lunedì 31 gennaio 2011

La goccia e il vaso

Venerdì sono andato in automobile a prendere mio figlio, reduce da un piccolo intervento al piede.
Non è mia abitudine girare per Milano in auto, troppo traffico, troppi intoppi - zone a traffico limitato, cambio di sensi, strade chiusi per lavori della metro -, preferisco muovermi con i mezzi, a meno che non debba andare in posti mal serviti o in casi particolari come quello di venerdì.
La dimostrazione di ciò che dico è molto semplice: possiedo quest’auto dal 2004 e ci ho fatto 23.000 chilometri. Questo significa che, arrotondando, ho percorso circa 3.300 chilometri all’anno, di cui due terzi in vacanza e un terzo, cioè 1.100 chilometri, meno di nove al giorno, in città.
Quando vado a fare il tagliando alla Renault, i meccanici ridono e mi prendono in giro perché non credono che abbia fatto così poca strada in sette anni, poi guardano il contachilometri e diventano subito seri. “Ma allora è vero!” mi dicono pensando che volessi prenderli per il culo.
Perché questa manfrina su chilometri, vacanze e città? Semplice, perché malgrado percorra così poca strada e mi capiti di usare l’auto sì e no una volta ogni dieci quindici giorni, va sempre a finire che trovo un vigile, un carabiniere, un poliziotto della stradale e financo della guardia di finanza che mi ferma. Eppure non ho mai avuto la faccia da delinquente o da pappone, e tanto meno da losco trafficante di droga. Anzi. Il mio problema è sempre stato di avere la faccia da bonaccione, non certo da Vallanzasca. Forse sarà proprio per questo. Meglio fermare uno che quasi sicuramente non darà problemi, invece di un’altro che magari tira fuori il coltello e finisce tutto a schifio.
Penso di essere una delle persone che, in rapporto ai chilometri percorsi, può vantare la più alta percentuale di controlli da parte delle forze dell’ordine. 
In genere non me ne frega più di tanto perché, sapendo che questo è il mio destino, sono in regola novantanove volte su cento. Appunto, c’è sempre quell’un per cento che ti rovina la vita.
Insomma venerdì devo andare a prendere C. in via Mauro Macchi. Faccio un pezzo di Corso Buenos Aires e, quando dovrei svoltare in via Boscovich, la trovo sbarrata da un cavalletto. Lavori di sistemazione dei marciapiedi e strada chiusa all’angolo con Buenos Aires. Quante probabilità ci sarebbero state di trovarla chiusa nell’arco di un anno? Direi una su trecentossessantacinque. trecentosessantasei se fosse un anno bisestile.
Pazienza, girerò a destra un paio di traverse più avanti, in via Casati, poi svolterò ancora a destra fino a incrociare via Boscovich.
Mentre svolto in via Casati, proprio all’angolo, vedo due vigili, ma non mi cagano nemmeno di striscio e poi tanto sono tranquillo, più che altro mi farebbero perdere tempo.
Da via Casati giro a destra in via Lecco, poi sbaglio e, invece di proseguire per via Benedetto Marcello, giro a destra per via San Gregorio. Sono tentato di fare cinque o sei metri in retromarcia per riprendere via Benedetto Marcello, poi mi dico: “No, lascia stare, è pieno di vigili che aspettano solo questo, come fai anche la minima cazzata ti beccano subito”. Rifaccio il giro, tanto che ci vuole... Sono di nuovo in corso Buenos Aires, sto per svoltare in via Casati, ma i vigili, che non si erano mossi dall’angolo, questa volta mi adocchiano e mi fermano. “E ti pareva! - dico fra me e me - va a finire che questi mi fanno fare tardi”.
“Ci favorisce la patente e la carta di circolazione per favore?”. Almeno sono educati, penso.
“Eh ma qui c’è un problema grosso” dice uno. Lo so qual è il problema. Si tratta della revisione. Ero convinto di doverla fare quest’anno, ma avevo come un tarlo che mi rodeva già da un po’ e adesso sono sicuro che avesse ragione.
“Devo farle contravvenzione, anzi, sappia che non potrebbe nemmeno circolare. Può usare l’auto solo per recarsi a un’officina autorizzata”. Centosessanta euro.
Solitamente ci sono due tipologie di automobilisti: quelli che cominciano a pregare e inventare mille scuse, piagnucolano, fanno gli spiritosi, cadono dalle nuvole e quelli che pagano e stop.
Io, orgoglioso e permaloso, non mi sono mai umiliato a pregare nessuno. Non ho mai visto un vigile stracciare una contravvenzione nemmeno davanti alle storie più strappalacrime, quindi è inutile fare la commedia: la multa me la piglio come fossi un signore al quale non fa né caldo né freddo e questa è probabilmente l’unica risposta dignitosa da dare a chi prende la percentuale sulle sventure altrui.
Cosa può fregare ai vigili che io sia disoccupato, o che usi l’automobile ogni due settimane, o che stia andando a prendere mio figlio che non può camminare?
Appunto, niente.

