venerdì 29 aprile 2011

Momenti di riflessione

Qualche volta mi chiedo se vale la pena continuare questa manfrina del blog. Ma non per le ragioni che, qualche tempo fa, aveva espresso mia moglie, e cioè che i panni sporchi si lavano in famiglia. 
Sono una persona limpida, non ho niente da nascondere, i fatti miei sono simili a quelli di un’infinità di altre persone e quindi non ho niente di cui vergognarmi.
Per ciò che ho detto su persone che ho conosciuto, conosco, o che non ho mai visto in vita mia, non ho fatto altro che dire la verità; se mai, condita con un filo di ironia, perciò sono tranquillo e se qualcuno si sente ferito, non è un problema mio ma piuttosto della sua autostima.
Lo scopo di denunciare la mia situazione, che poi è la stessa di quasi tutti i lavoratori autonomi precari - volontari o meno - non ha sortito il benché minimo effetto. I giornali se ne fregano (lo dico perché ho toccato con mano), movimenti d’opinione non ne esistono se non per sfamare chi li guida, lo stato poi, mi aiuterebbe solamente se non avessi nemmeno un centesimo in banca, ma quattro figli sulle spalle, un mutuo da pagare e nessun parente che mi possa foraggiare. Peccato che poi si scoprano ciechi che guidano la macchina, paraplegici che saltellano, invalidi che camminano sulle proprie gambe e più guardie forestali che alberi.
“È sempre stato così - potrebbe dire qualcuno - è nel dna degli italiani, non cambierà mai”. Ma le cose stanno davvero così? Siamo davvero un popolo di stronzi di tal fatta? Non lo so, può anche darsi.
Un altro motivo era testimoniare ai miei figli che le cose brutte passano, le notti prima o poi finiscono, il buio deve per forza cedere il passo alla luce. Ma comincio a nutrire qualche dubbio.
Qualcuno ha suggerito anche che, sotto sotto, questa fosse un’operazione letteraria, che dietro ci fosse qualcuno che non fossi io: un grafico disoccupato e moderatamente disperato. Per me è un grande complimento e non nego che cederei i diritti di tutto quanto al primo che li chiede ma, anche se ho cercato di pubblicizzarmi il più possibile, vi garantisco che non interessano a nessuno.
Devo ammettere che ci sono stati momenti in cui mi è stata espressa molta solidarietà; mi è stato di conforto e ve ne sono molto grato, però l’interazione è davvero minima (vedi le impressioni riguardo ai miei lavori). 
Forse perché alla fine non è poi così interessante leggere tutti i giorni di qualcuno così vicino al ciglio della depressione e di una vaga miseria. Posso capirlo.
Insomma, amo, ma davvero, raccontare ciò che scrivo. Mi piace, mi dà soddisfazione, ma purtroppo non mi riempie la pancia e richiede molto tempo, tempo che forse dovrei impiegare più produttivamente, anche se non ho idea di cosa produrre.
Mi sono ripromesso di proseguire fintanto che le cose non cambieranno, ma a volte mi trovo a pensare: “E se le cose non cambieranno? Che farò, andrò avanti all’infinito a scrivere sciocchezze mentre la nave affonda inesorabilmente? Continuerò a suonare la trombetta mentre l’acqua gelida lambisce i coglioni?”.
Abbiate pazienza, ma sono momenti di riflessione che ogni tanto si presentano, volente o nolente.

