venerdì 30 luglio 2010

Negli episodi precedenti...

In poche parole, la situazione è questa: a fine 2009 l'editore per cui lavoravo, mi impone un contratto-capestro con il tariffario che solitamente applicavo tagliato di oltre il 30%, e con clausole talmente vessatorie che non lo avrei mai potuto accettare. Non c'è stato verso di negoziare o controproporre; la sua posizione era: o accetti questo contratto o niente. Dopo un po' di tira e molla, all'ennesima minaccia mafiosa da parte sua, gli ho detto in faccia di andarsene a fare in culo.
Ero baldanzoso e sicuro della mia esperienza e capacità professionale. Pensavo che in breve tempo sarei riuscito a risollevarmi. Invece, malgrado abbia provato tutto ciò che era nelle mie possibilità - email promozionali, sito internet, conoscenze, amici, eccetera - sono passati mesi senza che si muovesse una foglia.
Viviamo dando fondo ai risparmi, e grazie a un lavoretto part-time di mia moglie.
Ho provato tutte le fasi dell'elaborazione del lutto teorizzate dalla dottoressa Elisabeth Kübler Ross, e spesso ricado in qualche flashback dell'una o dell'altra.
Mi sono illuso di poter intentare una causa a quel mafioso dell'editore, ho interpellato almeno quattro avvocati diversi, compreso quello dell'ordine dei giornalisti. Qualcuno si è tirato indietro, qualcun altro mi ha illuso, per disilludermi subito dopo. Fino a questa mattina, quando l'avvocato dell'ordine mia ha detto che: "Si potrebbe tentare, ma le leggi sono di diversa interpretazione, i giudici pure, poi bisognerebbe richiedere una perizia grafica che va pagata a parte, la causa potrebbe durare anni, lei spenderebbe dei soldi e non avrebbe la certezza matematica di una sentenza a suo favore...".
Va bene, ho capito. Ho capito che in questo paese le leggi sono fatte per i furbi, i cialtroni, gli arruffoni, quelli che hanno le spalle larghe per affrontare anni e anni di processi e pagare fior di avvocati.
Non per la gente onesta, per chi, dopo anni di sacrifici, di lavoro senza orari, di pochi soldi intascati, va a finire che se la prende immancabilmente nel culo.
In questo ultimo mese sono riuscito a trovare un po' di lavoro da una vecchia conoscenza in Sicilia. Qualche progettino e qualche speranza per settembre.
In compenso, ricevo un avviso dall'agenzia delle entrate che contesta i versamenti fatti per la cassa malattia, dicendo che la documentazione che ho fornito è carente, e quindi pretendono più di 1.400 euro di tasse, sanzioni, interessi e altri cazzi.
Ahahahahah, lo trovo così buffo! Ormai sono sull'orlo di una crisi di nervi (grazie pedro). Non basta averla presa nel culo da un editore stronzo e mafioso (e per di più pelato), non basta che non ci sia verso di intentargli una merda di causa, non basta che da quasi sei mesi non trovo uno straccio di lavoro, non basta che non abbia diritto a nessun tipo di ammortizzatore sociale, dovevano mettersi anche quelli dell'agenzia delle entrate.
Chiamo la commercialista (la famosa commercialista di Limbiate), che ha il coraggio di rispondermi che fra due giorni chiude lo studio e che, in poche parole, mi devo arrangiare. Mi sbatto come un coglione per raccogliere tutta la documentazione, non sapendo nemmeno cosa sto facendo. Domani spedisco la raccomandata e domenica porterò in vacanza la famiglia. Non perché mi piaccia frignare e poi spendere i soldi per andare al mare. Ma perché, con due figli allergici, sono costretto a portarceli.
Mi domando solo quale altra divertente peripezia dovrò affrontare in futuro.

giovedì 29 luglio 2010

Mi ritorna in mente...

Le forze dell'ordine picchiano, e picchiano duro. Gli aquilani che protestano a Roma, gli operai della Mangiarotti a Milano e così via.
Perché? Perché il manganello così facile verso chi manifesta pacificamente per rivendicare il suo diritto al lavoro o alla casa?
Nemmeno negli anni settanta, quando i giovani dell’autonomia scendevano in piazza con le pistole, le forze dell'ordine si avventavano così crudelmente verso gli indifesi. Nemmeno quando ministro dell'interno era Cossiga. Oggi è senatore a vita e presidente emerito della repubblica italiana. Peccato che quando apre bocca - su Ustica, Gladio o altri argomenti del genere - non faccia altro che intorbidire le acque di proposito, buttandoci sabbia e fango a piene mani.
Questo trafiletto è estratto da un articolo pubblicato da la Repubblica (Il vuoto del diritto) il 14 novembre 2008 a firma Giuseppe D'Avanzo:

"Cossiga ha spiegato come distruggere l'Onda, il movimento degli studenti: "Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano".
Cossiga (un uomo che sarebbe sciagurato considerare soltanto uno spericolato irresponsabile) dice quel che altri, nella destra di governo, pensano soltanto. Le polizie, nello "Stato governativo" preteso dalla destra, non dovrebbero più avere soltanto una funzione di mera esecuzione del diritto, ma farsi agenti attivi della sovranità del governo, muoversi in quell'area indifferenziata tra violenza e diritto che sempre definisce, nel caso d'eccezione, il comando del sovrano e il potere delle polizie".

Poco prima dei fatti del G8 di Genova nel 2001, eravamo in vacanza a San Bartolomeo al Mare, nella Liguria di Ponente. Lungo la via Aurelia c’era e c’è un negozio di alimentari gestito da una persona chiaramente di destra. Non lo dico così per dire, ma perché ha il negozio tappezzato da calendari di Mussolini, manifesti di propaganda dell’esercito, forze dell'ordine e così via. Questo signore ha un figlio che presta servizio, credo, nei carabinieri e, discorrendo con mia moglie, che ha il pregio involontario di far parlare anche i sassi, ha detto più o meno: 
“Vedranno quei bastardi di comunisti che pensano di andare a far casino a Genova che bella sorpresa li aspetta, gli faremo un culo così. Me lo ha detto mio figlio che sta nei carabinieri, che gli spaccheranno la faccia a tutti quanti!”. 
Sono parole pesanti, a cui ho ripensato mesi dopo, quando a Genova era successo quello che è successo, e mi sono domandato: Ma davvero quel coglione diceva così per dire, oppure il figlio aveva ricevuto indicazioni su come avrebbero dovuto trattare i manifestanti? E, anche se non le avessero avute, era questo il modo in cui i carabinieri preparavano un evento così delicato e che avrebbe necessitato la massima capacità diplomatica e di mediazione?.
Credo sia innegabile che, da qualche decina d’anni a questa parte, vi sia stato una sorta di sdoganamento della violenza da parte delle autorità.
Sembra quasi che il messaggio verso i cittadini sia: “Attenti a manifestare, anche se lo fate in modo pacifico, rischiate che vi si prenda a manganellate, senza pietà per donne, vecchi o bambini. Vi conviene starvene a casa tranquilli a vedere la televisione, che a mantenere l’ordine ci pensiamo noi”.
Non è certo una mia impressione che ci siano un sacco di persone morte di botte proprio sotto le aule dei tribunali, dove occhieggia allegramente beffarda la scritta: “La legge è uguale per tutti”, o in caserme chiuse ad avvocati e famiglie nelle quali si consumano pestaggi, torture e umiliazioni, seguite da risate e suonerie fasciste sui cellulari.
Un prodotto della politica di questi ultimi anni è questo. Resta da capire se è uno scarto del processo che ha portato a un imbarbarimento civile che non ha precedenti, o una precisa strategia d’ordine pubblico. Credo un miscuglio di entrambi. 
Alla politica non è mai piaciuto e non piace che i cittadini abbiano la possibilità di manifestare e vivere la propria nazione e, quindi incoraggia le autorità, oggi più che mai, a reprimere senza troppi complimenti.
Questo allentamento delle maglie della civile convivenza e del rispetto verso i cittadini, ha portato le forze dell’ordine a eviscerare l’anima naturalmente reazionaria, a rivalutare un'ignoranza ottusa portata a valore, a non sentirsi obbligate al rispetto delle leggi e così facendo, incoraggiare il timore verso l'autorità dei cittadini italiani.

mercoledì 28 luglio 2010

E mo' basta!