PS: Contro ogni aspettativa, il bresciano ha richiamato. Verrebbe in studio domani pomeriggio. Inutile dire che la piccola lampadina della speranza che stava quasi per spegnersi si è leggermente ravvivata. Non è che splenda come un faro nella notte, piuttosto come una lanterna in una capanna di montagna mentre fuori è buio e nevica.
Spero che il bresciano non sia una di quelle persone che si fanno abbagliare da lucine e cotillons, perché il mio studio - come è prassi comune in quasi tutta Europa - è in simbiosi con il mio appartamento. Non un angolo ricavato nel soggiorno, ma una grande stanza ben arredata con tutto ciò che può servire al lavoro. E anche il resto della casa è ben distinto dallo studio da un'anticamera e un'entrata separata.
Cosa devo pensare o posso sperare? Se fa parte di quelle persone che non comprendono una cosa del genere, non comprenderà nemmeno ciò che faccio. Se invece la speranza si aprirà in qualcosa di più, non potrò che saperlo domani.

giovedì 27 gennaio 2011

Lucky man

“Sono fortunato”, continuo a ripetere a me stesso. 
C. è un figlio perfetto, buono come il pane, magari non eccelso a scuola, ma suona la chitarra elettrica come sognavo di suonarla io alla sua età. 
E. è una forza della natura: testarda come me, spesso sfacciata, con un’intelligenza così pronta che a volte mi sorprende. 
Sono fortunato, ripeto. Sono sposato con la stessa donna da ventidue anni, la conosco da trentatré e ci amiamo con un’intensità quasi morbosa.
Sono fortunato, ho ancora abbastanza capelli per non passare da pelato, come succede ai miei amici d’infanzia, o come a mio padre, uno degli ultimi reduci degli anni settanta che sfoggiava un sobrio riporto.
Sono fortunato, da almeno una settimana ho una bronchite che non se ne vuole andare e questa notte ho dormito tre ore. Però non devo andare a lavorare e posso poltrire tra computer e tv.
Sono fortunato, in questi anni ho potuto concedere a tutti quanti una vita comoda e tranquilla; non ho mai avuto bisogno di alzarmi prima dell’alba per pulire una strada o impastare cemento.
Sono fortunato, così fortunato che soffrire per il lavoro che non c'è mi fa sentire quasi ridicolo. 
Si vede che troppa fortuna prima o poi la si deve restituire. Con gli interessi.

mercoledì 26 gennaio 2011

Nessuna morale

C’era questo tizio, chiamiamolo Fabio C. - trent’anni fa si chiamavano quasi tutti Fabio, Claudio o Roberto. Solo nella mia classe, i Fabio erano quattro. - basso, testa grande che i capelli ricci rendevano ancora più ingombrante, sempre a posto, “un ragazzo perbenino”, avrebbe detto mia madre. Fin troppo, pensavamo noi della compagnia. E per compagnia non intendo banda, gang o roba del genere. Quelle patetiche accozzaglie che oggi raccolgono soltanto la feccia dei quartieri.
Per far parte della compagnia non erano necessari ridicoli e sciagurati riti d’iniziazione che scimmiottano realtà morali e culturali ben al di sotto della pur nostra disastrata realtà. Per entrare nella compagnia bastava essere amico di qualcuno che ci stava già e non importa se non eri figo, sgamato o non avevi la Cagiva. Volevi farti le canne? Bene. Non te ne fregava niente? Va bene uguale. Ci andavi solo ogni tanto? Non c’è problema, chi c’è c’è. Niente scorribande, nessuna prepotenza verso i coetanei, solo una tranquilla vita di periferia; motorino, musica, ragazze, chitarre e un sacco di freddo d’inverno.
La riprova di tutto questo era Fabio C. e altri come lui. Ragazzi “a postino” che si mescolavano con altri ragazzi completamente diversi per classe sociale, gusti o livello culturale.
Era però un fatto quasi automatico che i bravi ragazzi fossero bersaglio di scherzi a volte atroci. Fabio C., per esempio, aveva un fiammante Garelli Gulp monomarcia azzurro, che conservava pulito e lucido come probabilmente sua madre conservava puliti e lucidi i pavimenti di casa. Qualche volta, lei si presentava in compagnia, sgridandolo per ritardi ridicoli o per non aver ancora fatto i compiti. Sembrava una gnoma: rotonda come una mela, dall’andatura dondolante e una chioma di boccoli biondo cenere che io sospettavo fortemente essere una parrucca. 
Insomma, Fabio C. era un maniaco del suo motorino. Sempre munito di fazzolettini di carta, puliva ora una cromatura leggermente opaca, ora lo specchietto retrovisore, ora il poggiapiedi sporco di qualche granello di terra. Sarà per questo che un giorno, complice una sua distrazione, qualcuno ha infilato un preservativo usato sulla manopola del gas. È qualcosa di terribile lo so, ma è anche una specie di contrappasso, una lezione di vita, un riportare la scala dei valori coi piedi per terra. La reazione di Fabio C. fu quanto di più prevedibile ci si potesse aspettare da un tipo come lui: di schifo immenso, ribrezzo, nausea e, se non fosse stato davanti a svariate ragazze, probabilmente avrebbe anche pianto. Lo ricordo ancora con i fazzolettini di carta che puliva alla meglio la manopola chiedendo se qualcuno avesse per caso dell’alcool, annusandola ripetutamente tornarsene a casa accelerando con pollice e indice, stando bene attento a tenere le altre dita ben distanti, col mignolo alzato all’inverosimile come se dovesse bere una tazza di te alla festa di compleanno della nonna.
La morale di tutto questo? Nessuna.