giovedì 28 aprile 2011

Grafica e ciabatte

Una volta ho lavorato per un tizio, anche lui grafico, che divideva lo studio dalle parti di via Nino Bixio con un architetto o qualcosa del genere.
Si occupava di impaginare le versioni italiane di quei libri del Reader’s Digest e simili che hanno perseguitato le nostre famiglie dalla cultura medio-bassa negli anni settanta e ottanta.
Il meraviglioso mondo degli animali, oppure La vita nella savana, Le foreste pluviali del sud America, Marocco misterioso, I popoli della Terra e altre amenità del genere.
Il mio compito consisteva nell'inserire il testo italiano nelle gabbie che arrivavano dall’estero e, dato che notoriamente l’italiano era sempre più lungo dell’inglese, fare le relative correzioni di bozza per far rientrare il testo e correggere i refusi.
Il compenso a pagina era davvero basso: qualcosa come 500 o mille lire, ma ero piuttosto veloce e preciso e quindi faceva brodo.
L’unico inconveniente è nato dal fatto che una volta ho dato un leggerissimo track - qualcosa come -0,3 o -0,5 - per far rientrare qualche lettera ed evitare almeno un giro di bozze. Mi è stata fatta una lavata di testa perché l’editore non voleva assolutamente che il carattere subisse la minima modifica o variazione dovuta a questo tipo di accorgimenti. Insomma, doveva essere sempre perfettamente identico a se stesso. Una linea di condotta sulla quale non ho nulla da eccepire e una delle grandi lezioni sui caratteri del mio bagaglio professionale.
La prima lezione però l’ho imparata quando il lettering si faceva coi trasferibili Letraset. L’armonia tra le lettere (crenatura o kern) non è una cosa campata in aria; sapere quanto spazio lasciare fra due lettere curve - per esempio una “b” e una “o” - o fra un bastone e una curva - come fra la “d” e la “o” - o ancora fra due bastoni - come fra la “l” e la “i” - era una cosa che si imparava con l’esperienza. Non esistevano misure da prendere col righello, era una questione di occhio e sensibilità. 
Un altro maestro in questo senso è stato l’art director sosia di Carl Marx. Da lui ho imparato ad apprezzare la pulizia di un testo, l’equilibrio fra corpo e interlinea, l’armonia delle spaziature.
A pensarci adesso sono cose che fanno incazzare; una vita a imparare la sensibilità, l’armonia, le proporzioni e ora non frega più un cazzo a nessuno. La maggior parte delle crenature le fa (male) il computer in automatico, quasi tutti i grafici non capiscono nemmeno di cosa stia parlando e i clienti, beh, lasciamo perdere, basta guardare cosa si vede in giro per capire che l’unico plus che interessa loro è il costo: più è basso è meglio è.
Solo una decina d’anni fa, trovare qualche refuso in un libro era qualcosa di impossibile; oggi non c’è libro che abbia letto, anche di case editrici importanti, che non abbia almeno tre o quattro refusi.
Comunque, tornando al tipo di via Nino Bixio, era uno piuttosto strano. Non nell’accezione comune che vede chi fa questo mestiere come uno che per forza deve andare in giro con un cappello da Davy Crockett e gli stivali da Waffen-SS, ma proprio perché era l’esatto opposto. Capelli spettinati come di uno che si è appena alzato dal letto, blue jeans, una felpa da fornaio e le ciabatte. Ma proprio ciabatte di quelle dei nonni: quelle marroni, di finta pelle, con due fasce incrociate davanti. D’estate poi, era sempre in pantaloncini corti e canottiera come Ninetto Davoli nel Carosello della Saiwa degli anni ‘70. (http://www.youtube.com/watch?v=fjdhYuMvypg)
Una volta l’ho incontrato mentre mentre scendevo dall’auto, una Nissan Micra 1300 che ci ha scarrozzato per quasi tredici anni, era insieme a una ragazza che gli faceva da assistente. Appena mi vede lei fa:
“Che bella! La Nissan Micra! L’auto dei sogni di S.!”
S. era il tizio, insomma, quello per cui lavoravo, che era di fianco a lei e guardava la mia macchina con gli occhi che brillavano e un sorrisino che spuntava in mezzo alla barba.
Sono rimasto leggermente interdetto. D’accordo che era uscita da pochissimo, parliamo quindi del 1993, ma da qui a considerare un’utilitaria anche piuttosto economica, come l’auto dei propri sogni, beh, è alquanto strano.
Non è che con questa storia volessi dimostrare qualcosa di particolare o curioso, se mai è curioso il motivo per cui si ricordano certe persone o alcune circostanze. Ecco perché, almeno per me, S. sarà sempre il grafico in canottiera e ciabatte che sognava di possedere una Nissan Micra.