Come e peggio che in un romanzo di Kafka, uno Stato che non ha saputo e voluto fornire nessun tipo di ammortizzatore sociale per alleviare le mie condizioni economiche, non trova di meglio da fare che continuare a beffarmi attraverso l’agenzia delle entrate.
Se non sbaglio, i controlli formali sulle dichiarazioni dei redditi dovrebbero essere svolti a campione, questo è quello che ho sempre saputo. Anche perché non credo sia possibile effettuarli ogni anno sulla totalità dei contribuenti.
Il fatto, che ormai è diventato certezza, è che il sottoscritto sia finito, non si sa come e perché, in qualche sorta di database dei contribuenti a cui rompere i coglioni ogni anno, anche se non ho prove per dimostrarlo.
Ne ho già parlato nel post del 17.06.2010 “La storia si ripete”.
È un dato di fatto che, dal 1998 al 2010, sono stato sottoposto nell’ordine a: 1) Compilazione obbligatoria, pena controllo automatico sull’attività svolta, di un questionario sulle piccole imprese e l’esercizio delle professioni; 2) Altro questionario a compilazione obbligatoria sugli studi di settore; 3) Avviso di accertamento e conseguente ricorso (vinto) contro l’agenzia delle entrate; 4) Richiesta di trasmissione di tutta la documentazione relativa a contributi previdenziali, spese sanitarie eccetera; 5) Nuova richiesta di documentazione relativa agli oneri deducibili; 6) Rettifica delle imposte versate per i redditi 2007. L’agenzia delle entrate ha ritenuto carente la documentazione relativa ai contributi sanitari di mia moglie con una richiesta di oltre 1.400 euro di tasse non versate, interessi, sanzioni e cazzi vari. 
La media è di una rogna ogni due anni.
Anche questa volta, come tutte le altre, le richieste dell’agenzia delle entrate si riveleranno infondate, pretestuose, cieche e arroganti. Ma mi manda in bestia il fatto che dovrò pagare, per l’ennesima volta, la commercialista per sbrogliare questa inutile perdita di tempo e soldi che si presenta puntuale a ogni vigilia delle ferie estive.
È davvero inconcepibile che questo incubo si presenti con una frequenza così esasperante, sempre sulle stesse cose e sempre con esiti a mio favore. Perché allora continuare a tormentare un contribuente che si rivela invariabilmente in regola con tutti gli adempimenti fiscali? Perché perdere il denaro dello stato per torturare uno che non ha mai dichiarato più di ottantamila euro lordi? Perché non perseguire chi le tasse non le ha mai pagate o chi, come la fiat e tutte le grandi aziende chiude invariabilmente i suoi bilanci con un pareggio se con una perdita? Ci avete mai fatto caso? Avete mai letto i bilanci che vengono pubblicati sui giornali?
Non posso davvero rispettare un sistema così marcio, sistematicamente cialtrone e ladro, che si ostina a essere inflessibile e arrogante con la gente onesta e così servile e corrotto verso i potenti. Come si può avere fiducia in un sistema che ci considera ladri per partito preso, le cui richieste sono quanto di più villano, ipocrita e ottuso un cittadino possa sopportare? 
Sono italiano, voglio vivere e lavorare in italia, voglio che il futuro dei miei figli sia in questo paese, ma non riconosco questo sistema, questo stato, questo modo di rapportarsi con i cittadini, sempre più sudditi e pecoroni.

lunedì 26 luglio 2010

Socialmente responsabile

Ho sempre provato un certo orgoglio per ciò che ho dato alla mia famiglia. Una sensazione tutta mia, da godere in solitudine. Almeno fino a oggi. 
Non che abbia fatto chissà cosa: qualche vacanza, qualche capriccio per i ragazzi, qualche regalo in più a natale. Una casa comoda e accogliente, ma di certo non lussuosa. La possibilità per mia moglie di trascorrere il suo tempo con i figli e con me. 
Le mie pretese non sono mai state eccessive: non mi interessano i vestiti firmati, un cellulare nuovo ogni tre mesi o un'automobile che valga più di quanto possa permettermi. La deformazione a dare estrema importanza a tutto ciò che è visivo, bello, inaspettato, mi ha portato a spendere qualche centinaio di euro ogni tanto per libri di ogni genere, film e qualche oggetto che soddisfasse il mio bisogno del bello.
Praticamente non bevo, ho smesso di fumare sigarette in cambio di qualche buon sigaro cubano - ci ho provato con i toscani, ma non riesco a sopportarne la puzza - non amo bar e cose simili. 
Credevo di essermi ritagliato un posto tranquillo per la vita della mia famiglia. Nella speranza di non destare le attenzioni del destino, ho volato sottotraccia accettando con soddisfazione il poco o il tanto che riuscivo a ottenere. Sperando che il mondo non si accorgesse di noi, che ci facesse vivere tranquillamente.
Sono ateo, perciò non posso accusare nessun dio di avermi abbandonato o di non avermi aiutato nel momento del bisogno, non voglio nemmeno pensare alla sfiga, il destino, il karma o qualunque altra superstizione atavica. Inutile accusare me stesso, anche se la tentazione è molto forte, ma so che è illogico. E allora con chi dovrei prendermela? Chi devo accusare? Il mafioso pelato che non ha esitato a rovinare una famiglia senza il coraggio di ammetterlo davanti alla sua anima lurida e presuntuosa? Forse, ma non è abbastanza, non mi soddisfa, non può essere così semplice.
Penso alla fiat, che preferisce produrre le sue automobili in serbia, paese in cui i lavoratori non hanno alcun diritto e guadagnano 400 euro al mese, piuttosto che mantenere famiglie italiane che, con le tasse hanno pagato la cassa integrazione e le perdite dell'azienda e che, dei guadagni, non hanno mai visto un centesimo. 
È “socialmente responsabile” - locuzione odiosa che va tanto di moda fra le grandi multinazionali con la coscienza sporca - che un’azienda a conduzione familiare diventata ciò che è grazie ai soldi del piano Marshall, i finanziamenti statali, gli sgravi fiscali, l’ammortamento delle perdite chiamato cassa integrazione, decida di spostare, nel nome di una non ben precisata globalizzazione, la sua produzione in paesi in cui non esistono diritti dei lavoratori e la manodopera costa niente? 
Insomma, dopo aver fatto pagare sempre e comunque le perdite ai lavoratori e agli italiani, ora, nel nome dell’economia selvaggia, si permette di dare un calcio in culo a decine di migliaia di lavoratori, mogli, figli, genitori e anche cittadini. 
Non ho letto su alcun giornale una proposta una, per risolvere questa lenta schiavizzazione di migliaia di italiani. Solo pompose analisi che lasciano il tempo che trovano, ma nessuna soluzione.
Già immagino cosa proveranno tutti questi operai e le loro famiglie, perché è proprio quello che sto passando anch’io. 
Si incazzeranno, altro che, se si incazzeranno. Prenderanno un po’ di manganellate dalla polizia, un sussidio di disoccupazione per qualche mese, con l’angoscia di cosa fare una volta terminati i soldi e, come me, si meraviglieranno di come il mondo continui la sua vita, indifferente verso la loro disperazione.
La prima volta che provai una sensazione simile fu alla morte di mio padre: non riuscivo a capacitarmi di come mai la vita fuori dalla porta di casa potesse proseguire indisturbata malgrado un dolore così profondo. Mi stupivo addirittura che anche le case, le auto, gli alberi, non dessero alcun segno di tristezza. Poi ho capito che il mondo esiste perché io esisto. Quando non esisterò più, per quanto mi riguarda, non esisterà più nemmeno il mondo.
Non è che il mondo fosse indifferente alla morte di mio padre, era semplicemente che il mondo, per mio padre, non esisteva più e viceversa.
Eppure continua a farmi rabbia questa indifferenza che mi circonda, rispetto a quando il telefono squillava ogni dieci minuti e un sacco di gente si preoccupava di me, pensava a me, aveva bisogno di me. 
Proprio come la mia famiglia, che continua ad avere bisogno, ma sono io questa volta, a non poter soddisfare le sue necessità. 
Per aiutarla non esiterei a corrompere, a farmi corrompere, farmi raccomandare, a fare tutto ciò che sarebbe moralmente inaccettabile, perché ciò che conta, al di là di tante belle parole, è il benessere dei propri cari, perpetuare i propri geni, contro tutto e tutti. 
Questa volta non mi farei gli scrupoli morali che mi rodevano il cervello a causa di ciò che andava contro i miei principi. Il lavoro è lavoro. Punto e basta. E un uomo a cui viene tolta la dignità e la possibilità di crescere i propri figli, è un uomo cui è stata inflitta la più tremenda delle ingiustizie. 

venerdì 23 luglio 2010

La dentista turchina

La nostra dentista ha i capelli blu. Non come le vecchiette americane che girano per Miami con le capigliature leggermente virate all'azzurro o al rosa; sono proprio blu, come quelli di Gina Lollobrigida nei panni della fata turchina in Pinocchio, quello di Comencini. L'unica versione che valga la pena vedere.
Comunque, dicevo che la nostra dentista ha i capelli blu, ed è anche leggermente pazza.
Lo so che non c'è nulla di più inquietante di un dentista pazzo o, peggio ancora, nazista, come ne Il maratoneta. Però è al contempo estremamente gentile e, cosa indispensabile, ha mani molto piccole.
In verità non sono solo le mani ad essere piccole, ma tutta la persona: uno scricciolo di dentista. Peccato solo per i metodi antiquati o almeno così credo. Spesso sui giornali si legge di nuovi ritrovati fantascientifici come laser, o trapani ad acqua o a ultrasuoni, ma poi, non si sa come mai, il tuo dentista continua a usare trapani con punte intercambiabili per nulla piacevoli.
La mia sensazione è quella della solita presa per il culo, in cui, chi se lo può permettere, accede alle cure migliori e più moderne, e la massa, la plebaglia cafona, si accontenta di quello che c'è.
Non bisogna però farsi ingannare dalle apparenze, sotto quello scricciolo di dentista si nasconde un'anima complessa e inquieta. Da quando (lei) ha mollato il marito, gira a cavallo di moto di grossa cilindrata e spende gran parte delle sue notti in balere latinoamericane. Di giorno invece, alterna ad ogni visita la navigazione su facebook, un vizio da cui non riesce a staccarsi nemmeno sul lavoro.
A settembre dovrei andare a curare qualche dente e confesso di essere leggermente preoccupato. L'ultimo che mi ha curato non ha fatto una grande riuscita e mi fa più male di prima, tanto che da quella parte non riesco quasi a mangiare. Poco male, tanto sono a dieta e mi basta ruminare come una capra, o meglio, come un vecchio manzo imbolsito. La cosa insopportabile è però la sensibilità a tutto ciò che non è a temperatura ambiente, una vera tortura con questo caldo.
Mi consola l'editore siciliano col quale, per qualche strana alchimia, vado d'amore e d'accordo. Mi ha passato un altro lavoretto da chiudere entro la prossima settimana. Come si dice: meglio di un calcio nel culo.

