venerdì 29 ottobre 2010

Senza titolo

E con oggi finisce anche quel misero part-time di mia moglie. Un mese di prova (a maggio), per cinque mesi di lavoro e tremila euro netti, che non hanno coperto nemmeno un terzo delle spese vive che abbiamo sostenuto durante questo periodo.
Il catalogo-rivista a cui sto lavorando con l'ex direttore assomiglia sempre più alla tela di Penelope: il giorno dopo si disfa quello che si è fatto il giorno prima, senza capire quando, e se finirà mai questo lavoro.
La rivistina per i commercialisti siciliani per cui avevo preparato un preventivo al limite della vergogna (450 euro per il progetto della testata e quello grafico e 10 euro a pagina per la realizzazione), sembra sfumata. È subentrata la solita tipografia con grafica incorporata. Avevo già parlato male dei tipografi, ma a quanto pare non è mai sufficiente.
Del giornale dell'associazione umanitaria non si sa ancora niente, ma perché essere ottimisti quando si ha la certezza che le cose andranno male comunque?
Eccoci quindi in pieno limbo, una punizione che dura ormai da quasi un anno, che ha prosciugato le nostre scarse risorse, che mi ha fatto perdere più capelli di quanti non ne abbia mai persi, che ci rende schiavi dell'aiuto economico di mia madre che, naturalmente, impone i suoi ricatti.
E il prossimo che mi dice di andare all'estero giuro che lo mando affanculo.

giovedì 28 ottobre 2010

Ancora Serpenti

Ho sognato di nuovo serpenti. Serpenti e vecchi compagni di liceo. Accostamento troppo facile. In passato, e anche in tempi più recenti, ho sempre considerato gli ex compagni degli esseri infidi se non degli emeriti bastardi, ma credevo anche di essere ormai vaccinato e infatti non ci ho mai pensato più di tanto.
Ciò che mi disturba in questo sogno è la banalità del mio inconscio. Davvero si limita ad associazioni così semplici? Mi sento tradito e deluso da persone che non vedo da trent'anni ed ecco che l'inconscio me li serve con contorno di serpenti? Tutto qui? Questo è il massimo che riesco a produrre? Abbastanza vergognoso per uno che immodestamente si definisce creativo ogni cinque minuti.
Allora la morale potrebbe essere che di creativo ci sia rimasto ben poco, oppure che, sotto sotto, la cosa non è così semplice come me la figuro.
L'unico fatto che non mi convince sono proprio i serpenti: i primi ad entrare dalla portafinestra del balcone erano snelli e di un bel colore bruno brillante, quasi aragosta. Sapevo che erano velenosi e quindi la mia preoccupazione è stata subito per i ragazzi. Li ributto giù dal balcone senza difficoltà, schifo o ribrezzo, ma voglio capire da dove arrivano e perché.
Salta fuori che forse è colpa dei giardinieri che hanno rivoltato la terra e sradicato un paio di alberi (cosa vera) dal giardino condominiale, e quindi, stanato involontariamente qualche nido di serpenti che, guarda caso, si sono rifugiati su un grosso albero tropicale come quelli che si vedono nei documentari alla tv.
Alzando lo sguardo vedo che tutti i rami sono letteralmente ricoperti e decorati di serpenti, come un albero di natale vivente. Sono di tutti i colori e le fantasie immaginabili, di ogni forma e dimensione. Alcuni grossi come boa, altri ricordano le lumache marine della Liguria e altri ancora non sono più grandi di un lombrico.
I compagni di liceo erano per strada, che aspettavano di andare non so dove e non so per quale motivo. Ma credo che in fondo fossero solo qualcosa di ornamentale, un surplus piazzato lì da un inconscio megalomane.
Poi, come sempre accade nei sogni, mi sveglio senza che la storia si concluda in qualche modo, razionale o irrazionale.
L'altra volta, era agosto, mi ero consolato con l'interpretazione che Jung dava rispetto al sognare serpenti e cioè un conflitto fra coscienza e istinti con la contemporanea presenza di energia vitale, legata a situazioni di disagio e insicurezza. Non c'è che dire, la fotografia rappresenta perfettamente il brutto periodo che sto vivendo e che, per ora, non vede sbocchi sufficientemente consolatori. Ma allora il nostro cervello, oltre ad essere una macchina meravigliosa, è anche, in una certa misura, così prevedibile nelle sue reazioni? Davvero chi vive situazioni di incertezza sogna le stesse cose? Davvero è tutto frutto di semplici reazioni chimiche? Davvero non abbiamo altra scelta se non essere e fare ciò che una semplice sostanza chimica impone?

martedì 26 ottobre 2010

Le regole di Walker

Che noia! Non capisco più questo modo di lavorare. Se dovessi credere al timone che ha preparato l'ex direttore, dovremmo chiudere il catalogo-rivista entro venerdì, ma rimangono ancora da impaginare almeno trenta pagine delle ottantadue totali.
Il fatto è che lavoro a singhiozzo. Un giorno mi martella dalla mattina alla sera alle otto, poi sparisce per un paio di giorni e, ogni volta che lo risento, ho il terrore di scoprire che il lavoro è saltato, oppure è da impaginare nuovamente perché il cliente ha cambiato idea.
Nel frattempo ho ricevuto una richiesta di preventivo per una rivistina di commercialisti siciliani, in cui mi chiedono a priori di essere trattati superbene perché letteralmente poverissimi. Mentre io invece sono qui che navigo nell'oro. Ma, come diceva non so chi in un episodio di Walker Texas Ranger, due sono le regole: mai farti vedere sanguinante, e l'altra non la ricordo.