martedì 26 aprile 2011

Il cane che si morde la coda

Credevo che lo sfiancamento da festa fosse una conseguenza della festa stessa o, al massimo, un effetto collaterale delle mie condizioni fisiche sempre così misteriosamente altalenanti.
Mi ci sono voluti quasi cinquant’anni per capire che, invece, non è colpa della festa in se stessa, o delle aspettative che crea, ma, in ultima analisi, dei parenti; non c’è alcun dubbio.
Ciò che da giovane sopportavo con noncuranza e una certa masochistica soddisfazione, ora mi esaspera terribilmente. D’accordo, le feste comandate a casa dei genitori di mia moglie erano elettrizzanti, divertenti e incredibilmente rumorose. E il cibo abbondante e cucinato nel modo più dannoso alla salute che si possa immaginare.
L’opposto di quello che succedeva a casa mia, luogo in cui le feste comandate si ammantavano di solennità, silenzio e noia.
Ma alla fine, la novità diventa abitudine, e l’abitudine noia e poi senso di insofferenza. 
Passi per mio suocero che, come un Emilio Fede stalinista, storpiava il mio nome in mille modi diversi, passi per i ravioli fatti a mano da mia suocera, vere armi di distruzione di massa, e gli infiniti capricci degli innumerevoli nipoti.
Ma tutta questa confusione, le grida dei bambini, le tombole, i mercanti in fiera, i litigi fra cognati, le mille sigarette fumate sul balcone, i pettegolezzi, le piccole cattiverie, la voce roca, la sensazione di trascurare la mia famiglia per quella acquisita, i musi di mia moglie quando invece era il turno dei miei e, successivamente, quando le famiglie si sono smantellate come una vecchia ma ancora pericolosa centrale nucleare, i parenti che si infilavano nella nostra intimità familiare, sono tutte cose che mi corrodono lentamente dall’interno.
Sento come un parassita che rosicchia i muscoli, i tendini e le ossa, fino a che la sera sono sfinito, un pupazzo senza spina dorsale, una batteria irrimediabilmente scarica.
Il parente di questa pasqua è mia madre, unica sopravvissuta, la più pesante da sopportare, con tutte le sue manie, fisime e capricci da primadonna. La saga infinita delle sedie che le provocano mal di gambe, o di schiena, o che le fanno dolorare perfino la testa, si è arricchita ancora.
Dopo la marocca con braccioli, la sedia della cucina in acciaio con la seduta imbottita, le due sedie a stantuffo dello studio, l’altra, sempre a stantuffo, della camera dei ragazzi, ecco aggiungersi una vecchia sedia in legno da professore recuperata dalla scuola media qui vicino.
“Comoda?” Le chiedo.
“Una cannonata - risponde lei - anche se questo piccolo bordino rialzato mi preme proprio dietro alle gambe. Anzi, dopo un po’ fa proprio male. Guarda, si vede il segno sulle gambe?”
“No - rispondo - non si vede proprio niente, mi sa che stai giocando a fare la principessa sul pisello, ma l’età ormai è passata”.
“Ah, caro mio, se solo tu sapessi i dolori che provo! Non hai proprio idea di come soffro!” Abbocca subito lei, come se non avesse aspettato altro per tutto questo tempo.
“È meglio lasciar perdere - penso sconsolato - perché se appena glielo concedo, ci distrugge con gli infiniti dispiaceri della sua - secondo lei - sfortunata vita; i parenti cattivi, il papà morto in guerra, le ingiustizie in ufficio, le malattie, i dolori, mio padre che l’ha sempre trascurata, io che mi comporto come un insensibile bastardo... Cazzo! che ingiusta punizione la mia!”.
Chissà, forse è tutto vero. Sono un insensibile bastardo che non sopporta nessuno, tanto meno i propri genitori. E se fino a ieri, la soggezione che incuteva mio padre mi obbligava a onorare feste che lui invece disertava subito dopo pranzo per uscire di casa, oggi non sento obblighi di alcun genere. Se sopporto ancora mia madre è solo per un senso di pietà e protezione verso una vecchia ormai sola. Nulla di più.
Per questo ho sempre lavorato da solo. Non so stare in mezzo alla gente, non so vivere in comunità, non ho savoir faire, non riesco a far finta di niente quando incontro gli stronzi, non riesco a non prendere per il culo i presuntuosi, gli incapaci. Insomma non sono capace di farmi i cazzi miei, non riesco a non rispondere alle provocazioni, mi accendo come un fiammifero, come uno stupido energumeno, facendo spesso la figura dell’ignorante e del maleducato, solo perché esplodo dopo infinite provocazioni che gli altri sanno invece girare a loro favore o che, più saggiamente di me, riescono a ignorare.
Insomma, sono l’antitesi di tutti quelli che fanno un lavoro simile al mio: grafici, creativi, designer, pseudoartisti della domenica, architetti e compagnia bella. Non li sopporto, non sopporto i loro luoghi comuni, il credersi superiori, i locali che devi frequentare per essere cool, il credersi artisti solo perché tirano quattro secchiate di vernice su una tela quattro metri per tre; ho il rigetto verso i giovani creativi del salone del mobile o, peggio ancora, del controsalone, solo a sentire nominare via Tortona mi viene da vomitare.
Niente di male; basta non pensarci, non frequentarli. Già, ma come faccio a cercare lavoro senza dover trattare con gente simile? È quasi impossibile, e sentirmi trattato da imbecille solo perché non mi vesto o mi comporto da giovane artista o creativo emergente mi fa incazzare ancora di più.
Sono un cane che si morde la coda, questo lo so, ma, come lui, non so nemmeno come smettere.