martedì 25 gennaio 2011

Decapitare vampiri

Il bresciano che ieri avrebbe dovuto chiamare per un incontro - richiesto da lui stesso - non si è fatto sentire, mentre l'agenzia con cui ero a buon punto per ottenere almeno un appuntamento informale, risponde che "...il responsabile conosce la vostra realtà per vie indirette, ma in questo momento sono in atto una serie di cambiamenti e quindi sarebbe prematuro e forse non efficace incontrarsi in questo periodo". Che ci sia lo zampino di quel bastardo del mafioso pelato?
Forse è per questo che per tutta la notte ho sognato di decapitare vampiri con la mia schaska russa.

lunedì 24 gennaio 2011

Specchio dell'anima

Non riesco a trovare nemmeno uno straccio di cliente. Ma quando dico nemmeno uno, non è un modo di dire, intendo proprio che non sto facendo assolutamente niente. Non squilla il telefono e tanto meno il cellulare, la casella mail, a parte le solite bufale in cui qualche uomo d’affari di Hong Kong ha necessità di trasferire 22,5 milioni di dollari in Italia dietro lautissima percentuale per l’intermediazione, rimane desolatamente vuota. Solo le newsletter di quel bastardo del mafioso pelato continuano a martellarmi ricordandomi ogni santo giorno la mia sconfitta. Ma questa è una storia di cui avevo promesso di non parlare più e perciò non ne parlerò.
Non avendo altro da fare che dilapidare gli ultimi risparmi in attesa di un qualunque lavoro, mi dedico ad approfondire software, scrivere blog, produrre cose che mi illudo abbiano la parvenza di qualcosa di artistico e scansire vecchi negativi e diapositive per non passare da uno che non sa cosa sia il digital lifestyle.
Così riscopro molte immagini di una vita passata che avevo dimenticato, non solo a causa del trascorrere degli anni, ma anche per il fatto che non potevo stampare tutto ciò che fotografavo e, quindi, ero costretto a una scelta che oggi appare così drastica.
Rinasce così a nuova vita un ritratto di me ragazzo in cui sono tale e quale a C., oppure due immagini di mia madre, le uniche che abbia mai visto in cui la fotografia diventa veramente lo specchio dell’anima. 
Con la macchina fotografica di solito me la cavavo piuttosto bene, ma mia madre è sempre stato un soggetto quanto mai difficile e sfuggente. Sempre sul palcoscenico, sempre atteggiata in gesti ed espressioni che lei riteneva scenografici, il sorriso di circostanza, il lato migliore, l’inclinazione della testa, lo sguardo languido. Tutti atteggiamenti appunto. Pose che la rendevano sfuggente, sgusciante, innaturale e falsa. Chissà come sono riuscito a fare questi due scatti riemersi dalle nebbie di un tempo in cui i pensieri erano più leggeri, meno funerei. E poi, non so nemmeno perché stia qui a perdere tempo per raccontare queste cose.