lunedì 25 ottobre 2010

La roba

Gli oggetti, qualunque oggetto, ci sopravviveranno. Vecchi pettini di plastica, accendini bic, la scatola di sigari vuota, le scarpe invernali, quelle che abbiamo messo solo tre o quattro volte, lo stupido portachiavi in omaggio nella scatola di cereali, la penna della prima comunione col refill scarico.
Ognuno di questi insulsi oggetti ha un'aspettativa di vita di gran lunga superiore a quella della nostra fragilissima esistenza. Al massimo possiamo competere coi sacchetti biodegradabili, ma non è detto. Anche una misera scatola di fiammiferi dimenticata in un cassetto può ottimisticamente vantare un'aspettativa di vita maggiore della nostra.
Quel semplice sasso che usiamo come fermacarte esiste da qualche milione di anni e, dopo la nostra morte, aspetterà paziente per qualche altro milione di anni prima di trasformarsi in polvere.
Eppure viviamo come se fossimo immortali. La morte non esiste; al massimo è permessa quella violenta, ma la società dei consumi non contempla la vecchiaia e, tanto meno la morte naturale. Così continuamo ad accumulare robaccia che, come unico pregio, ha la possibilità di biodegradarsi dopo centinaia o migliaia di anni, quando noi saremo polvere da tempo. Ecco la nostra traccia nel mondo: una scia di pattumiera che erediteranno i figli e i figli dei nostri figli. Ciarpame che verrà buttato in discarica, roba che dopo di noi non avrà alcun motivo di esistere, oggetti dozzinali di cui nessuno saprà che farsene.
Domenica ho riordinato un paio di miseri cassetti che però contenevano una quantità di paccottiglia inutile che si accumula anche quando non vogliamo. Vecchi portachiavi, pezzi di ricambio inutilizzati, cavi elettrici che non buttiamo perché non si sa mai, un giorno o l'altro potrebbero tornare utili, ma non è vero. Più butto roba e più sembra formarsene di nuova. Esce da ogni anfratto, da ogni cassetto, da ogni mensola. Oggettini pacchiani che hanno il solo pregio di non distruggersi mai, di non consumarsi mai, che mi guardano ridacchiando e prendendomi per il culo. Mi pare di sentire le loro vocine querule: "Tanto quando tu sarai morto e sepolto noi saremo ancora qui, e saremo qui quando i tuoi figli e i figli dei tuoi figli saranno polvere".
Per questo vi getto via, bastardi, vi distruggo, vi riciclo.
Un tempo gli antichi portavano nella tomba ciò che possedevano di più prezioso: la spada, i gioielli, tutt'al più qualche oggetto di uso quotidiano. Oggi nella tomba cosa ci potremmo mai portare di davvero prezioso e utile? Il cellulare? Il blackberry, senza il quale molti sembrano non poter vivere? Il computer? L'iPod?, L'automobile? No, niente di davvero utile, niente di prezioso, niente di unico. Solo cose, identiche a quelle che hanno milioni di altre persone. La roba, come diceva Verga, niente di più.

venerdì 22 ottobre 2010

Gli ultimi sassolini

Se proprio dobbiamo toglierci tutti i sassolini dalle scarpe, allora togliamoli una volta per tutte, e poi non ne discutiamo più.
Del mafioso pelato ne ho già parlato tanto, troppo rispetto a ciò che vale, e cioè meno che niente.
Uno nato a Caltagirone da genitori profondamente meridionali che, avendo trascorso alcuni anni dell’infanzia in Toscana, rinnega le proprie origini, anzi, se ne vergogna ed esce con frasi come: “È un’idea che è venuta dalla mia Toscana”, mentre sorride come un ebete e gli occhi si fanno falsamente lucidi, che uomo è?
Uno che, in occasione delle premiazioni organizzate dalla sua miserabile azienda, si veste come se dovesse prendere la cresima, sempre con lo stesso completino gessato da mafioso di periferia e che, per di più, sale sul palco per mostrarsi, per fame di notorietà, per atteggiarsi a manager di successo, che uomo è?
Uno che insiste nel dire, malgrado gli si attorcigli immancabilmente la lingua e ne esca un qualcosa di comicamente irresistibile: “croisette”, tanto per far vedere che il Festival della Pubblicità di Cannes è il suo pane quotidiano, che uomo è?
Ma non è di lui che voglio parlare. Troppo facile dire che uno scarafaggio vive nella sporcizia e nei rifiuti, che un pidocchio succhia sangue a sbafo, che un insetto stercorario colleziona palline della merda altrui, o che la tenia sopravvive a spese dei suoi ospiti.
Voglio parlare di chi, volontariamente, si sottomette al padrone, ne fa l’interesse, sguazza nel doppio gioco e, a volte, anche nel triplo, col risultato di diventare schiavo, giullare e servitore.
Gente che si sottomette schiamazzando come una gallina, ma cagando ogni giorno l’uovo richiesto, accontentandosi di un pugno di mais e della sua stessa merda.
Una è M., la responsabile di redazione fin dalla prima ora insieme a me e al mafioso pelato. Figlia di un carabiniere, bionda come tanti siciliani, un viso quasi angelico piantato in un corpo da scaricatore di porto. Sempre pronta alla battuta greve, al linguaggio sporco, si meraviglia che le sue grandi tette non abbiano mai sortito alcun effetto nei miei confronti. Doppiogiochista di lungo corso, abile nel seminare malcontento quanto pronta nel riferire le lamentazioni altrui. Pettegola all’inverosimile, al solo scopo di rafforzare la propria posizione, me la sono ritrovata al mare, in una visita di cortesia durante le vacanze, senza capirne il motivo e senza ricavarne alcun elemento utile. L’ultima volta che l’ho sentita è stata per chiederle delle riviste che intendevo usare per la causa al mafioso pelato; mi ha mentito dicendo che erano esaurite. Da allora il silenzio.
S. è una ragazza di Trieste pazza come un cavallo, preda di crisi depressive tremende, strafatta di psicofarmaci, incapace in certi giorni, di capire le frasi più elementari. Come possa essere laureata in psicologia resta uno dei più grandi misteri insoluti della mia carriera lavorativa. Faccina smunta, corpo da contadina friulana, sorriso da Joker, lesbica per paura degli uomini. Anche lei, chissà perché, ci ha fatto la solita visita di cortesia durante le vacanze, accompagnata dall’amica così chiaramente gay da mettere soggezione. Dopo la cena, che ho offerto come si conviene a un gentiluomo, è scomparsa dalla faccia della terra.
C. è invece una ragazza dalla voce squillante e femminile come raramente capita di sentirne. Peccato che alberghi in una tipina slavata, smunta e bruttina, con tanto di occhiali da miope. Una voce che non deve ingannare, perché nasconde un carattere e un pensiero che definire reazionari è forse poco. Un’anima doppia, insensibile, ingrata. Le tante moine e birignao che scambiavamo durante le telefonate di lavoro, sono finite nella spazzatura insieme a me. Mai più risentita.
Altra C., ragazza sarda e, come tale, imprevedibile e frignona. Le telefonate con lei erano una sequela di lamentele, piagnistei e scaricabarile per mascherare la sua pigrizia. Di una permalosità esemplare. Ora lavora in un’altra redazione, è stata mandata in Canada per le Olimpiadi Invernali, ma mi ignora deliberatamente.
Parlare di T. è come sparare sulla croce rossa. Uno degli uomini più brutti che mi sia mai capitato d’incontrare. La mia stessa età, pochi capelli, un angioma mal nascosto dalla barba incolta, sovrappeso, bassotto e mal vestito. Pensavo fosse un emerito sfigato, uno di quegli sgobboni che non fanno altro che lavorare e spiare donne nude su internet. Poi salta fuori che è pure sposato e ha avuto il coraggio di fare anche due figli. Vedo su linkedin che ha frequentato medie e liceo una delle scuole private bilingui più prestigiose di Milano, ovvero l’Istituto Leone XIII. Qualche anno in giro per il mondo al seguito del padre ingegnere e un diploma triennale in giornalismo televisivo allo IED. Insomma, uno che si è dato da fare, tranne che durante la collaborazione col mafioso pelato, periodo nel quale non è mai riuscito a rispettare alcuna scadenza, scaricando le responsabilità verso tutto e tutti. Poi ho saputo che passava le sue giornate lavorative scaricando film, navigando in internet e imbambolandosi davanti al computer. Mi ha ispirato da subito un’antipatia genetica, comunque reciproca. Malgrado i bonus avuti per la sua formazione e che non ha saputo utilizzare come si deve, penso sia un coglione, stupido e sfigato. Senza malizia, s’intende.
Le altre persone che ho avuto modo di conoscere lavorando per il mafioso pelato, sono quanto di più insulso e intellettualmente inutile si possa immaginare, e quindi non valgono nemmeno il tempo di darne conto.
E con questo, se non subentreranno ulteriori novità, ho deciso di chiudere definitivamente il discorso mafioso pelato. Vorrei ci fosse anzi un modo per cancellarlo dalla mia mente, far sì che non ne possa nemmeno immaginare l’esistenza, cancellare l’esperienza di averlo conosciuto. Però, se un giorno dovessi incontrarlo per strada, sono certo che mi farei qualche mese di galera.
PS: si nota che sono ancora estremamente incazzato?