venerdì 22 aprile 2011

Del doman non v'è certezza

Avere i ragazzi per casa in questi giorni di vacanze scolastiche, trasforma giorni che di festa non sono, in qualcosa che invece assomiglia al natale. 
Sono loro grato per aver trasformato dei grigi giorni lavorativi - ma senza lavoro -, in qualcosa di più allegro. Se non altro devo costringermi ad essere di un umore migliore del solito, di quando non li ho attorno e non c’è molta voglia di essere sereni o spiritosi.
Ma tra le tante cose che dice mia moglie, da quando apre gli occhi al mattino a quando li richiude addormentata, una è tanto saggia quanto evidentemente semplice: “Non ti incazzare, perché la vita è breve e in più, è anche una perversa umorista; quando meno te l’aspetti te la mette nel culo. E allora è inutile compatirsi e vivere male perché, come dicevano i poeti, del doman non v’è certezza”.
In effetti leggere in questi giorni della morte del rampollo della famiglia Ferrero - a soli 48 anni - e, agli antipodi, del bidello dell’isola dei famosi a 58, sono cose che fanno riflettere.
Ha ragione mia moglie, perché avvilirmi per qualcosa che forse si risolverà o forse no, ma che non è certo influenzata dal mio umore? O meglio, può essere influenzata dal mio umore, ma solo in peggio.

mercoledì 20 aprile 2011

Grazie dio!

Forse ho sbagliato mestiere, forse dovrei pensare a qualcos'altro, come l'indovino, o il negromante, il veggente, il mago. Forse così farei dei bei soldi e senza nemmeno pagarci le tasse.
Già, il grande Jolly Roger, il mago di Milano.
Almeno non dovrò buttare via questo bel coccodrillo che avevo preparato da tempo. Eccolo.

Sono davvero uno stronzo. Il solito ingenuo, sognatore, illuso stronzo.
È che non riesco a convincermi. Come è possibile che non riesca a trovare nemmeno uno stupido lavoro per impaginare che so, il giornale dello scarparo o anche un porno? Che mi frega, andrebbe bene anche quello; non ho mai avuto grandi ambizioni o manie di grandezza.
Basterebbe un lavoro qualsiasi che mi permetta di vivere decentemente.
Forse per questo mi illudo sempre, come un allocco di campagna, perché tutto questo è paradossale, incredibile. E allora, ogni preventivo, ogni nuovo contatto, ogni proposta, non fa che illudermi nuovamente, fa accendere una speranza che, col passare dei giorni, come uno idiota sapiente, trasformo in una quasi certezza, scottandomi irrimediabilmente ogni volta che le cose vanno male, cioè sempre.
Anche con questi francesi ammetto di essermi illuso. Ho pensato che essere in gara solo in due e che il mio antagonista fosse una non ben identificata agenzia, e dunque non una struttura esperta in grafica editoriale, mi avrebbe posto in una posizione vantaggiosa.
Già immaginavo e pregustavo il momento della vittoria; quello in cui stappavo insieme a mia moglie una bottiglia di champagne e fumavo un costoso sigaro cubano, ringraziando la buona stella che questo incubo fosse finito, che questo viaggio all’inferno terminato. Ma non solo, il sogno si proiettava ancora oltre nel futuro: in viaggi di lavoro a Parigi, in vacanze all’estero in cui finalmente avrei fatto vedere ai miei figli qualcosa di diverso, di culturalmente nuovo.
Troppo bello per essere vero. Troppo assurdo perdere ancora una volta, l’ennesima volta.
Sono incredulo e schiumo di rabbia, no, non è rabbia, è delusione, mortificazione, tristezza, apatia. Comincio a convincermi che l’inferno, quello vero, sia qui, ora, e che non abbia mai fine.

Visto che ormai il progetto è sfumato, posso anche allegarne qualche immagine. Forse fa schifo davvero e io non sono in grado di capirlo, o forse non è così; comunque, grazie dio!




martedì 19 aprile 2011

A volte ritornano

Per conto mio era ormai una faccenda chiusa. E l’ho confermato proprio qui. Ma per l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani, a quanto pare è invece un caso aperto.
Parlo del mafioso pelato e la sua maledetta azienda.
Ora salta fuori che, secondo il servizio contributi e vigilanza, la mia posizione non sarebbe stata quella di un libero professionista, ma di un subordinato a tutti gli effetti. Non ho idea di come e quando sia saltata fuori questa convinzione. So solo che quando avevo chiesto un aiuto legale, prima ero stato illuso e poi disilluso.
Adesso che invece gli interessi sono quelli dell’Istituto, mi assicurano che l’azienda dovrà versare i contributi e io potrò chidere il rimborso di quelli versati personalmente.
Onestamente l’idea di sfilare dalle tasche del mafioso un bel po’ di soldini mi fa sorridere sotto i baffi, come pure quella di rientrare in possesso di una parte dei miei soldi che mi farebbero davvero comodo.
Dopo pasqua sono stato convocato dall’Istituto, vedremo cosa proporranno.
Dell’editore francesce, malgrado le sue sincere assicurazioni, non c’è traccia. È evidente che siamo stati presi per il culo anche stavolta, come pure da uno stampatore di Genova che, con un annuncio, cercava creativi per realizzare stampe di grandi dimensioni incentrate sulle maggiori capitali europee. Il compenso è ridicolo: 80 euro per realizzare un soggetto su tre misure diverse, con un esecutivo in photoshop che mediamente pesa attorno a un giga. Insomma mica uno scherzo. Naturalmente in questi ottanta euro è compresa la cessione di qualsiasi diritto futuro sull’immagine. Insomma, un affarone! 
Ma tant’è, non avendo nulla da fare ho provato anche questa. E come sempre è stato un buco nell’acqua.
Questa volta però voglio sottoporvi il mio lavoro. Devo sapere se sono davvero diventato così inetto come tutto sembra dimostrare.




