitano; aver infilato una delusione dopo l’altra, non è il modo migliore per accrescere la fiducia in sé stessi. 
E una fra le cose che mi brucia di più, è l’essere stato segato addirittura dalla società che produce software gestionali. Una misera realtà da meno di un milione e mezzo di euro di fatturato annuo con quaranta dipendenti. Poco più che cantinari smanettoni che, per interposta persona, si dichiarano laconicamente non interessati alle mie proposte, senza nemmeno una motivazione, o una spiegazione più intelligente di “Non è piaciuto”.
E purtroppo nutro anche la frustrazione di non poter nemmeno mostrare la mia proposta, perché il claim contiene e gioca proprio col nome dell’azienda. Non è bene quindi, che mi renda troppo riconoscibile in un ambiente tanto competitivo e, soprattutto, pieno di invidie e di vendette trasversali. Altro che Mad Men, qui sembra di essere in un film di George Romero; essere corretti o tendere la mano a qualcuno significa farsela mangiare (vedi il grafico zoppo di qualche tempo fa). 
Comunque non ne faccio una malattia. 
No, non è vero, ce la faccio eccome. Cerco di essere come Siddharta che non si cura delle traversie della vita, ma non ci riesco. Ogni lavoro che sfuma è come una martellata ai coglioni del mio amor proprio. Ogni delusione incurva sempre più la mia schiena, mi spinge a rintanarmi sempre più in fondo nel buco che altri mi hanno scavato intorno.
Ormai il tempo passa inesorabile, questo blog sta raggiungendo la poderosa prolissità di un Guerra e Pace o un David Copperfield. Ma, al contrario che nei classici, qui non succede mai niente. Non è altro che un canto del cigno prolungato, infinito, inarrestabile. 
Una malattia terminale che uccide sì, ma in un tempo infinito.

lunedì 11 aprile 2011

La primavera "sbatte"