venerdì 21 gennaio 2011

Mal comune mezzo gaudio

In linea di massima sono sempre stato una persona piuttosto timida. Non a livello patologico, più che altro perché ho sempre combattuto aspramente, anche contro me stesso, per impedirmi di precipitare in realtà senza ritorno. Hic sunt leones.
Le cause? Come sempre, una madre sottilmente autoritaria e castrante, ben peggiore di tutti e tre i fantasmi del canto di natale di Dickens messi insieme e il fatto che ognuno nasce con il carattere che ha.
Essere grassottello da piccolo, e con qualche chilo di troppo da grande, non è certo stato d’aiuto; per questo ho sviluppato un mio personale modo di saltare l’ostacolo: ovvero esternare un’aggressività selvaggia e spesso immotivata verso chiunque si permettesse solo di guardarmi in modo strano. Un rispetto guadagnato a suon di botte: date e anche prese. Tornare a casa con i vestiti strappati e la faccia pesta è stato per un certo tempo una cosa abbastanza normale. “Sono caduto in bicicletta - oppure - ho inciampato sui gradini dell’oratorio”, erano le uniche omertose parole che uscivano dalla mia bocca. E il bello è che mia madre ci credeva pure. Meno mio padre, per il quale non esisteva altra regola che restituire con gli interessi ciò che si riceveva - nel bene o nel male -, non rendendosi conto che non erano più gli anni di quella specie di far west delle case di ringhiera nel dopoguerra.
Vivere così non è mai stato facile; tenere tutto dentro, far finta di essere sani, come cantava Giorgio Gaber, non era né facile, né sano. Alla fine delle elementari, quell’anima buona della maestra disse ai miei genitori: “È un ragazzo intelligente, sveglio, ma, a essere onesta, devo dire di non essere riuscita a capirlo davvero; soprattutto quando mi guarda con quegli occhioni...”.
E invece è stata l’unica a capire, almeno un po’, cosa significasse per me combattere ogni giorno con la paranoia di credere che tutti non avessero occhi che per me: per la mia goffaggine, la mia pancetta, le mie guance paffutelle, l’orticaria, il non saper correre veloce, l’essere costantemente ignorato dalle femmine. Alle medie i chili di troppo erano quasi svaniti ma cominciai a fissarmi con i muscoli, il ventre piatto, i bicipiti che non c’erano, senza rendermi conto che stavo diventando oggettivamente bello. Ma una vita non cambia da un giorno all’altro, chi nasce tondo non diventa quadrato, diceva mia nonna. Perciò ero sì un bello incosciente di esserlo, ma anche il solito rissoso, permaloso e, a volte antipatico, ciccione di sempre.
È una doppia vita da Jekyll e Hide, da Zelig, con cui ho imparato a convivere, senza troppi problemi, anche perché, col tempo, anch’io sono cresciuto, ho imparato a controllare le mie emozioni, a mascherare il virus della timidezza dietro un lavoro in proprio, gli interessi famigliari, gli hobbies solitari.
Ma c’è stato qualcosa che è accaduto qualche giorno fa che, malgrado questo periodo sventurato, mi ha fatto ben sperare.
È successo che la palestra di karate di C. ha dovuto chiudere per fallimento - i tempi sono questi - e c’è stata un’assemblea fra iscritti e istruttore (quello che parla come toro seduto anche se è italiano) per vedere come porre rimedio alla continuità del corso. Beh, non ho avuto nessun problema a parlare con persone che non conoscevo, o che conoscevo solo di vista, organizzare le liste di chi era disponibile a continuare, interagire anche con chi non mi risultava affatto simpatico. Per una volta tanto non mi sono sentito inadeguato, osservato, giudicato. Anzi, io stesso ho potuto godere della goffaggine della famiglia intera di un amico di C.
Si tratta di M. un ragazzino timido che, fino a qualche mese, fa parlava come Topolino, ma con un leggero accento campano. Che sia timido non è nulla di così stravagante, la cosa divertente sono i genitori, particolarmente la madre. Non c’è esame di karate del figlio dal quale non scappi in tutta fretta in cortile dove, immancabilmente, la si ritrova che vomita in qualche tombino. Per strada pesta, senza dimenticarne nemmeno una, tutte le merde di cane, sbattendo spesso contro i pali dell’illuminazione stradale, distratta da qualche conversazione. Inciampa su quasi tutto, scale, gradini, marciapiedi, compresi i fogli di carta abbandonati per strada. Quindi pensavo fosse il padre quello serio della famiglia, anche se parla poco, sottovoce e farfugliando, ma quando, appoggiandosi a una panca da ginnastica nella palestra ormai in disarmo, l’ha fatta cadere con un frastuono che ha spaventato tutti quanti, allora ho capito: è tutta la famiglia ad essere così, compreso M. che, un giorno, ha confidato a C. di essere caduto scivolando su una merda, impiastrandosi i pantaloni e facendosi pure male.
Che dire, sono cose che tirano su il morale di uno come me, mi sento molto più normale di quello che sono, meno goffo, meno osservato. Ma non è solo questo che mi ha fatto sentire bene, è stata anche la sensazione che la serietà della mia situazione economica e lavorativa abbia fatto passare in secondo piano tutti gli altri problemi, la sensazione che oggi non c’è più tempo da perdere in cose poco importanti, cose che non meritano di rovinare una vita.