martedì 19 ottobre 2010

Per oggi va così

E io che pensavo di combinare chissà cosa con questo blog.
Che pensavo di svelare i segreti della comunicazione; segreti che avrebbero sbalordito le persone comuni. Io che credevo di sputtanare il mafioso pelato e tutti gli altri parassiti che vivono ai bordi del mondo dorato, quello fatto di tanti soldi di bella gente, feste, coca e compagnia bella. Io, quello che diceva: “Appena il pelato mi vuole inculare gli metto in piedi una causa che lo faccio piangere per tutta la vita”. Pensavo di valere qualcosa, di avere qualcosa da dire, di sfruttare la mia esperienza per migliorare la situazione in breve tempo.
Ero sempre io quello che diceva: “Beh, meglio così, perché il mafioso e tutti i suoi leccamenti di piedi, le sue brillanti idee per campare sulla presunzione altrui, mi hanno dato la nausea". 
Quello che pensava di suonare e invece è stato suonato. Quello che, come diceva er monnezza: “È come er cane Mustafà, che la pigliava in der culo e pensava de scopà”. 
Quello che, malgrado si leggesse tutte le sere Sun Tzu e la sua arte della guerra, ha perso invariabilmente tutte le battaglie. Niente lavoro, niente con il blog, niente con l’arte, niente nemmeno con i concorsi fotografici.
E tanto per chiudere in bellezza, a fine ottobre anche mia moglie tornerà a spasso.
Almeno l'operazione di mia madre è andata bene, e oggi è il compleanno di E. quindi ci penserò un'altra volta.

lunedì 18 ottobre 2010

Cominciamo bene...

C. chiede se mi sono ricordato di comprare quelle buonissime bistecche di manzo, E. si accerta invece se ci sono i dolci per fare colazione. Io penso che i soldi stanno quasi per finire e non potrò mai seguire la dieta salvavita che propugna la ginecologa di mia moglie.
Secondo lei, la rovina dell'umanità è stata la scoperta dell'agricoltura. L'unica vera e sana alimentazione adatta all'uomo era quella precedente; ovvero: carne, pesce, qualche vegetale crudo, uova, frutta selvatica. Il resto è puro veleno. "Se vuoi morire giovane e di cancro - dice - mangia pure la pastasciutta, la pizza, il riso, i cereali e i legumi, il formaggio, il latte, lo zucchero e i dolci. Ma poi non venire a lamentarti da me".
Ma è una dieta costosa da seguire, molto costosa. Come faccio a riempire lo stomaco che pare non avere fondo dei miei figli, a forza di bistecche e pesce? Come placherei la loro fame senza un abbondante piatto di pasta, o un panino ripieno di tutto ciò che contiene il frigorifero? Con due bistecche di manzo che ingoiano in massimo tre minuti, ci compro almeno tre o quattro chili di pasta. E non parliamo del pesce; un trancio di tonno o pesce spada che basta sì e no per una persona, costa come pranzo e cena a base di pasta, verdure o uova per quattro persone.
La ginecologa dice che ci si deve liberare dalla retrograda abitudine italiana del pasto, della mangiata in famiglia, dell'ingurgitare per il gusto di ingurgitare. Posso anche essere d'accordo: non ho mai sopportato quei pranzi infiniti del giorno di natale, o il cenoni a casa dei miei suoceri che ti facevano venire voglia di essere all'altro capo del mondo. Però sono al contempo un tradizionalista che crede che, almeno la cena, debba essere un momento in cui è riunita tutta la famiglia, il tempo in cui ci si scambiano le impressioni sulla giornata, le informazioni su ciò che si è fatto, si discute, si scherza e si parla di tutto. Per questo non ho voluto la televisione in cucina.
Non potrei concepire una casa in cui ognuno mangia un pezzo di grana, o un uovo sodo, solo quando ha fame. Sarebbe peggio di un canile, dove ogni bestia mangia da sola, ma almeno contemporaneamente a tutte le altre.
E anche ammesso che possa permettermi una diete fatta di carne, pesce e poco altro, davvero sarebbe una cosa sana? E il colesterolo? e la gotta? E il mito dell'alimentazione variata, della dieta mediterranea? E quel ciarlatano di Veronesi che, dopo aver propugnato le virtù della verdura e condannato le carni come portatrici di malattie, oggi ha accettato di essere a capo dell'agenzia per la sicurezza nucleare italiana? Cosa piuttosto strana per uno che, con la lotta a tumori e leucemie, ha costruito la propria fortuna non solo economica. D'accordo, forse non ho scelto l'esempio più cristallino, ma tutto il mondo non ha sempre inneggiato alla dieta mediterranea? Significa che sono tutte cazzate? Mia suocera ha passato la sua vita mangiando verdure bollite, poca pasta, quasi niente carne e si è guadagnata un tumore all'intestino che se l'è divorata, quello sì, in un paio d'anni. Mia nonna e mio suocero hanno mangiato tutto quello che, in teoria, fa male: carne, condimenti grassi, vino, pasta tutti i giorni, poca verdura, insaccati, eppure hanno tirato una 96 anni, e l'altro 89. Mio padre mangiava come un canarino, poco di poche cose, ed è schiattato a 59.
Non so cosa pensare, e non ho né i soldi e neanche la testa per seguire diete troppo strambe.
Cambiando discorso, come dicono al telegiornale, il lavoro con l'ex direttore prosegue, ma invece di darmi forza e fiducia, sembra quasi ottenere l'effetto opposto. Sento che monta nuovamente un senso di inutilità, di fallimento, di ineluttabile disgrazia. Ricominciano i sogni malati, fatti di insufficienze scolastiche dei figli e di occasioni lavorative che sfumano inevitabilmente appena riapro gli occhi. In più mia madre mancherà al compleanno della nipotina perché ricoverata in ospedale. Non sono molto preoccupato, anche se, malgrado la nostra totale incompatibilità caratteriale, non posso non considerare che è pur sempre l'essere che mi ha messo al mondo.
Non c'è che dire, proprio un bell'inizio di settimana.