La primavera, si sa, "sbatte". Lo dicevano le nonne, nella loro santa ignoranza. Oggi lo ripetono gli “esperti” che spiegano come il nostro organismo necessiti del tempo necessario per adattarsi al cambio di temperatura e via dicendo.
È pazzesco, ma non raccontano niente di nuovo, o almeno niente più di quello che già sapeva mia nonna nata nel 1909, che ha visto sia gli austriaci della prima, che i tedeschi e gli americani della seconda guerra mondiale.
Una zelante giornalista di Repubblica, presa da ispirazione d’annunziana, decanta addirittura che: “...la magnolia centenaria di piazza XXIV maggio, che fino all’altro giorno era tetra e scura nella sua nudità, adesso si è ingentilita di foglie che la fanno sembrare leggera come una nuvola.” dimenticando forse che la magnolia è un sempreverde e quindi non si capisce come poteva essere, fino all’altro giorno, tetra e scura nella sua nudità.
Mia nonna aveva solo la terza elementare, ma che la magnolia non perdesse mai le foglie lo sapeva bene, eccome.
Ho come il sospetto che la redazione milanese del mio quotidiano preferito sia una specie di esposizione delle stupidità perdute o qualcosa del genere. 
Ma non mi frega più di fare il Don Chisciotte, ho perso ogni interesse nel bacchettare l’ignoranza che alberga dove meno ce lo si aspetterebbe.
L’altro giorno per esempio, mia figlia che va in quinta elementare, in una verifica di storia, ha scritto più o meno che le matrone romane sfoggiavano fedi nuziali e compagnia bella. La maestra, giovane e laureata, ha corretto “nuziali” in “nunziali”. Forse pensando che le fedi derivassero il nome da una qualche Nunzia ante litteram, o dall'annunciazione, o chissà che.
Questo è il mondo in cui viviamo, queste le persone con cui dobbiamo confrontarci.
Ciliegina sulla torta, ho ricevuto il famoso opuscolo di Letizia Moratti che, non soddisfatta di spaventarci dai megaposter affissi in metropolitana, continua a perseguitarci anche all’interno delle nostre casette placide e tranquille. Ho così appreso dei “Cento progetti realizzati per una Milano sempre più bella da vivere”, in un crescendo delirante nel quale, spuntando come un Berlusconi in gonnella in centinaia di foto che la ritraggono ora in veste di scherzosa signora snob accanto a bambini, ora mentre pianta un albero e addirittura con in mano una pompa per la pulizia di quei volgarissimi graffiti che tolgono il sonno a ogni milanese che si rispetti, racconta panzane degne dell’ormai famoso libro con cui, qualche anno fa, già ci dilettò l’attuale presidente del consiglio. E sarà proprio lì, vicino al mitico libro, che finirà anche quest’ultima trovata del nostro sindaco; a futura memoria di quanto si divertano tutti quanti nel prenderci allegramente per il culo.
Ma la schifosa deformazione professionale mi ha spinto anche a scoprire chi ha progettato graficamente questo tristissimo libretto e mi sono così imbattuto in Gianni Comolli, grafico di fiducia di Berlusconi, che già progettava i manifesti elettorali del pdl nel 2006. Se lo cercate su Google non risultano più di tre pagine tre, tutte indistintamente legate al popolo delle libertà. A quanto pare, la carriera di questo valente professionista non è mai andata oltre i manifesti elettorali e gli opuscoli realizzati per il suo padrone e i di lui amici. Di Ivan Carella, l’altro grafico impegnato in quest’opera monumentale, preferisco non parlare, ma una rapida ricerca in rete rivelerà di che pasta è fatto.
Io che invece, come diceva Rambo, pilotavo giornali e riviste e collaboravo con le maggiori case editrici italiane, non riesco a portare a casa nemmeno un lurido giornaletto di settore.
È invidia la mia? Logico. Come è lapalissiano il fatto che ci sono persone che, pur non sapendo lavorare, si riempiono le tasche di soldi.
PS: tanto per restare in tema, l’opuscolo della Moratti è stato stampato dalla Tipografia Camuna. Buffo no?

giovedì 7 aprile 2011

Siamo tutti fregati

Sapete che c’è? Sono stufo. Stufo e incredibilmente stanco. Non è solo per questo anno e mezzo di inferno e di tormenti interiori, è un po’ per tutto quanto.
Sono stufo di indignarmi inutilmente, di criticare indistintamente giornalisti venduti, falsi amici, categorie intere, la politica, il falso volontariato, quelli che fanno finta di aiutarti e invece non aspettano altro che mettertelo in culo, le guerre fra poveri, l’economia malata, l’ottusità ambientale...
Tutto questo non è qualcosa che si può aggiustare con una rivolta, non basta un Kennedy, un Gandhi, un Martin Luther King. È tutto quanto il sistema a essere completamente sballato. È qualcosa che ormai è diventato genetico, impossibile da contrastare. Un muro di gomma che assorbe l’energia di qualunque critica, qualunque scandalo, qualunque porcata.
Non è più solo un fatto di costume, di corruzione, di malaffare. È qualcosa che ormai si è legato al nostro organismo come un cancro: impossibile estirparlo senza uccidere anche l’ospite.
Qui non si tratta di politici, economisti, intellettuali e compagnia bella. Qui si tratta degli italiani tutti. 
È così, cari ragazzi, ormai siamo fregati.