mercoledì 19 gennaio 2011

La vita secondo me

C’è questo telefilm americano, quindi, intrinsecamente un po’ stupido. Si chiama La vita secondo Jim. Racconta le vicende di tutti i giorni - figli, scuola, lavoro, affetti - di una famiglia tipicamente figlia del sogno americano.
Vivono in una villetta monofamiliare di un immaginario sobborgo di Chicago, che pare presa da un’illustrazione di Norman Rockwell, una di quelle casette tutte legno, porticati, mansarde, cucine enormi e accoglienti salotti, camere da letto al piano di sopra e cantina in mattoni piena di cinfrusaglie grande come una sala biliardo.
Jim è il capofamiglia, un finto maschilista, bonaccione, pigro, goloso, qualunquista, leggermente erotomane, ma simpatico. Lavora in proprio nell’edilizia e ha come quasi-socio il fratello della moglie, lo zio Andy, un grassone biondino succube di Jim e con atteggiamenti a volte ambigui, e altre volta di enorme ingenuità. Formano una coppia alla Stanlio e Ollio ma, in questo caso, è il più grasso a essere vittima degli scherzi e delle angherie di Jim che, comunque, tanto magro non è. 
La moglie di Jim è Cheryl, una bionda a cui tutti chiedono continuamente come abbia mai potuto sposare uno brutto come suo marito. Lei si occupa della casa e dei tre figli - due femmine e un maschietto, a cui, nelle stagioni successive, si aggiungeranno due gemelli - e anche del marito, troppo pasticcione per essere di una qualche utilità.
Completa questa famiglia allargata Dana, sorella di mezzo fra il più giovane Andy e Cheryl. È una bella brunetta, perfida e con un carattere pungente e frizzante, nemesi di Jim, con il quale arriva a gesti estremi, come ad esempio sputare sulla propria bistecca per evitare che le venga sottratta dalla famelicità del cognato.
Tutto ruota quindi all’interno di questa casetta da favola, da cartone animato di Paperino. Tutti - compresi Andy e Dana - vivono più in questo mondo che nel loro, un po’ come quando, da adolescenti, avremmo voluto vivere per sempre in simbiosi con amici e amanti.
Niente di speciale insomma, anche se alcune puntate raggiungono vertici di comicità davvero esplosivi. Inutile poi far finta di non sapere che Jim è interpretato da James Belushi, fratello di quel John di cui ancora oggi rimpiangiamo la morte prematura. E gli omaggi al fratello non mancano: dall’imitazione dell’andamento furtivo di John durante la sortita nell’ufficio del preside del campus in Animal House, alla musica blues - Jim suona nel garage di casa con un gruppo di amici pezzi rigorosamente blues - alle comparsate di attori come Dan Aykroyd.
Ma al di là di tutto questo, ne risulta un nucleo famigliare unito, solidale, allegro, sereno.
Non so perché mi riesca così facile immedesimarmi in questa stupida finzione in cui ogni elemento pare fatto per incastrarsi nell’altro, in cui tutto funziona e si risolve nel migliore dei modi anche nei casi più complicati. In effetti, io sono un po’ Jim, o forse è lui che è un po’ come me; anch’io ho una moglie a cui spesso - delle teste di cazzo - hanno chiesto come le fosse venuto in mente di stare con uno come me, anche se, a differenza di Cheryl, il fratello di mia moglie è sì un inetto ignorante, ma anche un insensibile puttaniere che si fa sentire una volta ogni dieci anni, o in occasione di qualche funerale. Le sorelle di mia moglie sono due, ma a differenza del telefilm, non sono né carine, né simpatiche e, per fortuna, non si fanno vedere praticamente mai.
Ma è in questo periodo nel quale, a grande richiesta dei miei figli, stiamo riguardando la serie, si è aggiunta anche una certa dose d’invidia per quelli, come Jim e la sua famiglia, che conducono una vita tutto sommato serena, senza problemi lavorativi o economici. Il massimo che può capitare loro è che Jim abbia speso in bagordi i soldi risparmiati per un viaggio in Italia, o che la sorella Dana venga mollata per l’ennesima volta.
Soffro la vita in una città che è l’esatta antitesi dei tranquilli e verdi sobborghi americani, soffro l’indifferenza di tutti quanti e, principalmente, di chi dovrebbe essermi solidale se non altro per legami di sangue (parenti serpenti) o di amici che tali non sono mai stati.
Che stupido! Lo so che è un telefilm, una finzione, ma so anche che era molto somigliante alla mia vita di solo un anno fa. Oggi non sono più allegro e simpatico come il Jim che tanto invidio, non riesco a vedere un futuro migliore del passato, non posso accettare che l’Italia in cui i miei figli diventeranno grandi sia in mano a certa gente.
Benvenuto nel club! Mi direte voi.