venerdì 15 ottobre 2010

Il puzzle

Il lavoro d'impaginazione del catalogo prosegue senza grandi intoppi. Passato il primo momento di spaesamento, le mani si muovono su mouse e tastiera quasi di vita propria, applicando ciò che hanno imparato in tanti anni di lavoro. È come un pilota automatico che, una volta inserito, mi guida alla risoluzione di ogni pagina come alla giusta collocazione della tessera di un puzzle. Un gioco che mi sembra la definizione più vicina a quello che per me significa impaginare.
Come in un rompicapo per bambini, dispongo i vari elementi, provando e riprovando, fino a che mi sento soddisfatto, fintanto che la vista non trasmette una sensazione di completezza, armonia, soddisfazione, di un piacere quasi fisico che mi scalda lo stomaco. Allora so che quello è il risultato migliore, che altre disposizioni della pagina non potranno che mortificare il risultato raggiunto, che, almeno per me, non ci sono altre alternative.
E il bello, è che ogni lavoro è un puzzle diverso; con più o meno pezzi, di soggetto diverso, monocromo o scoppiettante di colori, con forme umane oppure astratte. E ognuno va affrontato in modo diverso, l'approccio deve adeguarsi al soggetto della pagina e tenere conto dell'insieme del quadro generale. Non posso affrontare un servizio senza avere in mente la totalità di ciò che sto facendo, perché ogni pagina è un mondo a sé, ma deve anche rientrare in uno schema più grande, direi universale, senza suonare a vuoto, senza acuti fuori luogo.
Ogni lavoro è come il primo giorno di scuola, che non è solo il primo distacco da casa, ma sono soprattutto quelli successivi, che affrontiamo a ogni nuovo anno scolastico, con più sicurezza ed esperienza, ma sempre con un vago senso di inadeguatezza, di apprensione, di leggera tensione, che si stempera non appena saranno trascorse poche ore e avremo ritrovato i compagni, la fiducia, la certezza delle nostre capacità. Quando ci accorgiamo che ciò che abbiamo imparato non è svanito, migrato insieme alle rondini in autunno.

mercoledì 13 ottobre 2010

La grande cospirazione

Va bene, ce la faccio, era solo un po' di ruggine e tanto casino da parte dell'ex direttore. Ma funziono ancora e sono ancora abbastanza veloce. Non come prima, ma me la sono cavata e ho esaurito il materiale che avevo da impaginare. Mi sono pure sorbito uno scatto di nervi del direttore, convinto che non gli avessi caricato i caratteri giusti, ma l'ho superato con tranquillità olimpica, anche se dentro di me già si stava accendendo una fiammella pronta a divampare. Ho deglutito un paio di volte, e la saliva l'ha spenta.
Peccato solo per la telefonata ricevuta da una zelante impiegata della mia banca che, con fare piuttosto arrogante, mi rimproverava che non potevo ricevere bonifici per lavoro perché il mio è un conto corrente personale e quindi, un domani, avrei potuto avere problemi con gli avvocati: "Sa, si possono attaccare a un cavillo e allora...".
"Ma quali avvocati? - ho chiesto alla stronza - i vostri! Non certo i miei o quelli dei miei clienti. E poi, non si vergogna di ciò che sta facendo per un conto che movimenta qualche decina di migliaia di euro all'anno?".
"Beh, guardi, non è che sono qui per discutere di queste cose - risponde la stronza - e poi queste non sono le mie mansioni, dovrei anche chiederle via fax la copia della fattura".
No. Non è il momento giusto per rompermi i coglioni in questo modo. Non sopporto le impiegate zelanti che pensano di ottenere promozioni facendo le delatrici sulle attività dei clienti e pensando che così facendo io passi da un conto corrente che mi costa venti euro di spese fisse a trimestre, a un conto aziendale che come minimo mi deruberebbe di quattro o cinquecento euro all'anno. Di quale azienda poi? Nell'ultimo trimestre ho emesso solo tre fatture per un totale di 2400 euro, meno dell'accredito in conto di qualsiasi stipendio di un lavoratore dipendente.
"Senta signorina - ho detto alla stronza, trattenendomi dal mandarla direttamente affanculo - mi dispiace perché sono quasi vent'anni che ho il conto da voi, ma di banche ce ne sono tante, e prima di cambiare tipo di conto, è molto meglio che cambi tipo di banca".
A questo punto vedano un po' loro cosa intendono fare: perdere il cliente, o smetterla di rompere i coglioni.
Ma cos'è? Il grande complotto, la grande cospirazione messa in atto dalla cia in combutta con potenze aliene, dedita alla conquista del pianeta Terra attraverso la distruzione del sottoscritto?

martedì 12 ottobre 2010

la bestia fagocitatrice

L'ex direttore si è svegliato e, come una bestia aliena dei film di fantascienza degli anni cinquanta, ha iniziato la sua opera fagocitatrice.
Ha cominciato a vomitare materiale verso il pomeriggio di ieri e, per la sera, già aspettava qualche impaginato.
Ora ha scoperto anche skype, cosa che per un ligure-piemontese come lui non può che rappresentare la conrucopia dell'abbondanza. Mi chiama ogni mezz'ora circa, ora per mandare materiale, ora per sollecitare. Ma è diventato vecchio e più arruffone di quanto non fosse qualche anno fa. Molte fotografie, che dovrebbero essere in alta risoluzione, sono spesso malamente ricampionate, quindi inaccettabili per un'azienda che fa delle tv 3D e HD il suo cavallo di battaglia. I testi insufficienti a coprire la lunghezza dei servizi, gli schizzi degli impaginati inverosimili e quasi impossibili da rispettare.
Forse anch'io sono diventato vecchio e, come tutti i vecchi, impiego il doppio del tempo a fare le cose. Forse sarà anche la ruggine accumulata in tutti questi mesi di inattività. Il fatto è che ho paura. Paura di non riuscire a produrre un lavoro qualitativo, paura di essere troppo lento, paura di essermi fossilizzato in una creatività antica.
Ma non mi dò certo per vinto e, proprio per questo, ora è tempo che torni al lavoro.

lunedì 11 ottobre 2010

Gabina o orinatoio?