giovedì 22 luglio 2010

La dieta miracolosa

Mi hanno messo a dieta. No, L. mi ha messo a dieta. E io ho scelto di accettarla.
Saranno un paio di settimane o forse più che non vedo un piatto di pasta, e questa è la cosa che mi manca più di tutte. Del resto non me ne frega niente: carni, secondi, contorni, patate fritte. Ma la pasta - non quella primo prezzo, o barilla, o agnesi, che sono tutte fatte con grano che non si sa bene da dove venga - ma quella trafilata al bronzo, impastata con grano italiano, preferibilmente marchigiana o abruzzese, cotta come si deve e condita con sughi semplici come pomodoro e basilico, pesto o un buon ragù, quella sì, che manca da morire.
Adesso mangio solo verdure, frutta, un po' di ricotta, fesa di tacchino al forno, tonno al naturale. La morte dell'arte culinaria italiana.
La fame non mi dà più fastidio: solo la prima settimana è stata dura, lo stomaco gorgogliava come un subacqueo che sputa bolle, ma adesso non me ne accorgo quasi più. Mi pare solo che m'abbiano rubato qualcosa di prezioso, come un senso di vaga mancanza.
La parte più dura di tutta questa faccenda è mettersi davanti al piatto di pomodori e cipolle, conditi con poco olio, ancor meno sale e un po' d'origano, mentre, a fianco, i miei figli sembrano delle idrovore che lavorano senza sosta. In questi momenti devo ammettere di provare appena una punta di tristezza, ma mi consolo pensando che ogni tanto, magari la domenica o il sabato, posso strappare la regola con una pizza o un piatto di pasta. E che cazzo! Va bene la dieta, ma non voglio diventare uno di quei pazzi integralisti che credono che mangiare una pizza possa mandarti in coma. Anche se questo è ciò che pensa la ginecologa di L., che ha sviluppato una strana teoria sui cibi che non ho mai capito e non ho nessuna voglia di capire adesso. In poche parole, lei crede che alcuni cibi siano un terribile veleno per il nostro organismo. In particolare gli zuccheri, i cereali, le graminacee (grano), le patate, il maiale in tutte le sue (fantastiche) accezioni: prosciutto, salame, braciole, arrosto ecc., i crostacei e altre amenità.
La sua dieta, che lei definisce "dell'uomo delle caverne", è tutta a base di carne (no maiale), pesce, frutta e verdure, ed esclude totalmente tutto ciò che è a base di cereali e latticini. Su una cosa sono totalmente d'accordo con ciò che dice e che consigliava anche il vecchio pediatra dei miei figli, e cioè che, per dimagrire, non ci sono beveroni, pillole miracolose e barrette che tengano: non si deve mangiare. Questa è l'unica dieta sicura.
E devo dire che queste due o tre settimane di tortura, qualche risultato l'hanno prodotto. Quando passo davanti allo specchio, comincio a sentire meno la dicotomia fra ciò che mi sento di essere e la persona che vedo riflessa. Sono meno stanco, mi piego e mi abbasso senza fatica, mi pulisco il culo con più facilità; sarà anche prosaico, ma è la verità. Quindi questa volta ho deciso di proseguire fino a che lo specchio - e non la bilancia - rimetterà insieme la persona che abita dentro il mio corpo con l'immagine riflessa. Fino a che la farfalla e l'ippopotamo saranno di nuovo una cosa sola, qualcosa che assomigli finalmente a me.

mercoledì 21 luglio 2010

Troppo lento o troppo veloce?

Il tempo è una bestia strana. Sono quasi cinque mesi che cerco di risollevare la situazione finanziaria e non so dire se mi sembrano tanti o pochi. Dovessi affidarmi al senso di colpa - anche se colpe non ne ho - sono tanti, tantissimi. Non è stato facile riprendermi da una cosa così stravolgente, non solo per la mia vita, ma anche per quella di chi mi è vicino, e credo che la strada sarà ancora lunga.
Se penso invece a quello che ho potuto fare, gli impulsi artistici finalmente assecondati, il nuovo ordine che cerco di trovare alla mia vita, questi mesi sono passati come un'auto in corsa: un ronzio lontano che ben presto si trasforma in rombo prepotente, di cui resta solo il ricordo e un fischio nelle orecchie.
Dicono che il tempo sia soggettivo, credo sia vero. Aspettare l'autobus una domenica pomeriggio di luglio, non è come il tempo - sempre troppo poco - passato insieme alla ragazza di cui si è innamorati.
Ma oltre a questo aspetto, pare ce ne sia un altro ancora, sempre a proposito della percezione del tempo. Sembrerebbe infatti che la concezione del passare del tempo cambi con l'età. E questa mi sembra un po' la scoperta dell'acqua calda.
Mia nonna, da che mi ricordo, ripeteva sempre che il tempo scappa come un ladro e che cercare di fermarlo è come prendere un anguilla: ti pare di averla acchiappata, la senti tra le mani, ma in un attimo ti trovi a stringere solo le tue dita viscide.
In effetti, da piccolino, il tempo mi sembrava infinito, potevo quasi sentirne il rumore, il fischio del suo scorrere. Quel "Ci vediamo fra un'oretta" che diceva mio padre quando usciva la domenica pomeriggio, si dilatava in un'attesa infinita, un tempo filaccioso di gomma e colla che non passava mai, un continuo ripetere fra me e me: "Ma quanto dura questa cavolo di oretta?".
Poi c'era l'attesa per natale, lunga, tormentosa, infinita.
O i compleanni, aspettando i quali si diceva: "Ho sette anni e mezzo - oppure - ho quasi nove anni". Come se lo scorrere del tempo fosse qualcosa di troppo lento per la fretta di un bambino.
Oggi tutte queste feste scorrono una dopo l'altra come una giostra che, in un lampo, ha già fatto un altro giro. Oh cazzo, ho citato Tiziano Terzani senza volerlo. Giuro, non l'ho fatto apposta, tra l'altro non mi è neppure simpatico.
C'erano poi quelle tappe formidabili dell'adolescenza, come i fatidici quattordici anni, l'età minima per girare con uno scassatissimo garelli vip tre marce e, magari, caricarci una ragazza per fare il giro del quartiere, quest'ultima, rimasta solo una pia illusione. O i sedici anni del patentino per guidare uno zundapp, un ktm o un morini. Roba seria, per volare oltre i cento chilometri orari e con cui, almeno così credevo, rimorchiare sarebbe stato praticamente automatico.
O soltanto l'attesa per una ragazza che, prima o poi, si sarebbe invaghita di me. La più lunga e difficile.
Eppure i miei figli pare crescano così velocemente, in modo così implacabile, che quasi stento a ricordare come fossero solo un mese prima. Crescono a scatti, come nel salto triplo, solo un mese, o un anno fa, avevano una vocina angelica e, improvvisamente, te li ritrovi uno con i peli sulle gambe che pare l'uomo lupo, e l'altra che quasi le spuntano le tette.
Mi sembra la scena della vetrina in L'uomo che visse nel futuro, in cui il manichino muta vestiti e mode in un caleidoscopio vertiginoso.