lunedì 17 gennaio 2011

Il banco vince sempre

Più o meno vent’anni fa, insieme ai personal computer che costavano come una panda, giravano anche programmini stupidi come, ad asempio, uno che calcolava, non si sa su quali basi, il bioritmo mensile, settimanale o giornaliero. Bastava inserire la data di nascita e questo ti spiattellava un bel diagramma con la linea oscillante tra picchi, dirupi e pianure, della carica vitale. Poteva inoltre calcolare due bioritmi e mostrarli contemporaneamente in modo da poter verificare a colpo d’occhio le affinità con il proprio partner. Ma non solo, credo ci fosse anche una linea a rappresentare il lavoro e un’altra la salute.
Nessuno ci credeva, era solo un giochino innocente per passare il tempo e scherzare con gli amici. Purtroppo i sistemi operativi sono cambiati innumerevoli volte e, a quei giochini semplici e veloci, sono subentrati mastodontici videogames con richieste hardware superiori a quelle necessarie per il lavoro di routine.
Mi piacerebbe averlo adesso sottomano, quelllo stupido giochino, per vedere quale sarebbe il responso. Non tanto quello sentimentale che, meno male, fila che è un piacere, ma quello relativo a come mi sento in generale, perché qui, di carica vitale, ne vedo ben poca.
Me ne accorgo quando mi sveglio per cento volte prima, o appena dopo l’alba e non riesco più a dormire, preso da mille preoccupazioni e tante paure. Mi guardo allo specchio e vedo la mia bocca prendere una piega sempre più amara contro la mia volontà. Ridere e sorridere diventa un esercizio obbligatorio in presenza dei figli, ma sempre meno praticato in loro assenza.
Come un operaio della fiat, penso e ripenso alle mie scelte, mi domando se ho fatto bene a rifiutare un contratto capestro ancor peggiore di quello che è toccato a Mirafiori. Non orari di lavoro pesanti, mal pagati, ma ben delineati nella loro struttura, ma una firma in bianco che mi avrebbe costretto a giornate massacranti in cambio di una paga non più alta di quella di un operaio.
Mi sono illuso di avere una specializzazione e un’esperienza che mi avrebbero consentito di muovermi da una posizione privilegiata, di poter ricostruire una vita dignitosa, in cui sarei stato pagato per ciò che valevo, e invece mi sono sbagliato. Gli operai hanno accettato a malincuore un contratto duro, ingiusto, retrogrado, ma hanno (forse) salvato il loro lavoro e la sussistenza della loro famiglia. 
Io ho peccato di presunzione e non ho voluto piegare la testa, pensando addirittura che, chi ci avrebbe perso di più sarebbe stato il padrone e non io.
Mi sbagliavo, come al casinò, il banco vince sempre.