Sabato, causa di forza maggiore - comprare le scarpe per ginnastica a E. - sono tornato in centro dopo non ricordo quanto.
Naturalmente in metropolitana; linea rossa, che una volta aveva i vagoni rossi e bianchi, e oggi, chissà perché, sono di un triste e cupo grigio antracite.
Ad ogni fermata, una frizzante voce femminile ci aggiorna su quale sarà la prossima stazione, in italiano e un inglese arruffato, mentre dagli inutili schermi lcd appesi ai sostegni, scorrono le immagini della linea e delle fermate. A ogni aperura delle porte, gli altoparlanti esterni ripetono la stessa manfrina: “Fermata di San Babila, San Babila”. E quando si esce dalle vetture, in tutte le fermate del centro, videoproiettori sputano sulle colonne tra una banchina e l’altra, interminabili spot pubblicitari a volume inaudito.
Quando ero un frequentatore abituale della metro, mi facevo almeno un paio di volte al giorno il viaggio da un capoilinea all’altro della linea rossa, leggendo libri di fantascienza, riviste o quotidiani. Come potrei farlo oggi con queste voci esasperanti che martellano costantemente le orecchie almeno tre volte ogni stazione?
Scendiamo in Cairoli, mitica stazione in cui, ai tempi del liceo, stazionava fisso un tipo, drogato fino ai capelli, che ti chiedeva incessantemente qualche spicciolo: “Devo prendere il treno per tornare a Brescia e mi mancano i soldi, non è che c’hai qualcosa da darmi?”. Inoltre era una delle poche fermate munite di gabinetti pubblici a pagamento. Un punto fermo del nostro personale vademecum per sopravvivere a Milano. I cessi erano puliti e la domanda di rito di un vecchio che sedeva dietro una scrivania ancor più vecchia di lui, era invariabilmente: “Gabina o orinatorio?”. Il senso era: “Devi fare quella grossa o solo pisciare?”. E con cinquanta o cento lire, risolvevi i problemi di autonomia, specie in inverno. Naturalmente i cessi non ci sono più, né in Cairoli e nemmeno a Lima e probabilmente in nessun altra stazione della linea rossa.
Le scarpe le compriamo da Decathlon, là dove una volta sorgeva la Standa, teatro di innumerovoli espropri proletari e di merende volanti a prezzi economici, altra meta del vademecum milanese. Ora negli stessi locali vivacchia un grande magazzino dello sport popolare; scarpe di plastica, abbigliamento made in china e muri grezzi intonacati a calce illuminati dai neon. Ma non me ne lamento, visti i tempi, un paio di scarpe da ginnastica a meno di dieci euro e un paio di pantaloni sportivi a meno di trenta, sono una manna dal cielo.
Piazza Castello non mi piace più, eppure, insieme al parco Sempione, erano un centro di raccolta per i giovani. Sabato invece mi sono apparsi desolati, con i pullman a due piani rossi, quei maledetti City Sightseeing che spopolano in ogni città e due spocchiosi vigili a cavallo che si prestavano alle foto dei turisti davanti alla torre del Filarete.
Peccato che in via Dante, diventata chissà perché una striminzita area pedonale, nessuno avesse raccolto le innumerevoli cagate di cavallo rimaste lì a profumare l’aria già di per sé maleodorante.
Per fortuna c’è ancora la libreria remainders, sopravvissuta chissà come ai bar per allocchi che offrono improbabili insalate a dieci quindici euro. Grazie a quelle due vetrine piene di libri, ho formato buona parte della mia libreria classica e la totalità di quella erotica: Mirabeu, De Sade, Gamiani, Diderot, Moupassant, Giorgio Baffo eccetera. Altra tappa fissa del vademecum, come il negozio di cioccolata, biscotti e dolci in via Meravigli, incredibilmente ancora aperto nella desolazione di quella che era una fra le vie più belle di Milano.
A servire c’è ancora quel signore scontroso e anche un po’ stronzo che si innervosiva quando la scelta cadeva su mille lire di una cosa e mille di un’altra. Con l’età si è leggermente addolcito, ma non più di tanto. Chiacchierandoci, si lamenta del fatto che nessuno dei figli porterà avanti un punto fermo del nostro bighellonare adolescenziale. “Cosa vuole, i giovani non hanno voglia di lavorare dodici ore al giorno, sempre qui, tutti giorni dell’anno, senza mai vedere qualcosa di diverso. In fondo non me la sento nemmeno di biasimarli, e anche il negozio comincia a reggersi in piedi per miracolo, ma se cambio l’arredamento, va a finire che perdo anche i clienti. Pensi che è venuta la Moratti e nemmeno lo conosceva, eppure abita qua vicino”.
Più avanti, piazza Cordusio non riesce a trovare pace. Strade rivoltate, percorsi pedonali deliranti, il nulla totale fra le storiche sedi delle Assicurazioni Generali e Unicredit, inesorabilmente deserta anche in un sabato mattina di ottobre. Solo dei poveri disgraziati, vestiti con le tute di carta bianca degli operai dell’azienda elettrica e la testa rinchiusa in un cubo di cartone verde, sono impegnati nell’ennesima, solita, inutile e patetica operazione di guerrilla marketing, ideata da qualche creativo presuntuoso quanto imbecille, consegnando nei negozi inutile paccottiglia che i commessi si affrettano a togliere dai banconi infognandola nella pattumiera.
Stupide ragazze eredi di "quei de la mascherpa" (1) dalle cosce grosse come calciatori fasciate in minigonne senza gusto, chiacchierano al cellulare a voce alta in modo che tutti possano sentire dei loro meeting, o dei loro problemi di organizzazione aziendale probabilmente inesistenti.
Alla Città del Sole, i banali genitori di sinistra e politicamente corretti quanto benestanti, comprano ai loro figli viziati i soliti giochini di legno altamente educativi e cari come il fuoco. Mentre un esercito di almeno una decina di negri cercano di vendere libri che non hanno né capo, né coda.
No, non è questa la mia Milano, quella Milano grigia, fumosa, a volte cattiva e altre generosa, sobriamente impegnata a lavorare, a fà i danée, sempre in prima fila nelle lotte politiche, creativa senza essere inutilmente presuntuosa, dove il benestante e l’operaio si rispettavano reciprocamente, senza disprezzarsi, dove chiunque avesse voglia di lavorare trovava la sua collocazione. Una città in cui potevi girare e fare anche con pochi soldi; bastava conoscere i posti giusti, come la tavola calda sotto al tunnel fra Duomo e Cordusio con le sue polpette mefitiche che costavano niente.
Oggi Milano è lo specchio di un paese cialtrone, brutto, arrogante, tutto chiacchiere e distintivo, ma vuoto di umanità, indifferente e burino. Oggi Milano, e soprattutto i milanesi, non mi piacciono più.