martedì 20 luglio 2010

Il parrucchiere degli artisti

C. avrebbe bisogno di tagliare i capelli, ma non sembra molto entusiasta. Posso capirlo, si trova in quell'età in cui la musica è molto importante e, come i suoi modelli, porta i capelli lunghi e incolti. In effetti, ha una notevole somiglianza con Jim Morrison, anche se il carattere è più simile a quello di mister Bean. Visto però che sono stato io a introdurlo al rock, il progressive, l'hard rock e la psichedelia, non ho nessuna voglia di obbligarlo a tagliarsi la zazzera.
Non ho mai sopportato l'autorità, di nessun genere, né quella dei poteri forti, che ci vorrebbero come pecorelle da tosare, né l'autoritarismo familiare al quale mio padre, che per altri versi era una persona davvero rara, mi sottoponeva ogni volta che riteneva i miei capelli troppo lunghi.
Lui chiamava il suo parrucchiere per nome. Domenico. Una vetrina in viale Monza, poltrone modernamente anni settanta color beige e marroncino, in tinta coi camici da lavoro e i soliti specchi dappertutto. Domenico era un signore che non ho visto quasi mai sorridere, pettinato come un ibrido fra Ugo Pagliai e Mario Merola, fiero dei suoi tanti capelli e con un gusto estetico che escludeva a priori l'avvento dei Beatles o qualcosa che fosse anche leggermente diverso dalla riga a sinistra e una vigorosa cotonatura ai lati della testa.
Lo odiavo, perché qualunque fossero le mie indicazioni sul taglio, lui faceva sempre come gli pareva, o forse seguiva le direttive di mio padre, chi lo sa. Usava quelle terribili forbici a pettine che più che tagliare, strappavano i capelli, la macchinetta a mano per la sfumatura sulla nuca e il rasoio, sempre a mano, per la peluria sul collo.
Andava un po' meglio con il ragazzo di bottega che, secondo me, era già ben oltre i trenta e, malgrado il marchio di fabbrica fosse sempre lo stesso, provava forse un briciolo di pietà e non mi gonfiava i capelli ai lati della testa con spazzola e asciugacapelli.
La mia indipendenza dal temuto Domenico, avvenne verso la fine delle medie, quando riuscii a convincere i miei a farmi tagliare i capelli dal parrucchiere sotto casa, con la scusa che tutti i miei amici andavano da lui.
Si chiama Bruno ed è ancora in piena attività. L'aspetto lasciava pochi dubbi: si sarebbe potuto confondere all'interno dell'Equipe 84, i Dik Dik o i Giganti, e nessuno se ne sarebbe accorto. Riga con sberla di capelli buttati all'indietro, basettoni e riccioli a coprire il collo. Ma la cosa che mi piaceva di più era la loquacità e la curiosità sulle novità musicali e non solo. Suonava le tastiere, si interessava di letteratura, anche se non gli è piaciuto Flaiano. "Mah, io in questo Flaiano non è che ci ho trovato 'sto gran ché". Mi ha detto una volta. E poi dipingeva. Il maestro era un ex venditore ambulante di frutta e verdura che, dopo aver acquistato non si sa come, una serie di box in giro nel quartiere, si era dato all'arte. Tra parentesi, aveva un figlio così brutto che si era fatto crescere la barba per nascondere almeno un po' di faccia.
Nel negozio c'era sempre qualcuno che non avendo nulla da fare, passava il tempo a chiacchierare con Bruno o altri nullafacenti. Spesso c'era da aspettare, ma ne ero più che felice perché nella catasta di giornali vicino alle poltroncine, oltre alle solite rivistine scandalistiche, non mancava mai qualcosa di più forte, come Playboy o Playmen.
Dopo un paio d'anni di liceo, le mie visite da Bruno divennero però sempre più rare. Anch'io avevo cominciato a scoprire il rock; uno dei primi dischi comprati alla New Kary di via Torino fu Stormbringer dei Deep Purple. Poi vennero tutti gli altri: Doors, Pink Floyd, Jimi Hendrix, Cat Stevens, Bob Dylan, The Who, AC/DC e in terza scoppiò il raggae di Bob Marley. Insomma, tutto il percorso della musica rock, progressive e psychedelica degli anni settanta. Tagliarsi i capelli era quindi una cosa al di fuori di ogni logica, anche se non erano tutti così estremi come me.
Ripresi a frequentare Bruno un paio d'anni dopo la fine della scuola: non potevo andare a cercare lavoro con i capelli lunghi fino alle spalle e quindi la scorciatina fu d'obbligo. Fino a raggiungere l'estremo opposto qualche anno dopo, quando Bruno aveva inaugurato la nuova insegna: "Il parrucchiere degli artisti" e io, per il terrore di diventare calvo, cominciai a tagliarmi i capelli a spazzola.
Dopo qualche tempo, ho capito che era un taglio che potevo realizzare tranquillamente a casa mia con quelle macchinette elettriche che ormai si trovano da tutte le parti e, anche se a malincuore e rimpiangendo le chiacchierate sul più e il meno, ho tradito Bruno con un rowenta logik elettrico semiprofessionale.
Ora è C. che vuole tagliare i capelli esclusivamente da Bruno, perché, dice: "Esegue esattamente quello che gli si chiede".

lunedì 19 luglio 2010

Meglio di niente

Uno dei concorsi fotografici a cui ho partecipato si è concluso e non ho vinto.
Non è che pensassi davvero di riuscirci, ma coltivavo l'illusione di piazzarmi almeno fra i primi dieci.
No, non mi passa nemmeno per la testa l'idea di cedere a una delle solite, infantili polemiche su quanto siano banali le foto altrui o interessate le scelte delle giurie. Chi ha partecipato ha dato il meglio di sé e chi ha giudicato ha espresso il proprio giudizio secondo il suo insindacabile gusto personale.
Speravo più che altro in un po' di culo.
Parafrasando La Fontaine, potrei dire che, in fondo, il premio era la solita macchina fotografica digitale e quindi niente di speciale, però avrei potuto venderla su eBay.
Ma la vera novità di questi ultimi giorni è stata l'interesse da parte di un aggregatore di contenuti della rete, verso quel poco di arte prodotta insieme a L.
Finora non abbiamo mai ricevuto e, forse per paura di disillusioni, nemmeno mai cercato, riscontri sulle nostre opere. Questa è la prima volta in assoluto che qualcuno apprezza o, se non altro, ritiene degno di interesse, qualcosa che, con sforzo e fatica, abbiamo creato in questi ultimi mesi.
Non posso negare che mi faccia molto piacere e mi inorgoglisca, anche se, così com'è, non mi aiuterà a sbarcare il lunario.

venerdì 16 luglio 2010

Tanto per dire

Sono contento che il cliente abbia accettato anche il preventivo. Sono stato così basso che quasi me ne vergogno e sarò fortunato se riuscirò a tirare fuori uno stipendio risicato da tutto il lavoro.
L'unico neo è che, essendo siciliani, hanno tempi diversi da noi stakanovisti nordici. Specialmente nei pagamenti. Non me lo invento io, sono loro che lo dicono, anche con un certo orgoglio: "Ah guardi che noi abbiamo altri tempi, non come al nord dove correte sempre. Siamo più lenti, ma non si preoccupi, arriviamo sempre". E infatti, anche se con una certa lentezza, i pagamenti sono sempre stati regolari.
In effetti hanno ragione, ci sono stati dei periodi, quando ancora lavoravo a pieno ritmo, in cui la mia vita era fatta solo di lavoro, anche dieci dodici ore al giorno, e quando dopo le diciannove non rispondevo più al telefono, mi sono pure sentito dire che: "Tu devi essere reperibile in qualunque momento. Non sono io che devo adeguarmi ai tuoi orari, sei tu che devi adeguarti ai nostri". E chi poteva dire una cosa del genere se non il mafioso pelato? Proprio lui, che prima delle dieci del mattino non arrivava in ufficio e poi pretendeva di avere tutti ai suoi piedi a qualunque ora chiamasse.
A proposito, ora che ho incassato le tue miserabili fatture, partirà l'azione legale per farmi pagare le gabbie grafiche che stai usando impropriamente, lurido bastardo!
Eh sì, la rabbia non è ancora passata, sono ancora nel pieno delle cinque fasi  della dottoressa Elisabeth Kübler Ross, e credo che le mie origini meridionali non la faranno passare finché campo.

giovedì 15 luglio 2010

Poco ma buono

Progetto approvato. Fra le tre alternative che ho presentato, il cliente ha deciso per quella che meno mi convinceva, ma è sempre così.
Presenti diverse idee, puntando però su una in particolare da cui sviluppi tutto il progetto. Poi aggiungi un paio di alternative, così, tanto per fare numero, sempre meritevoli, ma decisamente inferiori a quella che hai scelto. E il cliente cosa fa? Preferisce sempre e immancabilmente la meno valida.
Se scommettessi dei soldi prevedendo, fra tre o quattro alternative, quale verrà scelta dal cliente, non ho dubbi, girerei in mercedes e farei lavorare gli altri al posto mio.
Il problema sta principalmente dalla parte del cliente che vuole sempre avere due o tre alternative. Questo secondo me è sbagliato. Se andassimo da un sarto per un vestito, probabilmente discuteremo con lui sul colore, il taglio, la stoffa, altri particolari come i bottoni o le tasche e poi ci affideremo alla sua esperienza e professionalità, sicuri che saprà proporci qualcosa di adatto a noi e al nostro gusto. Credo che nessuno pretenda che il sarto proponga tre alternative fra le quali scegliere l'abito che intende ordinare.
Perché allora non fidarsi della professionalità di un grafico che, in base alle esigenze, i gusti e le necessità del cliente è in grado di proporre la soluzione giusta per quel lavoro? Io sono convinto che la soluzione giusta, quella che calza a pennello alle necessità di comunicare del cliente sia una, solo ed esclusivamente una. Perché allora permettergli di scegliere l'opzione che, come forza comunicativa, è inferiore a quella giusta?
Forse è colpa del mondo che stiamo vivendo e la sua ridondanza di informazioni e stimoli. Un mondo in cui la maggiore libertà (apparente) di scelta, non è altro che un modo per imprigionare il nostro tempo. Prendiamo per esempio le compagnie telefoniche. Tutto sembra gratis: telefoni, ore e ore di conversazione, migliaia di sms al mese, internet sempre e dovunque. Ma avete mai provato a capirci qualcosa di più? Io sì, ho perso ore sui vari siti cercando di capire, al di là dei facili slogan, quali fossero i reali costi di ogni servizio, scoprendo che, dietro ai tanti gratis, c'erano canoni mensili, obblighi di non recesso, costi per i megabyte aggiuntivi rispetto ai pochi compresi nell'offerta e altre amenità simili. Per non parlare del fatto che tutte le compagnie hanno prezzi più o meno livellati e, quindi, alla fine una vale l'altra. È questo allora il vantaggio della scelta? Avere più soggetti che, dietro facili slogan, offrono la stessa cosa allo stesso prezzo? Con lo svantaggio che per capirlo abbiamo perso molte più ore del necessario.