mercoledì 6 aprile 2011

Tanto per dire

Sai cosa mi fa più incazzare nelle rubriche della posta del cuore? È una domanda retorica, perciò lo dirò anche se non t’importa.
Che, anche se una moglie cinquantenne ha tradito il marito mite e affettuoso con l’istruttore di yoga superdotato, trentenne, dalla chioma fluente, il portafoglio a fisarmonica e gli addominali da atleta per il solo gusto di farsi una bella scopata alla faccia sua, le risposte della giornalista di turno sono sempre le stesse:
“Ma tu ti sei mai chiesto davvero cos’hai fatto per conquistarla giorno dopo giorno, per farla felice, gratificarla, renderla una donna desiderata, farla sentire amata?”.
Ma insomma, non riuscite a capire che una simile concezione del rapporto di coppia è quanto di più maschilista si possa immaginare?
E vi siete mai chieste cosa avete fatto voi per conquistare, giorno dopo giorno vostro marito? Per farlo sentire desiderato, amato realizzato?
Oppure avete indossato la tutona per andare a dormire, vi siete costantemente lamentate per il freddo e infilato due o tre maglioni da alpino anche durante le afose estati cittadine?
Vi siete vestite decentemente solo per andare alle assemblee di classe dei figli o quell’altra volta che vi hanno invitato a cena fuori. Vi depilate solo per andare dalla ginecologa e al mare d’estate.
Un paio di volte l’anno, mosse a pietà, vi degnate di calzare quelle scarpe col tacco acquistate cinque anni fa; solo quelle, sempre quelle, lamentandovi di quanto siano scomode e di quante donne non siano in grado di portarle, contrariamente a voi.
A noi, stupidi animali in calore, basta la vista di una coscia calzata di nylon e di un piede slanciato dalla scarpa col tacco, per sbavare come san Bernardo, l’occhio suino leggermente lacrimoso per l’emozione.
Uno slancio d’orgoglio ci fa pensare che: “Non sono mica una scimmia ammaestrata, cosa crede, che una scarpa col tacco e un paio di collant mi facciano perdere ogni controllo e ogni dignità?”.
Poi sono i lombi ad avere la meglio sulla logica e ci diciamo che va beh, magari ci penseremo la prossima volta, adesso non possiamo lasciarci sfuggire un’occasione così rara, e finiamo fregati come polli da bar.
Ecco il potere immenso che le donne usano spesso a sproposito e quasi mai a proposito, lamentandosi delle scarse attenzioni che può suscitare un essere vivente avvolto in tute di Monaco ‘72, maglioni a strati, infradito indossate con le calze e una rabbia nello sguardo che gelerebbe il sangue nelle vene anche a Josef Mengele.
“Ma si può sapere perché odi così tanto tutte le donne?”.
“Io non odio tutte le donne; per esempio, Scarlett Johansson mi sta molto simpatica”.

martedì 5 aprile 2011

La signora Italia

La signora Italia ha quella forma strana che assumono le donne a una certa età. Non si possono definire grasse, piuttosto assomigliano a una pera: una di quelle tozze, strette in punta e larghe sotto, come le Williams. Attaccate alla pera, spuntano due gambette, secche e nervose, infilate in calze di nylon color carne. Come tutte le signore di una certa età, non porta collant, ma strani mutandoni muniti di reggicalze, anch’essi color carne. Lo so perché sono sempre stesi ad asciugare sulle corde del balcone della sua cucina e sono identici a quelli che indossava mia nonna.
La signora Italia si alza tutti i giorni molto presto. È impossibile coglierla in fallo. Ti svegli alle sette, e lei è già in cucina indaffarata in chissà cosa. Ti alzi alle sei e mezza, credendo questa volta di fregarla, ma la luce della sua portafinestra è già accesa.
La signora Italia ha trasformato il suo balcone in una specie di accampamento beduino chiudendolo sui tre lati con quei tendoni verde scuro che si usavano qualche anno fa. Rimane solo uno spiraglio grande quanto la portafinestra della cucina che ha, come zerbino, dei fogli di quotidiano.
Le tende sono fermate alla ringhiera con un certo numero di mollette e non vengono aperte quasi mai. Alla fine dell’inverno, il vento che si infila nel cortile come in un budello e le intemperie, riducono le tende a stracci bucherellati come fossero stati colpiti da schegge di granata. Di solito, il marito della signora Italia le sostituisce ogni due o tre anni.
La signora Italia arrotonda il bilancio familiare con ciò che distribuiscono al pane quotidiano. Non è che sia povera, ma credo che ami cucinare anche per la famiglia della figlia e poi, quando sono finite le scuole, durante la giornata accudisce il nipote, e quindi, si vede che anche quel poco aiuta.
Ci va tutte le mattine, naturalmente di buon’ora, camminando piano piano, con un’andatura leggermente ondeggiante da pinguino.
La signora Italia ha una figlia che si è sposata qualche anno fa.
Poco dopo il matrimonio, il marito si è ammalato di una specie di leucemia e pareva che non ci fosse niente da fare. Lo vedevo in giro per il quartiere accompagnato dalla moglie che, distrutto dalla chemio, camminava come un vecchio. Poi, inaspettatamente è guarito, e ora hanno anche un figlio, o forse addirittura due.
La signora Italia è una che si fa i cazzi suoi, nel senso che non ama mettere in piazza la sua vita, le sue cose - a parte i mutandoni stesi - e ciò che fa o non fa. Non ha ristrutturato casa e conserva ancora i pavimenti originali di brecciolino bianco e nero. Non ha ceduto come tanti altri al monocottura posato in diagonale, né alle porte stile barocco in finto legno massello marrone, né agli infissi in pvc che, in caso di fuga di gas, sono il modo più sicuro per morire, ma mantiene fieramente - come me - le sue finestre in legno verniciato di bianco.
La signora Italia resiste alle mode, è refrattaria al superfluo, vive del suo. Una lezione che tanti dovrebbero imparare.