(1) Mascherpa, non c'entra nulla con la vecchia ditta di orologi, ma si riferisce ai burini di fuori Milano che producevano la mascherpa, o ricotta, e la domenica scendevano in città col vestito della festa.

venerdì 8 ottobre 2010

La storia si ripete

Mi piace riportare lo stralcio di una lettera che, il fratello del mio bisnonno, scrisse al nipote, ovvero il fratello di mio nonno.
Non è scritta in italiano corretto, ma dalla mano di un muratore o poco più, però contiene emozioni forse per questo più autentiche e, soprattutto, così attuali che ne sono rimasto davvero impressionato.

16 giugno 1932 Brooklyn
Caro nipote ed amato come figlio
Nel scriverti la presenta sento che il cuore mi batte e la mano mi trema. Con tutta la volontà possibile avrei voluto risponderti ed accontentarti non appena ricevuto la tua pregiata lettera, ma fattostà che i tempi di crisi che attraversiamo e particolarmente io che da due anni a spasso, senza l’utile di un centesimo, figurati quale vita stentata possiamo menare assieme alla zia C., però per compiere un atto Santo e giusto e non potendo, mi sentivo mortificato e taciturno, C. (povero ragazzo) che da due mesi a spasso e anche lui avvilito, per darmi coraggio che già era avvertito la mia mortificazione si voltò e disse: Papà non mortificarti, come mi metto al lavoro vi darò io una cinque dollari e la mando a S., come infatti alla seconda settimana di lavoro tutto allegro e contento mi consegnò la detta promessa. Figurati amato figlio la mia allegria, non perdetti un minuto che presto scrissi una lettera racchiudendoti la cinque dollari donata e chiuso la lettera, mi recai alla posta per assicurarla, quando arrivato là la sola immaginazione può considerare la sorpresa a non trovarmela in tasca, fruga da una parte, fruga da l’altra la lettera non la trovai, però non posso dirti se mi fu rubata o se nò per la fretta la misi fuori di tasca. Figurati S. carissimo, il mio dispiacere, mi venne da bestemmiare, mi venne di maledire, mi venne anche il pensiero del suicidio di come si tira la vita, ma mi sentii uomo, mi venne il pensiero di tutti detti atti sono dei vili, la vita bisogna combatterla e mi rassegnai e così sono stato per una settimana e più coi nervi alterati che non mi ho sentito disposto a scriverti.
Ora prego caldamente te che quando mi rispondi fai comprendere che già hai ricevuto la cinque dollari ringraziando il cugino del suo sacrifizio che fece, che io non dimenticherò mai ciò che nell’animo mio sento, anzi a C. ne parli di suo figlio Marino di appena un anno e che lui come tutti siamo affezzionato, acciò qualche altra volta desidero trovarlo disposto come ora.
Di tutti quelli di casa ne sono a giorno perché la zia T. mi scrive sempre, anzi giorni prima di ricevere la tua ne ricevetti una sua che non ancora gli ho risposto, pregandoti di non fargli saper niente della cinque dollari che ne sono sicuro che ne riceverà dispiacere.
Tuo affezionatissimo zio M.

Ho trovato le lettere di M. fra le carte del fratello di mio nonno; un prete salesiano morto alla venerabile età di 84 anni nel 1997.
Raccontano una storia degna di Victor Hugo, o di Alexander Dumas padre, o del nostro Giovanni Verga.
Tanto per inquadrare i fatti, devo almeno dire che i genitori di mio nonno morirono giovanissimi: la madre a 36 anni, per l’epidemia di spagnola del 1918; il padre invece, quattro anni più tardi. I loro nove figli - il più grande 19 anni, la più piccola 5 - vennero accuditi in parte dai nonni materni, e in parte si disperdettero fra istituti religiosi, regia marina o, come mio nonno, emigrarono a MIlano.
L’autore delle lettere, ovvero il fratello del mio bisnonno, emigrò con la famiglia negli stati uniti nel 1911, probabilmente per trovare un futuro migliore. Da lì, per almeno una ventina d’anni, fece del suo meglio per dare un aiuto al mantenimento di coloro che, più che nipoti, considerava come figli.
Le lettere che scrisse al nipote disegnano una parabola avvincente e drammatica. Alle prime, ottimiste e piene di suggerimenti di vita, poco per volta, seguirono quelle che descrivono una grossa crisi economica, con lui che, a oltre sessant’anni si ritrova senza lavoro, e che successivamente viene perso anche dal figlio. Poi la morte della moglie e, solo un anno dopo, anche quella del figlio per tubercolosi.
Le ultime lettere lo vedono come un uomo solo, distrutto dal dolore, dalla nostalgia e dalla vecchiaia, ancora preoccupato per il futuro dei propri nipoti in Italia, e deluso dalla loro ingratitudine.
Sono passati poco meno di cento anni, ma vale la pena comprendere come la storia si ripeta con i suoi corsi e ricorsi.

giovedì 7 ottobre 2010

Vedremo

Onestamente, credevo che questo esperimento non sarebbe durato così tanto. E inoltre, che avrebbe ottenuto ben altra risonanza. Che volete, sono sempre stato un ingenuo, o forse molto fortunato, chissà.
I fatti però dicono che, in questa specie di strip poker, sono rimasto meno che in mutande, mentre il mondo indossa spavaldamente il suo bel frac, con tanto di farfallino.
Il lavoro col direttore non è ancora andato oltre il timone (sarebbe la successione delle varie pagine con indicati gli articoli), io sto qui ad aspettare il materiale, girando i pollici e pensando che, se la parte esecutiva è questa, figuriamoci come sarà quella relativa al pagamento.
Insomma, sono davvero stufo di tutta questa situazione, e anche se avrei mondi di cose da raccontare ancora su questo blog, non posso nemmeno permettere che diventi un'occupazione a tempo pieno e nemmeno retribuita. Non sarebbe sano.
Boh, vedremo.