venerdì 14 gennaio 2011

Digital lifestyle

Telefona uno di Brescia. Non il cazzaro dell’anno scorso, quello che scriveva di non andare a Brescia “a posta” per lui, quello che pensava che i libri, oltre a impaginarli, li dovessi anche stampare e che, pure a natale, mi ha mandato gli auguri come in una mailing list di santa claus.
Questo è un altro, dice che possiamo parlare quando verrà a Milano, verso il 24 gennaio. 
Faccio qualche indagine, la sua azienda si presenta come una società di rappresentanza commerciale che: “offre ai propri clienti (il solito) servizio integrato a 360 gradi”. Il sito è brutto, con vistosi refusi nel testo della home page.
Questa volta non faccio nessuna previsione, non ho nessuna premonizione, onestamente sono diventato indifferente e completamente disincantato.
L’anno si è aperto senza nessuna novità, nessuno spiraglio, come la semplice continuazione del purgatorio che è stato quello precedente.
Anche l’attività artistica, malgrado diverse pubblicazioni su siti e qualche recensione, non decolla. Sono indeciso se continuare: le idee non mancano e i risultati sono piacevoli. Certo, è roba un po’ particolare, ma queste sono le mie idee.
Non ho perso inoltre il vizio di riordinare, catalogare, classificare la mia vita, il cosiddetto digital lifestyle così difficile da inseguire. Foto, film delle vacanze, scansione delle diapositive, che prima si guardavano sul telone e che adesso tocca scansire per vederle chissà quando sul computer o la tv. 
È una frenesia come di chi sa che il tempo stringe, che deve sistemare le sue cose perché ormai è giunto il momento dell’ordine, dello sbrigare ciò che si è sempre rimandato, del sistemare le cose della propria vita.

martedì 11 gennaio 2011

Marxismo alla contadina

Ora che i ragazzi sono tornati a scuola, la casa è così silenziosa e inutilmente grande. Anche se stento a sopportare le loro grida, gli schiamazzi, i litigi, il parlare senza sosta della più piccola, questo silenzio è peggiore di tutto quanto.
A costo di contraddire me stesso, le mie idee, ciò che sarebbe giusto, quasi rimpiango la vecchia società contadina, nella quale, ante litteram, vigeva la vera famiglia allargata. Padri, nonni, figli, nipoti, nuore, cognati, vivevano e lavoravano sotto lo stesso tetto, per i comuni interessi, ognuno secondo le proprie possibilità e capacità, in una forma di marxismo contadino all’italiana.

lunedì 10 gennaio 2011

Il cerchio si chiude

Mi chiama l’ex direttore. Come stai, come non stai, auguri per il nuovo anno, dove sei stato durante le feste... e dove vuoi che sia stato? Non ho nemmeno lacrime da versare, ché le tengo per vedere se posso venderle, figurati se mi muovo di casa. 
Alla tv vedo spesso quei documentari etno-culinari che vanno così di moda ultimamente e mi intristisco perché so che forse non avrò nemmeno la possibilità di andare in ferie, e mi domando se mai succederà di nuovo di viaggiare per l’Europa come facevamo da giovani in sella alla mia honda 350 four.
Mia figlia piccola, ogni volta che scopre alla tv posti per lei strani e cose da mangiare diverse, mi chiede quando anche noi potremo provarle e io sorridendo mi invento risposte evasive, futuri fumosi, giorni che forse non arriveranno mai.
Ma per tornare al direttore, mi dice che di solito lui, per serietà professionale, non lavora mai su proposte, ma su progetti concreti e definitivi (anche se qualcuno mi ha detto il contrario), ma che questa volta, visti i tempi, avrebbe intenzione di lavorare diversamente e presentare un progetto a persone che, per ora, hanno solo espresso un certo interesse, nulla di più.
Chiede se sono disponibile a impegnarmi in qualcosa che non ha ancora nessuna certezza, ma solo qualche speranza. Dico che sì, io ci sto, piuttosto che starmene con le mani in mano preferisco lavorare per la speranza, anche se dentro di me sento la solita vocina che dice: “Lo sapevo che sarebbe finita così, lavorare gratis, sulla parola, sulla speranza. Manco Marchionne”.

martedì 4 gennaio 2011

Buoni propositi un cazzo!