mercoledì 14 luglio 2010

In attesa

Oggi consegno le prime bozze delle brochures. Credo sia risultato un buon lavoro, anche se non facile.
I mesi di inattività, seguire tutti i giorni E. con i compiti delle vacanze, controllare che C. si eserciti nelle materie che deve recuperare, preparare da mangiare, lavare i piatti e, contemporaneamente, lavorare, sono cose a cui non ero abituato.
Ora sono in attesa di notizie dalla Sicilia e mi sento lo stomaco sottosopra come uno scolaretto agli esami di quinta elementare. Incrocio le dita.

martedì 13 luglio 2010

Niente di nuovo sotto il sole

Da qualche tempo antipatici cartelli sul marciapiede avvertivano che il giorno tale sarebbe stato vietato il parcheggio in quasi tutta la via. L'importante associazione di categoria ci aveva già rotto i timpani per quasi due anni prima di terminare la ristrutturazione della sua nuova, lussuosissima sede. Ora ha probabilmente trovato l'ennesima scusa per continuare a rendersi terribilmente insopportabile verso la vita del quartiere.
Ci saranno oltre 32 gradi ed ecco arrivare le prime auto della polizia locale; ne scendono una quantità di vigili in alta uniforme: stivali con speroni, giacche con gli alamari d'oro, sciabole tirate a lucido. E pensare che quando li chiami per le auto sui marciapiedi o davanti ai passi carrai rispondono invariabilmente che non possono certo uscire per delle sciocchezze del genere.
Successivamente, un camion per il trasporto cavalli, sputa due splendidi esemplari bianchi, bardati di tutto punto, che attraversano la strada maestosi e, montati da due vigili anch'essi in alta uniforme, si avviano nel cortile dell'associazione. Ogni tanto butto un occhio dalla finestra, sempre più incazzato. Chi mai sarà la, o le persone che vengono in visita nella sede dei più noti evasori fiscali dall'avvento di cristo? Il via vai di auto blu con lampeggiante sul tetto che intasano la via parcheggiando prepotentemente dove capita, parla di gente importante, come anche il tappeto rosso che dei previdenti leccaculo hanno disteso all'entrata. Alcune auto entrano direttamente nel cortile, quelle di scorta si fermano dove gli pare: ne scendono i soliti fighetti che si ispirano più ai telefilm americani che ai nostrani marescialli. Completi stile Armani con doppi spacchi posteriori, teste rasate e lucide come angurie, pistole che sporgono sapientemente dalle giacche, occhiali da sole.
Tutto ciò che vedo passare, è il frutto delle mie cazzo di tasse, sono soldi miei, le auto, i vigili, i cavalli, le scorte, le pistole, sono i soldi che mi vengono estorti ogni anno in cambio di un emerito cazzo di niente.
Vengo a sapere che sulla prima auto blu c'era addirittura il ministro del lavoro Sacconi, venuto a omaggiare il suo bacino elettorale.
Ma la processione non è finita: sento i vigili che si parlano da un lato all'altro della strada: "La Moratti sta arrivando? Sì, sarà qui a momenti".
D'altronde come poteva mancare chi, qualche tempo fa, è scesa in piazza insieme agli esercenti di corso Buenos Aires e a cui ha appena regalato quattrocento nuove luci? Poteva mai esimersi dal presenziare all'autocelebrazione di chi, ai tempi dell'avvento dell'euro, ha raddoppiato da un giorno all'altro le proprie ricchezze?
E pensare che non più di una settimana fa, L. ha scritto a: "Casa di Letizia Moratti", l'associazione che il nostro peggior sindaco ha creato per favorire, cito testualmente dal sito: "Incontro, ascolto, orientamento. ...mettersi al servizio delle persone, proponendosi come un vero e proprio centro d'ascolto per giovani, famiglie e anziani". Beh, non le hanno nemmeno risposto.
Passa qualche ora e, dal balcone opposto, vedo che sull'enorme terrazzo dell'associazione, sotto almeno cinque sei gazebo, gente e politici che fanno la bella vita coi soldi delle nostre tasse, si dedicano, come al solito, all'abbuffata di rito, con tanto di orchestrina dal vivo che suona allegri motivetti semiclassici a base di viole, violini e trombette.
Tutto sotto la vista di poveri balconi con tende sdrucite, mutande e tute da operaio stese ad asciugare, e nessuno che ha più né la voglia né la forza di mandare affanculo questi parassiti che, indifferenti, si riempiono le pance.

lunedì 12 luglio 2010

La macchina del tempo

Il lavoro procede, finalmente ho sbloccato qualche meccanismo che inceppava il motore e riesco di nuovo a produrre cose piacevolmente creative. Non dico sia facile e mi costa molta più fatica rispetto a un anno fa, ma, poco alla volta, riesco ad andare avanti.
Non nego di essere ancora disorientato. Questo piccolo lavoro mi ha ridato una certa fiducia, ma l'avvenire è davvero imperscrutabile. Probabilmente settembre dovrà portare qualche novità, o almeno me lo auguro, perché sarà anche il periodo in cui i pochi risparmi se ne saranno andati tutti in tasse.
È in questo periodo che mi capita di affacciarmi alla finestra della camera da letto, e pensare che vivo in un condominio che, almeno per me, è come una specie di macchina del tempo.
Ci abito da così tanto che potevo passare sotto al tavolo del salotto dei miei genitori senza nemmeno abbassarmi. I balconi del loro appartamento si affacciavano in due direzioni: a sud, verso la strada, il mondo esterno, le automobili che passavano, la gente che andava a lavorare.
A nord, davano verso il cortile, vietato ai giochi dei bambini, decorato con aiuole esagonali in cui prosperavano delle enormi ortensie. A dividere due cortili sorge il palazzo centrale del condominio che, nel suo complesso, è formato da tre costruzioni parallele; due rivolte verso strada da un lato e il cortile dall'altro, e una centrale con vista solo sui cortili.
Ed era il balcone verso il cortile quello a cui si rivolgeva tutta la mia attenzione di bambino. A mezzogiorno, potevo scorgere attraverso le portefinestre delle cucine, i vicini che pranzavano e chiacchieravano, poi un concerto di stoviglie in lavaggio nei lavandini. Nei seminterrati adibiti a uffici e laboratori, lavoravano disegnatori di fumetti con cui, insieme agli amici, scambiavamo qualche parola solo per poter spiare il loro lavoro. E il pomeriggio, dal balcone, con le gambe che penzolavano attraverso la ringhiera, si parlava da un bambino all'altro.
C'era una certa Milena che stava al secondo piano. Me la ricordo perché aveva lo stesso nome di Milena Sutter, quella ragazzina di 13 anni, rapita e uccisa nel 1971. Un caso di cui, sia in famiglia che alla televisione, si parlò molto. Poi c'erano le due sorelle sarde al terzo piano, proprio di fronte al mio balcone. Una andò, come me, al liceo artistico e qualche volta abbiamo fatto la strada insieme fino alla metro. La scuola l'ha un po' sbandata e, per un certo periodo, come dice sua madre, si faceva le punturine. La sorella più piccola è stata gravemente ammalata e i miei genitori mi hanno obbligato ad andarla a trovare in ospedale. Oggi a quanto pare sta benissimo. Poi c'erano i gemelli, un maschio e una femmina, ma non ci parlavo molto perché stavano quasi sempre per i fatti loro. Qualche anno dopo il maschio è morto di non so cosa. La sorella adesso insegna inglese alle scuole elementari e dicono che non sia una persona estremamente equilibrata.
Sempre di fronte, ma all'ultimo piano c'era un'altra coppia. Anche loro fratello e sorella. Erano molto alti per la loro età e altrettanto intrattabili.
Durante l'adolescenza tutto questo teatrino non mi è più interessato e credo di non aver più guardato da balconi e finestre che davano sul cortile per una buona decina d'anni. Poi, dopo il matrimonio, mi sono trasferito in un appartamento con vista solo verso la strada, perciò non ho più avuto la minima idea di quale fosse la vita da cortile.
Il caso ha voluto che, più o meno quattro cinque anni fa, cambiassimo nuovamente appartamento. Questa volta le finestre e i balconi si affacciano nuovamente su entrambi i lati: strada e cortile. È stata una fulminazione: tutto è cambiato ma, stranamente, tutto è ancora come prima. Certo, i bambini sono cresciuti e molti se ne sono andati, gli inquilini italiani sono stati sostituiti spesso da filippini, cinesi, arabi o africani, ma buona parte di alcune atmosfere è rimasta la stessa. Resistono tanti genitori che ormai sono invecchiati e diventati nonni. A volte rivedo i loro figli e miei compagni di giochi di un tempo che vengono a trovarli, e allora si risente di nuovo lo spentolare di stoviglie per il pranzo della domenica.
E, come in una enorme macchina del tempo, ritorno bambino con i piedi che penzolano attraverso la ringhiera, mentre chiacchiero e mostro i miei giocattoli ai piccoli amichetti che oggi sembrano tutti così vecchi...