lunedì 4 aprile 2011

Ecco come sono

Per uno come me, nato nei primi anni sessanta, immaginare il duemila, il ventunesimo secolo, era un esercizio frequente e leggermente ansiogeno.
Prima del liceo, immaginavo anni così smisuratamente lontani, in termini di fantascienza. Ero affascinato da tutto ciò che mi permetteva di evadere da un mondo che in fondo non era nemmeno così brutto, e da tutti quei film che promettevano cose strabilianti, e in ansia per altri che, invece, disegnavano il futuro come qualcosa di terribilmente inquietante, o che avrebbe visto il genere umano sottomesso ad alieni crudeli, il cui unico scopo era ridurre il mondo a un’enorme dispensa alimentare.
Alcuni di questi film sono e rimarranno per sempre nella memoria come una sorta di pietra miliare sulla strada della mia vita; Il Pianeta Proibito (con l’incredibile robot Robbie); La Meteora Infernale; Radiazioni B.X.: Distruzione Uomo; A come Andromeda (lo sceneggiato con Paola Pitagora); Ultimatum alla Terra; La Guerra dei Mondi; Il Mostro della Laguna Nera; L’Invasione degli Ultracorpi; Blob, Fluido Mortale e tanti altri.
È incredibile pensare che quando sarò con un piede nella fossa, il mio pensiero sarà ancora in parte occupato da queste meraviglie adolescenziali, da questi sogni di bambino. Forse il mio è stato un modo per evedere: da piccolo, da una vita troppo regolata e un po’ soffocante, da adolescente, dagli impegni incombenti della vita adulta e ora, da una realtà con cui non riesco ad andare d’accordo.
Mano a mano che l’idea di duemila si faceva più verosimile e reale nel mio cervello, cominciai ad essere ossessionato da quei film sempre più vicini alla data fatidica, nella quale immaginavo un modo radicalmente diverso da quello in cui vivevo; futuribile, avveniristico, pacificato, razionale e finalmente libero da credenze ataviche e superstizioni medioevali.
1975: Occhi bianchi sul Pianeta Terra; 1997 Fuga da New York; 1999, Conquista della Terra; Spazio 1999; 2000: la Fine dell’Uomo; 2001: Odissea nello Spazio; 2002 La Seconda Odissea; 2010 l’Anno del Contatto; 2022: I Sopravvissuti.
Alcuni portavano messaggi positivi, ma altri, - a dispetto delle mie convinzioni - erano incredibilmente pessimisti, come per esempio 2022, nel quale il pianeta è devastato da inquinamento e sovrapopolazione.
Quelle date, una a una, sono state tutte raggiunte e superate, anche se con un vago senso di straniamento, e il mondo è peggiorato. Sì, va beh, abbiamo i telefoni cellulari, i computer, la tac. Ma il resto? Dove sono le auto volanti? Perché siamo ancora schiavi del denaro? Perché il mondo è ancora così ingiuto e le disparità sociali ancora più ampie? Perché si muore ancora di cancro soffrendo, a dispetto di terapie che potrebbero annullare il dolore? E soprattutto, perché la religione ci sta ributtando indietro di secoli a calci nel culo e spauracchi primordiali?