Una volta, ma mica tanto tempo fa, facevo i buoni propositi per l’anno nuovo. Niente di che, cose come trascorrere più tempo con i figli, essere più gentile con mia moglie, perché, in fondo, sono sempre stato una persona buona. Ho pagato le tasse, ho lavorato onestamente, credo di essere stato un buon padre, non bevo, ho pure smesso di fumare.
Una volta, un presidente americano diceva: “Non domandatevi cosa possono fare gli Stati Uniti per voi, ma cosa potete fare voi per gli Stati Uniti”.
Bene, io credo di aver fatto per il mio paese tutto ciò che un buon cittadino deve e può fare. A questo punto mi chiedo: “Adesso cosa può fare per me il mio paese?”. 
La risposta è molto semplice: “Un emerito cazzo”.
Perché lo stato continua implacabile a riscuotere anche l’ultima lira di tasse, mentre quando chiedo un aiuto qualsiasi, nessuno risponde? È forse questa l’idea di democrazia che dovrei insegnare ai miei figli?
Tahar Ben Jelloun scrive sulla Repubblica di ieri: “Il nostro tempo è dalla parte dei furfanti, degli impostori, dei corrotti e corruttori, degli usurpatori e falsari, di chi è diventato potente grazie al denaro facile, e non con la virtù umanitaria. [...] Gli uomini si vendono e si possono comprare; si compra il loro voto, la loro coscienza, il loro senso morale, di cui volontariamente si spogliano, perché così stanno le cose: il Bene, il Diritto, la Giustizia non rendono più, sono disdicevoli in un mondo dove ogni giorno la brutalità colpisce i più indifesi”.
Poi esorta a tenere la schiena dritta e a combattere il demonio che alberga innanzitutto dentro l’uomo eccetera.
Io l’ho fatto, ho tenuto la schiena dritta, ho combattuto il demonio che mi esortava alla violenza alla rabbia, all’intolleranza. Ma a che mi serve avere la schiena dritta se non ho un lavoro per mantenere i miei figli? Come posso insegnare loro che l’onestà, la rettitudine, la morale sono valori a cui mai e poi mai si deve rinunciare e, allo stesso tempo, proporre il mio esempio: quello di un uomo che per seguire la coscienza e i principi di giustizia e libertà si ritrova col culo per terra?
Ma quali buoni propositi per il nuovo anno! Quale rettitudine, quale onestà! Ecco a cosa mi hanno portato. Vivere una vita onesta cercando di far crescere me stesso, la mia famiglia e il mio paese (e non lo scrivo a caso con la p minuscola) sono serviti soltanto a ritrovarmi, alla porta dei cinquant’anni, con un pugno di mosche in mano e tante prese per il culo.

lunedì 3 gennaio 2011

Io e (san) Silvestro

Col capodanno non sono mai andato molto d’accordo. Eppure è una delle mie feste preferite, con quel patrono col nome da cartone animato della Warner bros.
Finalmente una festa totalmente pagana, di bagordi senza sensi di colpa, di sesso, di liberazione.
Il primo, o meglio, i primi capodanno vissuti in libertà, di cui ho memoria sono due. Uno nella cantina di qualcuno che non ricordo, con gli amici della compagnia del quartiere. Ragazze (poche) che limonavano (con altri), musica a volume inaudito, canne a ripetizione che su di me non avevano il benché minimo effetto e l’immancabile arrivo delle volanti chiamate dai vicini di casa.
Il secondo, con amici del liceo che, colpo di culo inaudito, disponevano di un magnifico salone in una casa d’epoca dalle parti di via Giuseppe Verdi o via Filodrammatici, a ridosso della Scala e la sede di Mediobanca, in cui la madre di qualcuno era portinaia o qualcosa del genere.
Eravamo pochi, una quindicina o forse meno, ricordo di aver ballato qualche lento con una ragazza a cui credo piacessi, ma che non piaceva a me. Col senno di poi avrei potuto approfittarne e sfruttare il momento propizio, ma c’è un’età in cui essere imbranati rasenta la patologia e in cui si rimediano poderose erezioni da mal di schiena.
Avevo un maglione nero e bianco fatto ai ferri da mia madre che mi faceva morire di caldo e, come sempre nelle occasioni ufficiali, ero afflitto da flatulenze che non sapevo dove e come sfogare.
In seguito organizzavo il capodanno in modo da poter stare insieme alla mia fidanzata da solo, sfruttando la casa di suo fratello e sloggiando prima che rientrasse dai cenoni al ristorante. L’unico inconveniente di quelle serate romantiche era che mi emozionavo a tal punto che la testa mi esplodeva, preda di un’emicrania devastante, e finivo la serata vomitando nel cesso.
La serata più triste in assoluto è stata quando abbiamo festeggiato il capodanno nella villetta del fratello di mia moglie. Ospiti: dei parenti arrivati da Napoli e altri sfigati misti raccattati chissà dove. Era l’epoca in cui infuriava la lambada, alla fine degli anni ‘80. Mia cognata si era così fissata che ci toccò ascoltarla per tutta la sera, mentre degli idioti mi costringevano a ballare sculettando come una ballerina del tropicana. A mezzanotte i parenti di mia cognata si misero in testa di sparare i botti che avevano portato da Napoli, ma erano così umidi che al massimo gli scoppiettavano fra le mani bruciandogli le dita e i maglioni.
Questa serie di esperienze mi ha convinto a festeggiare il capodanno in casa, sperando che lo spiritello dell’anno nuovo non facesse più di tanto caso a me e non si accanisse con malesseri vari di tutti i generi.
Per questo ho deciso di dedicare al sesso e alle serate trasgressive qualunque altro giorno che non sia il 31 dicembre.