venerdì 9 luglio 2010

Panta rei

Pensavo di essere come una macchina: colleghi alla corrente, schiacci un bottone e trac, la macchina parte e inizia a produrre.
Invece mi sbagliavo; ho dato corrente, ho schiacciato il bottone e... niente. Non è scoccata la scintilla creativa che mi aspettavo.
È vero che la creatività non è qualcosa di meccanico che si mette in moto a comando, credo sia piuttosto una delicata alchimia fatta da tutte le esperienze vissute, gli studi fatti, gli interessi coltivati, i luoghi visti, le persone conosciute, l'esperienza accumulata, la curiosità mai spenta, la voglia di, non dico mettersi in gioco, che è un'espressione così brutta, ma comunque di dimostrare ogni volta quello che si vale, ciò che si è capaci di fare.
Un equilibrio così delicato non è cosa facile da raggiungere e nemmeno da mantenere. Credo che l'inattività di questi mesi e, soprattutto, lo stress psicologico, la depressione, i cattivi pensieri, abbiano contribuito a rompere l'armonia necessaria. Ora mi trovo in piena ansia da prestazione; un motore ingolfato che ha solo bisogno di essere ripulito, oliato e messo a punto.
Seguire E. con i compiti delle vacanze, rendere la vita impossibile a C. che si è fatto rimandare e che ora deve giustamente scontare il tempo perso guardando il soffitto e pensando a chissà cosa, far loro da mangiare, lavare i piatti del pranzo e compagnia bella, non sono il massimo per la concentrazione e la creatività, ma cosa posso farci? Anche questo va conciliato con tutto il resto. Come si dice: panta rei, tutto scorre, e se non si è in grado di assecondare la corrente, finisce che si affoga. E più in basso di come sono arrivato non ci voglio scendere di sicuro.
Ora è proprio tempo di andare a lavorare.

giovedì 8 luglio 2010

Terra!

Ho un lavoro!
È una piccola cosa: si tratta di preparare alcune brochures di un sistema editoriale siciliano per cui avevo già realizzato un progetto di restilyng.
Ecco la dimostrazione di quanto pensavo da tempo. La crisi è nera, nerissima, ma a risentirne leggermente meno, sono per il momento alcune nicchie, come la stampa di settore e quella locale. Ed è proprio lì che sto cercando di puntare maggiormente.
Con questo editore siciliano ho un rapporto strano: mi ha contattato anni fa attraverso una pagina pubblicitaria pubblicata su un giornale del mafioso pelato (vedetevi i vecchi post), e da quel momento abbiamo iniziato una collaborazione alterna, poco redditizia, ma di comune sentire.
Ogni tanto viene a Milano e ci facciamo una chiacchierata, ogni tanto faccio per lui qualche progetto editoriale che, molto spesso, non va in porto ma, più importante di tutto, è l'unico che fino ad ora mi ha teso la mano.
È proprio bello essere di nuovo in pista, anche se sono un po' preoccupato per tutto questo periodo di inattività. Sarò arrugginito o sarà come andare in bicicletta? Sarà il primo lavoro di una nuova serie o solo un'effimera farfalla dalla breve vita?
Avrò meno tempo per dipingere quadri, modellare robot e scrivere questo blog e non so se ne sono felice. Cercherò, scaramanticamente, di non trascurare niente, anche se spero davvero tanto che questo primo, piccolo lavoro, sia come un gabbiano solitario che finalmente preannuncia la vicinanza della mia Itaca.

mercoledì 7 luglio 2010

Quando eravamo re

Quando aspettavamo il nostro primo figlio, oltre quattordici anni fa, eravamo convinti che non gli avremmo permesso di condizionare la nostra vita più di tanto.
Fino ad allora, si può dire che avevamo condotto un'esistenza quasi privilegiata. Lavoravamo entrambi, lavori più o meno buoni, che ci permettevano qualche viaggetto in luoghi divertenti o, se vogliamo, anche esotici: Formentera, Zanzibar, Cuba, Fuerteventura, Marocco, Santo Domingo, Lanzarote, Ibiza, l'Andalusia. Insomma, direi che per un certo periodo ce la siamo anche goduta. Non è che i viaggi fossero proprio la mia passione, ma per L. sembravano un'esigenza imprescindibile e, in fondo, non posso dire che non piacessero anche a me.
Non credo che in futuro possa mai ripetersi la magia delle prime volte a Formentera, più o meno verso la fine degli anni ottanta. Era un posto paradisiaco, senza calciatori, senza puttanelle, senza i cafoni che oggi invadono in massa questi meravigliosi francobolli di terra al largo di Barcellona. Il turismo era quanto di più eterogeneo si possa immaginare: i soliti tedeschi con la bottiglia di birra in spiaggia, inglesi perennemente ubriachi, reduci dei figli dei fiori che organizzavano concertini a base di Pink Floyd e Jimi Hendrix o mercatini di gioielli in argento e artigianato pop-hippy, nudisti di tutte le razze che spesso si infrattavano fra le dune per approfondire la conoscenza delle rispettive nature, turisti nordici con torme di bambini di tutte le età, qualche industrialotto benestante delle nostre parti.
Era possibile alternare giornate sulla spiaggia bianca e rosa delle Illetes, con via vai di ragazzi e ragazze, e merenderos a bordo spiaggia, ad altre nella tranquillissima e quasi deserta spiaggia di Midjorn a sud dell'isola.
A Cala Sahona, bellissima insenatura a forma di ferro di cavallo, molto gettonata dai tedeschi, ho compreso con mia estrema meraviglia, ciò che dicevano due di loro mentre facevano il bagno vicino a me, rendendoli ai miei occhi più umani di quanto avessi mai pensato. Si dicevano una cosa normalissima, e cioè di quanto fosse bella e trasparente l'acqua. E io che credevo parlassero esclusivamente di come uccidere ebrei o fucilare italiani!
Per poche pesetas si poteva mangiare in locali spartani sulla spiaggia, che però riuscivano a sfornare delle meravigliose cernie in crosta di sale con patate al forno tagliate sottilissime e ricoperte di una specie di besciamella. I ristoranti veri e propri erano poco più che delle casette coloniche con immancabili graticci ricoperti da piante di vite. Potevi mangiare greco, oppure quella che poi, i soliti fighetti, hanno cominciato a chiamare cucina fusion, oppure carne e pesce alla griglia serviti di volta in volta da ex fricchettoni, burrose ragazze tedesche convertite alla cucina greca, ruspanti ragazzi spagnoli o anziani hippies del nord europa.
Stavamo vivendo il nostro nirvana e ne eravamo a stento coscienti. Una situazione che ha rappresentato perfettamente Patti Smith in un'intervista che ho letto di recente. Di lei stessa e Robert Mapplethorpe dice: "La cosa buffa è che allora non ci rendevamo conto di quanto fossimo belli. È una scoperta che ho fatto da poco, riguardando vecchie foto ...  - e parlando dei giovani di oggi - Hanno una luminosità che viene dalla loro età, mi affascina. Perché non l'ho capito prima? Ero così spaventata, insicura, da ragazza".
E noi belli lo eravamo davvero, ma non nel senso estetico del termine, ma belli perché pieni di vita, fiduciosi, con tante speranze, aspirazioni e anche un po' di paura. E, come Patti Smith, anche noi stavamo vivendo momenti magici, senza esserne coscienti, come in un lungo sogno.
Sarà che quando la vita fila liscia come l'olio, quando, sempre come dice Patti, "Non avevo così tante persone care morte", tutto sembra che debba essere così, normale, dovuto.
Ma a proposito del non farsi condizionare dalla nascita del primo figlio, era nostra ferma intenzione non rinunciare a quelle che, per noi, erano le uniche vacanze possibili. Il fratello di L. che, nel frattempo era diventato anche il mio miglior amico, sghignazzava e diceva: "Vedrete, altro che Formentera! Saranno cazzi vostri!". E sghignazzava nuovamente, così forte che faceva girare tutti quanti.
Noi, come dei cretini, rispondevamo che, o i figli avrebbero fatto quello che facevamo anche noi, oppure li avremmo mollati alla nonna. Che minchioni!
Comunque siamo stati coerenti e, per un paio d'anni, siamo andati tutti quanti a Formentera. Solo che con un bambino di poco più di un anno non è così facile trascorrere le giornate in spiaggia, scarrozzarlo in macchina a destra e sinistra o girare tutti i ristoranti dell'isola.
I bambini hanno le loro esigenze che invariabilmente non vanno mai d'accordo con i desideri dei genitori.
Imperterriti, appena C. ha avuto tre o quattro anni, siamo passati a Fuerteventura: un'isola torrida, ventosa e selvaggia delle Canarie, al largo delle coste marocchine. Bellissima, natura allo stato puro, sole, acqua e vento, niente altro. Forse un po' troppo per un bambino. Infatti C. si è beccato un piccolo raffreddamento con febbre, tosse, raffreddore. Panico totale! Telefonate al pediatra in Italia, visite in uno di quegli ambulatori in cui fuori, tra l'altro, c'è scritto anche Zahnarzt, che poi sarebbe dentista in tedesco, ma che solo a leggerlo fa paura. Facciamo visitare C. da uno che parla a stento spagnolo, ci prescrive solo un po' di aspirina e dice che è una cosa di cui non preoccuparsi. Quando usciamo leggo l'intestazione sulla ricetta che ci ha lasciato, c'è scritto che è un ginecologo o qualcosa del genere. Siamo giovani, senza esperienza, ci spaventiamo perché C. continua a non stare bene anche dopo qualche giorno. Una sera, mentre fumiamo una sigaretta fuori dal nostro bungalow, vediamo un meteorite bellissimo, grande come un pugno, che lascia una scia di fuoco del quale riusciamo a vedere distintamente le fiamme. Uno spettacolo che ancora mi emoziona, regalatoci però in una situazione di ansia. Al rientro in casa, scopro un enorme scarafaggio, o cucaracha che dir si voglia, che sgambetta allegramente sul pavimento. Lo distruggo a ciabattate, ma il vaso è colmo, ce ne vogliamo tornare a casa per curare C. come si deve, tanto ormai la vacanza è rovinata.
Questa, come aveva previsto mio cognato, fu la fine delle nostre avventure per il mondo. L'anno successivo scegliemmo di trascorrere le ferie in una specie di deprimente agriturismo vicino al mare, in Toscana. Improvvisamente, mi sono sentito ributtare indietro di trent'anni, alle mie vacanze di bambino. L'atmosfera era la stessa e anche gli edifici erano gli stessi, la provincialità, la maleducazione, la cialtroneria, se possibile, ancora peggio. Se non altro, alla fine degli anni sessanta, c'era almeno quella specie di cortesia ipocrita, come quella che usano le bambine quando giocano a prendere il te:
"Gradisce una tazza di te signora Brisby?".
"Oh grazie duchessina Elisabeth, molto volentieri!".
Poi finisce sempre che la signora Brisby strappa i capelli della duchessina Elisabeth o, quanto meno, la spoglia nuda davanti al pupazzo di Winnie the Pooh e tutta l'allegra compagnia dei giochi, ma almeno la forma è salva.
L'anno successivo, quando C. era ormai abbastanza grande per riprovare con qualche luogo più esotico e meno caro dell'Italia, nacque E. Pensammo che a otto mesi, il posto più indicato per portarla in vacanza, sarebbero state le colline delle Langhe piemontesi, dove il solito direttore aveva una bellissima casa di campagna che ci avrebbe ceduto (a pagamento) per tutto il mese di luglio. E qui facemmo l'errore più grande della nostra vita, ovvero ci portammo anche mia madre e mia nonna.
Mia nonna, perché erano anni che non si muoveva di casa e mi faceva pena; mia madre, perché pensavo che con due bambini piccoli sarebbe stata utile per darci una mano, come in fondo mi pare facciano la maggior parte dei nonni, e per ultimo, perché di nonni non ce n'erano altri.
Finì che passammo un mese a servirle, preparare da mangiare per tutti quanti e ascoltare le continue lamentele di mia madre:
"Questo posto è così isolato che mi sembra di stare in galera".
"È pieno di insetti!".
"La sera è così buio che potrebbero ucciderci tutti senza che nessuno se ne accorga!".
"Non posso nemmeno fare una passeggiata perché i sentieri sono troppo ripidi!".
"Mangiamo sempre le stesse cose e non posso neanche vedere un paese perché a fare la spesa ci andate sempre tu e tua moglie (e meno male, altrimenti mi tocca sentirti anche in quell'ora scarsa!)".
"Fa troppo caldo!".
"In questa casa bisogna salire e scendere le scale un sacco di volte!".
Insomma non ne potevamo più. Confesso che quando le ho riaccompagnate a casa (ho dovuto fare avanti e indietro per due volte perché in sei in auto non ci stavamo), oltre a litigare per tutto il viaggio, ho preso le curve nel peggior modo possibile nella speranza di farle almeno vomitare, ma malgrado si lamentassero continuamente per la nausea e se potevo guidare un po' meglio, non ci sono riuscito.
Adesso sono anni che andiamo in vacanza nelle Marche, un posto abbastanza tranquillo se non si considerano i fine settimana, ma che non ha nulla a che fare con la natura selvaggia, severa e bellissima di Fuerteventura o dell'Andalusia. E quello che più mi scoccia è che spendiamo infinitamente di più.