Almeno ho la soddisfazione di vedere com’è la mia faccia da quasi cinquantenne, e non mi sembra poi così diversa da prima. La barba è più bianca che scura, d’accordo, però i capelli, anche se più radi, resistono e sono ingrigiti solo un po’ sulle tempie, come Reed Richards dei Fantastici Quattro.
Ecco allora come sono, ecco com’è diventato quello che, a quattordici anni, pensava che nel 2011 sarebbe stato un vecchio decrepito, addirittura impossibile da immaginare.
Ma dentro, appena sotto i peli grigi e le occhiaie della mattina, sono sempre lo stesso. Non tale e quale perché sarebbe idiota pensare di rimanere sempre gli stessi, ma quello che è il nocciolo vitale, l’essenza primordiale, è sempre il medesimo di quel bambino che guardava Il Pianeta Proibito, affascinato oltre ogni immaginazione e anche spaventato da forze oscure provenienti dal profondo della nostra stessa anima, il lato oscuro che ognuno possiede.
Se il segreto che ogni americano vorrebbe vedere svelato prima di morire è: chi ha ucciso realmente il presidente Kennedy? Per me non sarebbe sapere chi ha abbattuto l’aereo su Ustica o ha messo la bomba alla stazione di Bologna - perché in realtà già lo so - ma se esiste una qualche altra forma di intelligenza nell’universo.
Personalmente penso di sì, ma credo anche che le distanze e le scale temporali siano così enormi che sarebbe come pretendere qualcosa di così statisticamente improbabile da essere virtualmente impossibile.
Eppure, questa sarebbe per me la vera e unica domanda a cui anelerei trovare la risposta prima di andarmene.
Probabilmente una notizia del genere provocherebbe uno shock culturale così devastante per ogni abitante di questo mondo, da renderlo, questa volta sì - altro che 11 settembre! - diverso per sempre. Credo proprio che questo sia ciò che ci manca per effettuare il prossimo salto culturale ed evolutivo.

Tornando coi piedi per terra, penso invece che anche i nostri rapporti con la Francia e gli editori francesi siano andati a scatafascio. Ho ricevuto notizie dalla segretaria dell’editore, la quale, dice che le nostre pagine sono state molto apprezzate dal punto di vista tecnico, ma che hanno sollevato pareri contrastanti per ciò che riguarda la parte creativa: alcuni favorevoli, altri contrari. Dice di avere pazienza per qualche giorno e che, entro la settimana, riceveremo una risposta definitiva.
Sono troppo sgamato - o pessimista - per non capire che anche questa volta abbiamo fatto un buco nell’acqua. Anzi, a questo punto comincio seriamente a domandarmi se siamo noi a non funzionare più come dovremmo, tanto che, anche se ho deliberatamente deciso di non allegare mai immagini a questo blog, sono davvero tentato di sottoporre al vostro giudizio i lavori che ci hanno portato a fallire così spesso in questi ultimi tempi.