venerdì 15 aprile 2011

Preghiera

Caro dio, non ti dispiace se uso un tono così confidenziale vero? 
Beh, caro dio, mi dispiace ma ho una brutta notizia: io non credo in te, né alle favolette di vecchi e nuovi testamenti e, tanto meno, in figli ipotetici, madonne vergini, profeti, santi, miracoli, angeli e demoni.
Non credo a un universo infinito ridotto a diorama (fortunatamente un termine con cui non hai nulla a che fare, perché deriva dal greco did - attraverso) di una misera umanità.
Non credo, e mai potrò credere, a un essere che si definisce il bene e l’amore infiniti, capace poi di ire funeste (come il pelide Achille), e vendette terribili. Un dio che, da esclusiva proprietà di un popolo eletto (pervaso da un vago senso di xenofobia), ci ha degnato, in seguito, del suo amore universale e, soprattutto, delle sue regole.
Intendiamoci, non sono un integralista. Odio gli estremismi culturali e tanto più religiosi. Per me ognuno è libero di pensarla come crede. Io credo che, come tutti gli animali di questo pianeta, quando si muore si muore. Non esiste anima, non esiste aldilà, non esiste inferno (se non su questa terra e adesso) e nemmeno paradiso. 
La mia morale è universale e non cristiana, ma umana, innata in ognuno di noi. Ho in me il coraggio di affrontare una fine definitiva e non la facile consolazione di qualcosa che mi aiuti ad affrontare lo sgomento del nulla.
Pretendo di sentirmi libero di pensare che, come non posso dimostrare scientificamente l’inesistenza di qualcosa che però non è mai stata vista, nessuno mi imponesse la visione di qualcos'altro di cui nessuno è in grado di dimostrare l’esistenza.
Ciò che resta, caro dio, è che se misurassimo tutto il bene e tutto il male fatti in tuo nome a questo povero mondo, non ho alcun dubbio che la bilancia penderebbe sicuramente dalla parte del male. Ecco perché, se proprio devo, non potrei che definirti “signore del male” (come nel film di Carpenter).
Comunque, caro dio, voglio darti una sola e unica opportunità: se vuoi dimostrare di esistere e di essere così misericordioso come amano definirti, questo è il momento giusto. Fai finire questo inferno.

mercoledì 13 aprile 2011

Il canto del cigno

L’editore francese, prima così impaziente di vedere i nostri progetti e che aveva garantito una decisione entro la scorsa settimana, tace. 
La segretaria, venerdì scorso, ha detto che sono stati molto impegnati con l’edizione francese e hanno duvuto accantonare momentaneamente la discussione sul nuovo progetto. Però, afferma che sono persone serie e, comunque vada, non è nel loro stile o filosofia non dare notizie, buone o cattive che siano.
Sarà, ma pare che nel frattempo si sia aggiunta un’altra struttura alla gara. E per come vanno le cose negli ultimi tempi, saremmo capaci di perdere una gara anche se fossimo gli unici concorrenti. 
Io comunque avevo già scritto il coccodrillo per l’ennesimo progetto perso. È lì, sulla scrivania del computer; non aspetta altro che una mail o una telefonata, per apparire su questo blog. 
Spesso mi chiedo se, dopo trent’anni che mi sono mantenuto con questo schifo di lavoro, davvero non sia più capace di inventarmi qualcosa di creativo, di concorrenziale, di professionale.
Sono pensieri che capitano; aver infilato una delusione dopo l’altra, non è il modo migliore per accrescere la fiducia in sé stessi. 
E una fra le cose che mi brucia di più, è l’essere stato segato addirittura dalla società che produce software gestionali. Una misera realtà da meno di un milione e mezzo di euro di fatturato annuo con quaranta dipendenti. Poco più che cantinari smanettoni che, per interposta persona, si dichiarano laconicamente non interessati alle mie proposte, senza nemmeno una motivazione, o una spiegazione più intelligente di “Non è piaciuto”.
E purtroppo nutro anche la frustrazione di non poter nemmeno mostrare la mia proposta, perché il claim contiene e gioca proprio col nome dell’azienda. Non è bene quindi, che mi renda troppo riconoscibile in un ambiente tanto competitivo e, soprattutto, pieno di invidie e di vendette trasversali. Altro che Mad Men, qui sembra di essere in un film di George Romero; essere corretti o tendere la mano a qualcuno significa farsela mangiare (vedi il grafico zoppo di qualche tempo fa). 
Comunque non ne faccio una malattia. 
No, non è vero, ce la faccio eccome. Cerco di essere come Siddharta che non si cura delle traversie della vita, ma non ci riesco. Ogni lavoro che sfuma è come una martellata ai coglioni del mio amor proprio. Ogni delusione incurva sempre più la mia schiena, mi spinge a rintanarmi sempre più in fondo nel buco che altri mi hanno scavato intorno.
Ormai il tempo passa inesorabile, questo blog sta raggiungendo la poderosa prolissità di un Guerra e Pace o un David Copperfield. Ma, al contrario che nei classici, qui non succede mai niente. Non è altro che un canto del cigno prolungato, infinito, inarrestabile. 
Una malattia terminale che uccide sì, ma in un tempo infinito.