mercoledì 6 ottobre 2010

A ruota libera

Approfitto di una prematura pausa di lavoro e, accompagnato dalla campana a morto che in questo periodo non smette mai di consumarsi, penso che non sono per niente convinto della vita che conduco in questi ultimi tempi.
Non so di preciso perché; non passo le mie giornate in un bar di periferia a bere, fumare e giocare ai videopoker, non passo il tempo davanti al computer a chattare con uomini che si fingono ragazzine e nemmeno continuo a girare in automobile senza una meta, come a volte facevo da giovane in motorino.
Giri e giri del quartiere fino a consumare le gomme; la curva prima della piazza presa col gas del garelli spalancato, i poggiapiedi che sprizzavano scintille sull'asfalto, poi svolta a sinistra per viale M. fino all'edicola, inversione a U, subito a destra nella via del cinema, dritto fino a via B., poi sinistra, lungo il muro della ferrovia fino alla trattoria dei muratori e di nuovo a sinistra, in quel budello con la curva prima della piazza. Speravo di incontrare qualche ragazza che conoscevo: che so, la figlia della portinaia della Mial, M., che abitava sopra i giardinetti del mercato, l'altra, di cui non ricordo il nome, con casa più o meno a metà della via con l'asilo comunale. Avevo fatto pure montare i poggiapiedi per il passeggero, eccitandomi solo al pensiero che la sella del garelli era davvero piccola e il contatto sarebbe stato molto ravvicinato. Immaginavo di scarrozzarne qualcuna in giro per il quartiere, le sue mani avvinghiate alla mia vita, o sulle spalle, le sue cosce contro le mie, il bacino che spingeva in un impossibile coito a rovescio. Ma la sella del mio garelli è rimasta sempre vergine. Mai una sola ragazza l'ha anche solo sfiorata con un dito.
Erano tempi in cui gli amici erano gli ambasciatori dell'amore. Amore? Semmai curiosità, brama, ormoni impazziti, foia, ardore, desiderio, bramosia. Non ci dormivi la notte, ci pensavi per tutto il giorno e, in fondo, le cose non sono cambiate gran ché, solo gli ormoni si sono dati una leggera calmata.
Beh insomma, si mandava l'amico, quello più estroverso, quello con la lingua lunga, quello che non si vergognava a comprare Caballero o le Ore, dalla ragazza che appariva più abbordabile e, con una delle solite frasi da film comico da oratorio, quello portava l'ambasciata:
"Sai, c'è quel mio amico, dice che sei molto carina e anche simpatica, dice che si è accorto che anche tu lo guardavi, dice che gli piaci davvero un sacco, dice se ti andrebbe di essere la sua ragazza...".
Io l'ho fatto una volta, con quella della via dell'asilo comunale, forse perché era l'amica del cuore di M., il sogno proibito di un intero quartiere. M. era bella come un raggio di sole, un minuscolo neo di fianco alla bocca, quando ti sorrideva di tre quarti con gli occhi blu leggermente socchiusi, ti pareva di impazzire. Chissà perché avevo deciso che M. era al di fuori della mia portata, e così, come sempre accade, avevo rivolto le mire sull'amica, che di per sé non era affatto brutta: capelli lunghi, scuri e mossi, labbra carnose, occhi chiari, anche se scoloriva nella luce abbagliante di M.
Ci ho mandato B., uno che non si vergognava di niente e di nessuno, ma chissà se poi ci è andato davvero. Di solito succedeva che l'amico che andava a parlare con la ragazza dei tuoi sogni, ci si fidanzava un paio di giorni dopo. Ma era più facile che invece non ci andasse proprio. Magari si rintana in casa per un pomeriggio, oppure si nasconde in qualche bar fuori dal giro, poi torna dicendo: "Ci ho parlato, le ho detto che lei ti interessava, che la pensi sempre, che vorresti che fosse la tua ragazza, proprio come mi hai detto di dirle, ma ha detto di no".
"Come no!? - sbottavi rosso in faccia per la delusione e la vergogna - Solo no? Non ha detto nient'altro?".
"Beh - rispondeva l'amico - Ha detto che sei simpatico, ma che non le interessi".
"Non le interesso? Ma guarda un po' che stronza!".
Per fortuna la delusione non era così terribile; come ho detto, più che di amore si trattava di quella cosa nella pancia e in mezzo alle gambe, quel pensiero fisso che: "...se solo potessi toccarle la mano, metterle un braccio attorno alla vita o sulle spalle, baciarla su quelle labbra così...".
Ma perché quello stronzo di F. che pareva un cretino qualunque e puzzava sempre di cerume, limonava da mesi con quella troia, che non sarà una bellezza, ma però si fa baciare e palpare di gusto?
Che cazzo ci faccio in una compagnia dove la maggior parte delle ragazze si sono passate quasi tutti tranne me e L.?
Solo una volta, una che non ho mai saputo come si chiamasse, mi ha sfidato a baciarla.
"Mi hanno detto che tu baci bene". Mi ha detto un giorno davanti a tutti in via C.
"Ma va?" Ho risposto come un coglione che non sapeva cosa dire.
Una cosa a cui non ho mai resistito sono le sfide. È da pirla, lo so, ma se qualcuno mi dice: "Avanti fatti sotto! Fammi vedere cosa sai fare!". Beh, parto come un ariete: ottuso, cieco e infuriato.
Sarà per questo che devo aver detto qualcosa tipo: "Allora se vuoi provare anche tu, vieni che ti faccio vedere" e l'ho presa fra le braccia, baciandola con un accenno di cascquet ma, come uno stupido principiante, con poca lingua. L'effetto è stato piuttosto buono, perché, per qualche tempo, me ne andavo in giro per il quartiere con la fama di: "...quello che bacia bene, con quel tocco di romantico", il che non era affatto male, anche se avevo il dubbio che si trattasse di una mezza presa per il culo.
Ma tutto questo non c'entra niente. Pensare di non essere soddisfatto della vita che sto conducendo, non ha nulla a che vedere con ricordi dei tempi dell'acne.
Piuttosto è l'addormentarsi sul divano alle dieci di sera, risvegliarsi alle due o le tre, con la tv che sbraita fiction indecenti, e trascinarmi prima in bagno e poi a letto come uno che arranca nel deserto in cerca di acqua.
Prima almeno avevo la scusa del lavoro. "Ho lavorato come una bestia, sono così stanco che quasi non ho sonno", poi schiantavo in meno di dieci secondi fino alla mattina dopo.
Ma adesso? D'accordo, sto per tutto il giorno davanti al computer, un po' per fatti miei e un po' per cercare lavoro, ma mi addormento comunque prima delle dieci come se mi dessero una bastonata in testa. Non me ne rendo neppure conto: un minuto prima sono lì che guardo Piero Angela, e un minuto dopo riapro gli occhi su una fiction raccapricciante col fratello di Fiorello. Guardo l'orologio e sono le due, o le tre.
Che vuol dire, dottore?

martedì 5 ottobre 2010

Pronti... via!