venerdì 1 aprile 2011

Come una puttana da casino

Mi sento prosciugato, proprio come le ignare vittime degli alieni succhiacervello dei film di fantascienza degli anni cinquanta.
Sono più o meno tre mesi che lavoro come uno schiavo a progetti, preventivi, proposte. Fino a oggi per più o meno duemila euro che, tra l'altro, non ho ancora incassato.
Non dormo più di cinque o sei ore per notte. Non posso farci niente, mi sveglio e penso se quelle cinquanta pagine andranno in porto o meno, oppure se l’altro preventivo era troppo alto o basso, o se quello che mi ha contattato, chissà come, alla fine mi farà lavorare.
La società che produce software gestionali, proprio ieri ha rifiutato il mio preventivo. “Ma è per una questione economica?” ho chiesto. “No, non è per quello” hanno risposto.
Eppure ci avevo creduto. Magari non sarò Bob Noorda, ma dopo tanti anni riesco a capire quando imbrocco la strada giusta per un progetto. E questa, ve lo giuro, era proprio un’ottima strada, anzi, un’autostrada.
Continuo a pensare che l’abitudine che ha contagiato anche il negozio di frutta e verdura sotto casa di chiedere preventivi e indire gare fra più soggetti (dall’agenzia al secchione smanettone) per il volantino delle offerte speciali, è una cosa perversa e controproducente.
Io sono convinto che debba essere l’agenzia a guidare il committente sulla strada giusta e non il contrario. Non è credibile che il cliente scelga un progetto grafico come si sceglie una carta dal mazzo di un prestigiatore di periferia, o come una puttana in un casino. 
Sarebbe come interpellare quattro medici per una diagnosi, e poi credere a quello che ha detto la cosa che ci saremmo aspettati, o che ci ha consegnato la parcella più economica. A volte si deve accettare ciò che a prima vista non piace ma funziona e, molto spesso, è proprio lo sciroppo più amaro quello che guarisce. 
Ma per continuare con la metafora dei medici, oggi sono tutti esperti di tutto, tutti pretendono di ricevere le cure che si sono autoprescritti, anche quando sono più dannose che salutari.
Tempo fa non avrei perso tempo con un’azienda formata da cinque soci, ognuno con un’idea diversa e ognuno convinto di essere il depositario assoluto delle verità del mondo. Ma oggi continuo a cascare in queste trappole, come un animale che sa di andare incontro a morte sicura e che pure non fa nulla per evitarlo. Non perché sia nella mia e sua natura, ma perché non abbiamo alternativa.
Continuo comunque a coltivare la speranza che l’editore francese capisca che per essere un buon art director non servono uffici lussuosi e tutti gli inutili fronzoli che giustificalo solo parcelle salate come il Mar Morto.
Come in un pesce d'aprile del cazzo, per ora non posso fare altro che incrociare le dita e sperare.