lunedì 11 aprile 2011

La primavera "sbatte"

La primavera, si sa, "sbatte". Lo dicevano le nonne, nella loro santa ignoranza. Oggi lo ripetono gli “esperti” che spiegano come il nostro organismo necessiti del tempo necessario per adattarsi al cambio di temperatura e via dicendo.
È pazzesco, ma non raccontano niente di nuovo, o almeno niente più di quello che già sapeva mia nonna nata nel 1909, che ha visto sia gli austriaci della prima, che i tedeschi e gli americani della seconda guerra mondiale.
Una zelante giornalista di Repubblica, presa da ispirazione d’annunziana, decanta addirittura che: “...la magnolia centenaria di piazza XXIV maggio, che fino all’altro giorno era tetra e scura nella sua nudità, adesso si è ingentilita di foglie che la fanno sembrare leggera come una nuvola.” dimenticando forse che la magnolia è un sempreverde e quindi non si capisce come poteva essere, fino all’altro giorno, tetra e scura nella sua nudità.
Mia nonna aveva solo la terza elementare, ma che la magnolia non perdesse mai le foglie lo sapeva bene, eccome.
Ho come il sospetto che la redazione milanese del mio quotidiano preferito sia una specie di esposizione delle stupidità perdute o qualcosa del genere. 
Ma non mi frega più di fare il Don Chisciotte, ho perso ogni interesse nel bacchettare l’ignoranza che alberga dove meno ce lo si aspetterebbe.
L’altro giorno per esempio, mia figlia che va in quinta elementare, in una verifica di storia, ha scritto più o meno che le matrone romane sfoggiavano fedi nuziali e compagnia bella. La maestra, giovane e laureata, ha corretto “nuziali” in “nunziali”. Forse pensando che le fedi derivassero il nome da una qualche Nunzia ante litteram, o dall'annunciazione, o chissà che.
Questo è il mondo in cui viviamo, queste le persone con cui dobbiamo confrontarci.
Ciliegina sulla torta, ho ricevuto il famoso opuscolo di Letizia Moratti che, non soddisfatta di spaventarci dai megaposter affissi in metropolitana, continua a perseguitarci anche all’interno delle nostre casette placide e tranquille. Ho così appreso dei “Cento progetti realizzati per una Milano sempre più bella da vivere”, in un crescendo delirante nel quale, spuntando come un Berlusconi in gonnella in centinaia di foto che la ritraggono ora in veste di scherzosa signora snob accanto a bambini, ora mentre pianta un albero e addirittura con in mano una pompa per la pulizia di quei volgarissimi graffiti che tolgono il sonno a ogni milanese che si rispetti, racconta panzane degne dell’ormai famoso libro con cui, qualche anno fa, già ci dilettò l’attuale presidente del consiglio. E sarà proprio lì, vicino al mitico libro, che finirà anche quest’ultima trovata del nostro sindaco; a futura memoria di quanto si divertano tutti quanti nel prenderci allegramente per il culo.
Ma la schifosa deformazione professionale mi ha spinto anche a scoprire chi ha progettato graficamente questo tristissimo libretto e mi sono così imbattuto in Gianni Comolli, grafico di fiducia di Berlusconi, che già progettava i manifesti elettorali del pdl nel 2006. Se lo cercate su Google non risultano più di tre pagine tre, tutte indistintamente legate al popolo delle libertà. A quanto pare, la carriera di questo valente professionista non è mai andata oltre i manifesti elettorali e gli opuscoli realizzati per il suo padrone e i di lui amici. Di Ivan Carella, l’altro grafico impegnato in quest’opera monumentale, preferisco non parlare, ma una rapida ricerca in rete rivelerà di che pasta è fatto.
Io che invece, come diceva Rambo, pilotavo giornali e riviste e collaboravo con le maggiori case editrici italiane, non riesco a portare a casa nemmeno un lurido giornaletto di settore.
È invidia la mia? Logico. Come è lapalissiano il fatto che ci sono persone che, pur non sapendo lavorare, si riempiono le tasche di soldi.
PS: tanto per restare in tema, l’opuscolo della Moratti è stato stampato dalla Tipografia Camuna. Buffo no?