Questa volta pare sia ufficiale. Comincio il lavoro con l'ex direttore. Spero che verrà pagato, visto la cattiva pubblicità che F. gli ha regalato la scorsa settimana. Comunque, la differenza è che oggi lavorerò per il direttore, mentre delle promesse di F. per ora non se n'è ancora fatto nulla.
Tutto questo è solo una goccia nell'onda lunga dei pagamenti di questo ultimo mese: spese condominiali, assicurazione auto, corso di chitarra per C., versamenti del fondo pensione... ma accontentiamoci, pensiamo che sia solo l'inizio; l'araba fenice che rinasce e si scrolla di dosso le ceneri ancora fumanti, e non invece un fuoco di paglia che brucia in fretta e non lascia traccia.
Ora, mi pare strano da dire, ma devo andare a lavorare, perché col direttore bisogna correre...

lunedì 4 ottobre 2010

Riflessioni

Alcuni commenti, mi spingono a fare qualche riflessione. Un po' come quell'odioso esamino di coscienza a cui mi obbligava il prete a catechismo. Per esempio, di quante persone ho parlato male in questo blog? Tante. E di quante ho parlato bene? Sicuramente meno. Quante meritavano davvero di essere messe alla berlina? Quasi tutte.
Nell’arco di quello che, tra non molto, potrò definire un anno, fra le persone che, ingenuamente, definivo vecchi amici, nessuno mi ha teso una mano, anzi, sono letteralmente scomparsi, come fossi portatore di qualche terribile malattia certamente più contagiosa della lebbra.
In quasi dodici mesi, non una telefonata, una mail, un sms. Un: “Ciao, allora, come va il lavoro? Sei riuscito a trovare qualcosa?”. 
Mi vergogno nel citare un proverbio che sembrava così ovvio e banale, ma è proprio vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno, perché io non ne ho visto nemmeno l’ombra. Di cosa dovrebbero avere paura? Che possa chiedere loro dei soldi? Ma se non ho mai chiesto un centesimo a nessuno in vita mia!
Ma in fondo, chi sarei io per pontificare di stronzi e meno stronzi? In effetti nessuno, ma se è vero che ognuno di noi è un’isola, oggi, per quanto mi riguarda, il mondo è costituito da me, la mia famiglia e pochissimi altri, forse nessuno.
Un’altra cosa che mi domando è se questo blog, un giorno mi scoppierà fra le mani. Non credo me ne importerebbe un gran ché. Forse un piccolo errore è stato pensare che, nella mia tana al di fuori della grettezza del mondo, ciò che scrivo rimanga fra me e pochi intimi. Non credo sia così. Per quanti sforzi abbia fatto per diffondere il mio pensiero, probabilmente gli unici che se ne sono accorti sono stati solo i diretti interessati. Forse solo i cosiddetti amici che ho spietatamente preso per il culo.
E forse nemmeno loro. Mi viene in mente che questa non è altro che l’ennesima scusa per evitare la nuda realtà. Non esistono amici, soprattutto in situazioni come la mia.
E allora ben venga questa catastrofe: una di quelle svolte che cambiano una persona, una delle tante pietre angolari della nostra vita. Questa volta però non ero così sicuro di voler cambiare ancora, di rimanere segnato dalla rabbia, dal disinteresse altrui, dal disincanto verso rapporti che credevo più profondi e che invece si sono rivelati gretti ed egoisti.
Ma forse è proprio questo il lato positivo del cambiamento: eliminare la schiuma dalla birra, gli orpelli inutili, il superfluo indispensabile. E questa volta credo di aver imparato la lezione.

venerdì 1 ottobre 2010

...e quant'altro

Ho la sensazione che F. avesse ragione a dire che l'ex direttore non si sta comportando molto bene. Eppure io riponevo, se non tante, almeno le ultime speranze su di lui.
Ieri pomeriggio ha presentato il preventivo per il catalogo che avremmo dovuto realizzare. A rigor di logica, se tutto fosse andato bene, già entro la serata di ieri avrei dovuto sapere qualcosa. Invece ancora niente. E non è un buon segno.
Oggi invece, L. andrà a un appuntamento frutto delle mail di domenica scorsa. È un architetto con svariati nomi e cognomi, di quelli che fanno tanto nobiltà facoltosa. L'idea sarebbe che se qualcuno risponde e concede un appuntamento, qualche motivo dovrà pure avercelo, ma in questi ultimi tempi mi sono abituato a fidarmi esclusivamente del mio signor culo.
Nel frattempo anche un altro sedicente direttore ha risposto alla nostra mail. È un cialtrone tale che avrei davvero voglia di sputtanarlo. Un campano presuntuoso e cafone che non ha saputo fare altro che autoincensarsi, continuando a dire che lui è direttore di questo di quello e di quant'altro, che è molto giovane e che vanta rapporti d'affari col Corriere delle sera, la Rcs e quant'altro.
Per chi non lo avesse ancora capito quant'altro è la sua parola chiave, quella che probabilmente lo fa sentire forbito ed elegante; forse l'avrà sentita in qualche film dei fratelli Vanzina.
Comunque salta fuori che, dopo tutta questa tiritera su quanto è bravo e... quant'altro, vorrebbe mettere in piedi una specie di gara al ribasso per non so quale progetto. No, grazie, abbiamo risposto, di lavorare gratis ne abbiamo fin sopra i capelli.
Se qualcuno vuole divertirsi posso dire che il suo cognome è quasi omonimo a quello di quel burattino del ministro della giustizia, che c'entra con il Sannio e che, come tutti i cialtroni, organizza una specie di premiuccio da diploma di scuole medie. Direi che ci sono indizi a sufficienza...