mercoledì 30 marzo 2011

Chapeau

Non capisco perché le cose devono sempre essere così difficili. Non mi frega delle varie leggi di Murphy, buone solo per farsi un sorriso, ma della vita vera. 
Mai una volta che si svolga secondo ciò che abbiamo immaginato, o quello che ci aspetteremmo o, almeno, nel modo più logico e razionale.
C’è questo editore francese che vorrebbe lanciare una rivista in Italia e che, per farlo, ha scelto di pubblicare un’inserzione su un sito molto specializzato e misconosciuto. L’annuncio era quanto di più vago ci potesse essere, tanto che pensavo fosse la solita fregatura o tutt’al più, qualcuno che volesse rifilare un’enciclopedia con bicicletta in omaggio. E invece è una cosa seria, a cui abbiamo lavorato come matti fino a ieri, giorno dell’appuntamento con l’editore in studio da noi.
E questa è stata la mia grande e, a quanto pare, giustificata preoccupazione.
A differenza che nel Nord Europa e buona parte del Nuovo Mondo nei quali è consuetudine condividere un unico appartamento come abitazione e luogo di lavoro, in Italia è ancora una prassi duramente consolidata la strategia del fumo negli occhi o se vogliamo citare Shakespeare del Tanto rumore per nulla.
Le grandi agenzie di pubblicità o gli studi più alla moda, usano infatti abbindolare i clienti con ambienti sfarzosi, segretarie dalla coscia lunga, creativi addobbati proprio come ci si immagina debba agghindarsi un artista della comunicazione o roba del genere. Ciò che il cliente spesso non sa, è che dietro alla bella scatola, al tavolo riunioni di cristallo, agli enormi quadri astratti alle pareti, l’acqua minerale Perrier offerta nei bicchieri di cristallo, l’avvenente pr e tutto il resto, non c’è nient’altro; solo la carta stagnola, ma niente cioccolatino. Perché il cioccolatino, o meglio, il motore dello studio o dell’agenzia, sta da un’altra parte; davanti al computer a casa propria, in studioli ricavati nei sottoscala, sul tavolo di cucina o altri infiniti posti anonimi e modesti.
Quindi, anche se la mia casa è grande, ho un ingresso per l’abitazione e un altro che uso per ricevere i clienti, il posto in cui lavoro è una sola grande stanza attrezzata con i computer e arredata come si deve, ricevere un cliente è sempre un terno al lotto.
Ho la targhetta fuori dalla porta, la macchinetta per il caffè - che ho servito all’editore e la segretaria in tazzine Illy decorate da Nam June Paik -, ho fatto venire mia nipote e l’ho sistemata davanti a un computer a cazzeggiare, ho offerto acqua minerale Evian e Sanpellegrino in bottiglietta, ho fornito ottime referenze e esibito un book invidiabile, se non altro in virtù di una carriera di quasi trent’anni.
Ma non so se tutto questo è bastato a convincere il francese, che si è dimostrato - almeno questa è stata la mia impressione - favorevolmente impressionato dal nostro lavoro ma che, secondo me, era molto ma molto combattuto sulla solidità e affidabilità della mia struttura.
D’accordo, non è colpa mia se quel pelato al secondo piano ha scelto di schiattare proprio il giorno del mio grande appuntamento con conseguente decorazione a lutto del portone, però, cazzo! Poteva anche aspettare ancora un giorno, uno solo.
Ma forse non è andata così male; non tutto è ancora perduto. Entro domani devo presentare ancora un paio di proposte, fare degli aggiustamenti. Penso sia una cosa buona, altrimenti l’editore avrebbe detto: Grazie, tanti saluti, le farò sapere. Invece, mentre guardava le stampate della mia proposta, mi è parso di avergli sentito dire un: “Chapeau”, che il dizionario online Hoepli definisce così: “Si usa come espressione cavalleresca di ammirata approvazione per un gesto, una prestazione sportiva, e simili”.
Quindi, se non è diventato un nuovo modo di prendere per il culo qualcuno, forse, non è ancora tutto perduto.

lunedì 28 marzo 2011

Solare o legale?

Adesso c’è anche questa cosa dell’ora legale. La scusa è quella del risparmio energetico, ma penso che ormai non ci creda più nessuno. E poi il fatto che deve sempre esserci qualcuno che ordina che ore sono, che mese è, che cosa mangiare, cosa fare, quando farlo, dove posso andare e dove non posso andare, mi fa venire voglia di fare esattamente il contrario.
Ma ci si abitua, ci si abitua a tutto, tranne a mia moglie che, ogni ottobre e ogni marzo, per almeno una settimana dopo che è entrata in vigore l’ora legale o quella solare, mi tormenta su che ora sia effettivamente: “Ma adesso sarebbero? Sì, ma se fosse l’ora di prima, adesso sarebbe che ora? Ma legale o solare? L’ora vecchia o quella nuova? Quindi ci alziamo un’ora prima o un’ora dopo? A che ora mangiamo? A quella di prima o quella di adesso?".
Lo so, sono stupidaggini, ma parlo di questo per non non pensare che oggi è la giornata che potrebbe decidere della nostra vita nell’immediato futuro.