giovedì 7 aprile 2011

Siamo tutti fregati

Sapete che c’è? Sono stufo. Stufo e incredibilmente stanco. Non è solo per questo anno e mezzo di inferno e di tormenti interiori, è un po’ per tutto quanto.
Sono stufo di indignarmi inutilmente, di criticare indistintamente giornalisti venduti, falsi amici, categorie intere, la politica, il falso volontariato, quelli che fanno finta di aiutarti e invece non aspettano altro che mettertelo in culo, le guerre fra poveri, l’economia malata, l’ottusità ambientale...
Tutto questo non è qualcosa che si può aggiustare con una rivolta, non basta un Kennedy, un Gandhi, un Martin Luther King. È tutto quanto il sistema a essere completamente sballato. È qualcosa che ormai è diventato genetico, impossibile da contrastare. Un muro di gomma che assorbe l’energia di qualunque critica, qualunque scandalo, qualunque porcata.
Non è più solo un fatto di costume, di corruzione, di malaffare. È qualcosa che ormai si è legato al nostro organismo come un cancro: impossibile estirparlo senza uccidere anche l’ospite.
Qui non si tratta di politici, economisti, intellettuali e compagnia bella. Qui si tratta degli italiani tutti. 
È così, cari ragazzi, ormai siamo fregati.

mercoledì 6 aprile 2011

Tanto per dire

Sai cosa mi fa più incazzare nelle rubriche della posta del cuore? È una domanda retorica, perciò lo dirò anche se non t’importa.
Che, anche se una moglie cinquantenne ha tradito il marito mite e affettuoso con l’istruttore di yoga superdotato, trentenne, dalla chioma fluente, il portafoglio a fisarmonica e gli addominali da atleta per il solo gusto di farsi una bella scopata alla faccia sua, le risposte della giornalista di turno sono sempre le stesse:
“Ma tu ti sei mai chiesto davvero cos’hai fatto per conquistarla giorno dopo giorno, per farla felice, gratificarla, renderla una donna desiderata, farla sentire amata?”.
Ma insomma, non riuscite a capire che una simile concezione del rapporto di coppia è quanto di più maschilista si possa immaginare?
E vi siete mai chieste cosa avete fatto voi per conquistare, giorno dopo giorno vostro marito? Per farlo sentire desiderato, amato realizzato?
Oppure avete indossato la tutona per andare a dormire, vi siete costantemente lamentate per il freddo e infilato due o tre maglioni da alpino anche durante le afose estati cittadine?
Vi siete vestite decentemente solo per andare alle assemblee di classe dei figli o quell’altra volta che vi hanno invitato a cena fuori. Vi depilate solo per andare dalla ginecologa e al mare d’estate.
Un paio di volte l’anno, mosse a pietà, vi degnate di calzare quelle scarpe col tacco acquistate cinque anni fa; solo quelle, sempre quelle, lamentandovi di quanto siano scomode e di quante donne non siano in grado di portarle, contrariamente a voi.
A noi, stupidi animali in calore, basta la vista di una coscia calzata di nylon e di un piede slanciato dalla scarpa col tacco, per sbavare come san Bernardo, l’occhio suino leggermente lacrimoso per l’emozione.
Uno slancio d’orgoglio ci fa pensare che: “Non sono mica una scimmia ammaestrata, cosa crede, che una scarpa col tacco e un paio di collant mi facciano perdere ogni controllo e ogni dignità?”.
Poi sono i lombi ad avere la meglio sulla logica e ci diciamo che va beh, magari ci penseremo la prossima volta, adesso non possiamo lasciarci sfuggire un’occasione così rara, e finiamo fregati come polli da bar.
Ecco il potere immenso che le donne usano spesso a sproposito e quasi mai a proposito, lamentandosi delle scarse attenzioni che può suscitare un essere vivente avvolto in tute di Monaco ‘72, maglioni a strati, infradito indossate con le calze e una rabbia nello sguardo che gelerebbe il sangue nelle vene anche a Josef Mengele.
“Ma si può sapere perché odi così tanto tutte le donne?”.
“Io non odio tutte le donne; per esempio, Scarlett Johansson mi sta molto simpatica”.