martedì 6 luglio 2010

Oooh my goood!

In questi ultimi giorni non si respira un'aria molto serena. Sarà che fa caldo, sarà che L. comincia a stufarsi del lavoro come, del resto, si annoia molto in fretta di quasi tutto. Forse si tratta di un'alternanza dei nostri bioritmi; adesso che ho cominciato a metabolizzare, e anche a fregarmene, di una situazione che sembra giunta a uno status quo granitico, è lei che comincia a montare di rabbia, a sentire quel senso di claustrofobia verso una strada che, per ora, non conduce da nessuna parte.
A farne le spese sono i ragazzi che vengono richiamati continuamente per ogni stupidaggine. Io ho imparato a rendermi invisibile e, come un san Sebastiano del XXI secolo, accetto le frecce che ogni giorno mi trafiggono immancabilmente. Ieri la Tarsu (tassa rifiuti), domani la prossima rata per l'assicurazione sanitaria, sperando in una vita futura, terrena s'intende, che mi liberi da queste sofferenze quotidiane.
Dobbiamo metterci in testa che prima di settembre ogni tentativo di smuovere le acque è vano. Se fino ad ora non abbiamo ricevuto nemmeno una richiesta per sostituzioni estive, allora significa che il momento è davvero pessimo.
Tanto per parlare d'altro, ieri ho visto qualche frammento dell'Oprah Winfrey Show su la7d. Ne sono uscito sconcertato e incredulo. Ma è davvero questa la giornalista così ricca, così influente e così osannata dalle donne americane e che tutto il mondo conosce? A quanto pare sì. Ma io ho visto solo una grassa, pettegola, insulsa, ignorante e malvestita mami nera che poneva domande stupide a persone che rispondevano in modo oltremodo stupido, circondate da un pubblico stupido che applaudiva a sproposito. Il tutto continuamente inframezzato da smorfie e faccine buffe della conduttrice e i soliti onnipresenti e terribilmente insopportabili: "Oooh my goood!".
Ieri erano ospiti una signora con entrambe le braccia amputate che decantava l'amore e l'altruismo del marito e dei suoi figli, fra sguardi inorriditi e allo stesso tempo ammirati di un pubblico ammaestrato. A seguire la toccante storia di quell'idiota di Jim Carrey che ha adottato il figlio autistico della sua attuale moglie e che decantava, con battute penose, le gioie che ne sono derivate.
Uno spettacolo di pura decandenza, l'elogio dell'ipocrisia bigotta di un america sciatta e culturalmente inesistente. Quella racchietta scolorita di Victoria Cabello e il suo noioso Victor Victoria sembrano al confronto una lectio magistralis per brillantezza di dialoghi, comicità e profondità.
Ma è davvero questa l'america che pretenderebbe di dominare il mondo economico e scientifico? E davvero fatta di gente di così scarso valore? Dov'è finito il mito che vedevo nei film? Dove sono finiti Taxi Driver, Apocalypse Now, Martin Scorsese, Robert De Niro, Marlon Brando, Una calibro 20 per lo specialista, La conversazione, Il padrino, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Michael Cimino, la controcultura, Easy Rider, Fragole e sangue, Dennis Hopper, Jack Kerouac, Sam Peckimpah, la Nuova Hollywood, Allen Ginsberg... Cosa è rimasto di tutto questo? Una cicciona nera che spara cazzate e fa le faccette buffe?

lunedì 5 luglio 2010

Il silenzio degli innocenti

Siamo solo ai primi di luglio e Milano sembra già mezza in disarmo. Alla faccia della crisi, nel condominio di fronte sono più le tapparelle abbassate che quelle aperte dei pochi boccheggianti reduci. Ma è un condominio particolare, abitato da gente strana (in fondo non siamo tutti strani a modo nostro?), magari un'altra volta ne parlerò. Tanto per dare un'anticipazione, potrei raccontare del funerale del vecchio partigiano, delle due puttane amanti degli animali, del fesso e della secca, dell'inquieta e la sua famiglia, del pelato maniaco compulsivo, del Gianni e le sue figlie disinvolte...
C'è addirittura posto per parcheggiare dove solitamente le automobili si fermavano in doppia fila.
Si muore di caldo. Cerco di risparmiare elettricità ritardando il più possibile l'accensione dei condizionatori, ma non è possibile arrivare oltre le dieci, undici del mattino.
L'aria è così pesante che ottunde il cervello, però ho partorito una mezza idea da proporre a un editore siciliano per il quale ho lavorato tempo fa. Non mi illudo, è di qualche giorno fa la notizia diffusa da Federgrafica, che la grafica editoriale se la passa piuttosto male, anzi, parlano di un vero tonfo causato anche dalla concorrenza del web, degli iPad e simili, mentre la grafica pubblicitaria registra una ripresa a malapena avvertibile. Qualcuno parla di una crisi ancora lunga: addirittura tre anni. Ma chi sono questi coglioni che azzardano previsioni così presuntuose, quando fior di economisti (altro sinonimo di coglioni), non sono riusciti a prevedere la bolla finanziaria che ha prodotto questo bel risultato? Come tipico per noi italiani, sono i classici commenti da bar, in cui tutti siamo allenatori e presidenti del consiglio.
Non voglio unirmi anch'io al coro delle cassandre, ma una cosa la voglio dire.
In tutto questo casino, nei lavori flessibili, nei contratti co.co.pro e compagnia, nei sussidi inesistenti, nel vuoto degli aiuti alle giovani coppie, in una società (notizia di oggi), nella quale il 10 percento degli italiani detiene oltre la metà della ricchezza totale, che cazzo fanno i giovani? O meglio, dove siete? Perché non vi ribellate? Tanti, anche su questo blog, mi hanno consigliato di andare all'estero, emigrare per trovare un lavoro (soprattutto), e condizioni di vita più civili. E gli altri? Chi non può andarsene per condizione familiare o perché negli studi non è stato così brillante come loro, o chi pensa che, essendo italiano, sia un suo diritto vivere e lavorare serenamente nel paese in cui è nato, che fate? Li abbandonate per strada? Una democrazia è tale perché non abbandona nessuno. Anche i meno fortunati hanno pari diritti rispetto agli altri. Non vi pare un po' vigliacco abbandonare la nave che affonda?
Ho vissuto una lunga gavetta, ma ho cercato sempre di tenere la schiena più dritta possibile, non ho mai fatto le scarpe a nessuno e non ho mai accettato proposte umilianti. Dov'è la vostra giusta rabbia? O devo dedurre che siete stati così fortemente condizionati da aspirare solamente a un lavoro che faccia guadagnare il più possibile, all'automobile esclusiva, all'orologio di marca, a una moglie tettuta e stupida? Nel sessantotto i giovani hanno rovesciato il mondo per affermare la loro esistenza, nel settantasette, magari anche sbagliando, abbiamo affermato il nostro diritto alla fantasia, all'uguaglianza, a un mondo diverso dalla Milano da bere che ci ha sommerso col suo riflusso. Ma oggi? Oggi che la misura è davvero colma, non esiste nemmeno più una fascia sociale definibile "giovani", siete stati annientati, non contate niente, siete carne da macello, siete gli agnelli che belando ignari si avviano al macello.

venerdì 2 luglio 2010

Karate

Ieri pomeriggio, C. ha brillantemente superato (almeno quello), l'esame di karate per il secondo kyu (ni kyu), che poi sarebbe il secondo grado della cintura marrone.
Il caldo era opprimente, quasi straniante, aggrediva gli occhi facendoli bruciare e C. ogni tanto assumeva espressioni che ricordavano il cristo sulla croce con la testa circondata di spine.
In altri momenti, forse per il capelli, sembrava Jim Morrison nella foto a torso nudo e con le braccia spalancate, come l'uomo vitruviano di Leonardo.
L'abbiamo iscritto che aveva appena dieci anni, per presunti problemi di psicomotricità, e oggi l'ho visto come un ragazzo di quasi quindici, elegante nei movimenti, bello oltre ogni misura, fisicamente perfetto.
Il guaio è che la palestra ha un'intera parete ricoperta da specchi nei quali, invariabilmente, si riflette la mia immagine di vecchio cinquantenne bolso, qualcosa che non amo vedere, nemmeno negli specchi di casa. Non riesco a fare a meno di sbirciarmi, soppesando la pancia, valutando se la polo che ho messo la minimizzi oppure la renda più evidente. Non sopporto di vedere le mani grassoccie che non so mai dove mettere, spio gli altri genitori con una bilancia virtuale e, invariabilmente, mi sento il più grasso di tutti.
Il maestro è un tipo buffo, non più alto di un metro e sessanta, pelato come un'oliva, con un intercalare fatto di "preeecisoo" oppure "noo, sbagliato", che a casa, mi diverto a imitare con discreto successo.
Durante gli esami ama sciorinare i nomi dei vari colpi e Kata in un giapponese che a me sembra solo una strana filastrocca: Heian Shodan, kiai, Bassai-dai, Enpi, Jion eccetera. Ma il bello è che, quando corregge qualche allievo, si mette a parlare un po' come toro seduto, ovvero, omettendo spesso gli articoli, come fosse un giapponese che parla italiano. Per esempio: "Bene, ma poca potenza, calcio più alto, meno confusione".
Molti anni fa, quando mio padre decise di iscriversi a una palestra, portò anche me. Mi ritrovai da solo, con un energumeno vestito da karateka che mi fece togliere calze e scarpe. Non l'avevo previsto, e dopo un pomeriggio sulla terra battuta dell'oratorio, avevo doppi calzini: uno di cotone e uno di terra disegnato sulla pelle delle caviglie. L'energumeno disse che non importava e cominciò a farmi correre in tondo sul parquet deserto. Poi cominciò con lo stretching, prendendomi una gamba e spingendomela quasi fin sulla faccia. Non capivo perché mio padre mi avesse mollato lì da solo con quella specie di montagna in kimono e dove se ne fosse andato. Probabilmente in qualche altro locale della palestra a fare chissà cosa. Perché non potevo fare quello che faceva lui, insieme a lui? Oppure, perché non poteva, lui, fare quello che stavo facendo io? E poi non avevo nessuna voglia di andare in palestra alle sette di sera in un posto che non ricordo - sono sempre stato convinto che fosse dalle parti di viale Bodio - e dal quale ci volevano almeno venti minuti di auto per tornare a casa. E infatti questa storia finì dopo un paio di lezioni.
Mi sentivo anche imbrogliato da mio padre che, diceva, avrei fatto lezioni di karate. E allora, dov'era il kimono? e la cintura? E la tessera della federazione da mostrare agli amici increduli? Mi pareva tanto quella volta che mi regalò una maglietta da calcio rossonera del Foggia spacciandola per quella del Milan che, invece, aveva le righe molto più sottili.

giovedì 1 luglio 2010

Ectoparassiti

Tra la fine del 1999 e per tutto il 2000 ho tenuto una specie di diario, un cazzeggio, una raccolta di fatti e di pensieri sulla mia vita personale, con l'intento di lasciare ai figli uno spaccato del cambio di secolo e millennio. Un'occasione per ripensare a me stesso, alla mia famiglia, un modo per non dimenticare certe piccole cose della vita quotidiana. Qualcosa di me da lasciare a chi verrà dopo, l'illusione di poter dilatare il tempo della mia esistenza.
C. aveva solo cinque anni, una vita spensierata, nessuna scuola e, in testa, solo cartoni animati, favole e giochi. E. sarebbe nata solo a fine ottobre in una bella giornata di sole. Lavoravo poco e, in proporzione, guadagnavo molto. Frequentavo redazioni in cui modelle e attricette da quattro soldi capitavano spesso e volentieri, andavamo in vacanza più o meno dove ci pareva.
Sembra passata un'eternità e, pensandoci bene, dieci anni sono un'eternità. Siamo costretti a vivere costantemente proiettati verso un futuro che non ha senso, che non esiste, arranchiamo in questo nuovo millennio come scarafaggi che si arrampicano su una collina di terra, ci scavalchiamo, rotoliamo indietro e subito ci affanniamo a riprendere un cammino inutile e incerto.
Eppure, nei momenti di difficoltà come quello che sto vivendo, è al passato che mi rivolgo per ottenere conforto, indicazioni, esempi. Ripenso spesso a quelle poche, pochissime cose che ho sentito da mio padre e, ancora di più, all'esempio del suo comportamento. Il suo modo di essere, il rispetto e la simpatia che suscitava nel prossimo. Ripenso alla forza di mia nonna che, con la sola terza elementare, ha preso di petto il mondo, alla sua filosofia, nella quale quasi niente sembrava scalfirla: malattie, lutti, lontananze, miseria. Al conforto delle vite vissute raccontate nei libri che, finalmente, ho ricominciato a leggere con curiosità e grandissimo piacere.
Penso alla maledizione di questo blog, nato per scherzo e disperazione e che ora devo scaramanticamente continuare fino a un epilogo, qualunque esso sia. Una prova assai più dura e difficile del piacere di raccontare ai figli quattro cazzate quotidiane e i pensieri filosofici di un allora trentottenne ignaro di ciò che di lì a dieci anni sarebbe successo.
Certe volte mi vedo, in una zoomata all'indietro, come una formica intenta a seguire misteriose scie chimiche in mezzo ad altre formiche come me, e poi altre ancora e ancora, che si muovono a sciami, come quando si infila un bastoncino in un formicaio. Sciami di formiche che ricoprono tutto, sempre alla ricerca di nuove risorse e che, poco alla volta, stanno sommergendo ogni cosa coi loro corpi. Non c'è un motivo, c'è solo la ricerca di qualcosa, del consumo, della riproduzione infinita, dell'accumulo.
Avevano ragione i vecchi romanzi di fantascienza: l'umanità è il cancro della Terra, siamo ectoparassiti che soffocano il pianeta avvelenandolo con i propri escrementi.