martedì 5 aprile 2011

La signora Italia

La signora Italia ha quella forma strana che assumono le donne a una certa età. Non si possono definire grasse, piuttosto assomigliano a una pera: una di quelle tozze, strette in punta e larghe sotto, come le Williams. Attaccate alla pera, spuntano due gambette, secche e nervose, infilate in calze di nylon color carne. Come tutte le signore di una certa età, non porta collant, ma strani mutandoni muniti di reggicalze, anch’essi color carne. Lo so perché sono sempre stesi ad asciugare sulle corde del balcone della sua cucina e sono identici a quelli che indossava mia nonna.
La signora Italia si alza tutti i giorni molto presto. È impossibile coglierla in fallo. Ti svegli alle sette, e lei è già in cucina indaffarata in chissà cosa. Ti alzi alle sei e mezza, credendo questa volta di fregarla, ma la luce della sua portafinestra è già accesa.
La signora Italia ha trasformato il suo balcone in una specie di accampamento beduino chiudendolo sui tre lati con quei tendoni verde scuro che si usavano qualche anno fa. Rimane solo uno spiraglio grande quanto la portafinestra della cucina che ha, come zerbino, dei fogli di quotidiano.
Le tende sono fermate alla ringhiera con un certo numero di mollette e non vengono aperte quasi mai. Alla fine dell’inverno, il vento che si infila nel cortile come in un budello e le intemperie, riducono le tende a stracci bucherellati come fossero stati colpiti da schegge di granata. Di solito, il marito della signora Italia le sostituisce ogni due o tre anni.
La signora Italia arrotonda il bilancio familiare con ciò che distribuiscono al pane quotidiano. Non è che sia povera, ma credo che ami cucinare anche per la famiglia della figlia e poi, quando sono finite le scuole, durante la giornata accudisce il nipote, e quindi, si vede che anche quel poco aiuta.
Ci va tutte le mattine, naturalmente di buon’ora, camminando piano piano, con un’andatura leggermente ondeggiante da pinguino.
La signora Italia ha una figlia che si è sposata qualche anno fa.
Poco dopo il matrimonio, il marito si è ammalato di una specie di leucemia e pareva che non ci fosse niente da fare. Lo vedevo in giro per il quartiere accompagnato dalla moglie che, distrutto dalla chemio, camminava come un vecchio. Poi, inaspettatamente è guarito, e ora hanno anche un figlio, o forse addirittura due.
La signora Italia è una che si fa i cazzi suoi, nel senso che non ama mettere in piazza la sua vita, le sue cose - a parte i mutandoni stesi - e ciò che fa o non fa. Non ha ristrutturato casa e conserva ancora i pavimenti originali di brecciolino bianco e nero. Non ha ceduto come tanti altri al monocottura posato in diagonale, né alle porte stile barocco in finto legno massello marrone, né agli infissi in pvc che, in caso di fuga di gas, sono il modo più sicuro per morire, ma mantiene fieramente - come me - le sue finestre in legno verniciato di bianco.
La signora Italia resiste alle mode, è refrattaria al superfluo, vive del suo. Una lezione che tanti dovrebbero imparare.

lunedì 4 aprile 2011

Ecco come sono

Per uno come me, nato nei primi anni sessanta, immaginare il duemila, il ventunesimo secolo, era un esercizio frequente e leggermente ansiogeno.
Prima del liceo, immaginavo anni così smisuratamente lontani, in termini di fantascienza. Ero affascinato da tutto ciò che mi permetteva di evadere da un mondo che in fondo non era nemmeno così brutto, e da tutti quei film che promettevano cose strabilianti, e in ansia per altri che, invece, disegnavano il futuro come qualcosa di terribilmente inquietante, o che avrebbe visto il genere umano sottomesso ad alieni crudeli, il cui unico scopo era ridurre il mondo a un’enorme dispensa alimentare.
Alcuni di questi film sono e rimarranno per sempre nella memoria come una sorta di pietra miliare sulla strada della mia vita; Il Pianeta Proibito (con l’incredibile robot Robbie); La Meteora Infernale; Radiazioni B.X.: Distruzione Uomo; A come Andromeda (lo sceneggiato con Paola Pitagora); Ultimatum alla Terra; La Guerra dei Mondi; Il Mostro della Laguna Nera; L’Invasione degli Ultracorpi; Blob, Fluido Mortale e tanti altri.
È incredibile pensare che quando sarò con un piede nella fossa, il mio pensiero sarà ancora in parte occupato da queste meraviglie adolescenziali, da questi sogni di bambino. Forse il mio è stato un modo per evedere: da piccolo, da una vita troppo regolata e un po’ soffocante, da adolescente, dagli impegni incombenti della vita adulta e ora, da una realtà con cui non riesco ad andare d’accordo.
Mano a mano che l’idea di duemila si faceva più verosimile e reale nel mio cervello, cominciai ad essere ossessionato da quei film sempre più vicini alla data fatidica, nella quale immaginavo un modo radicalmente diverso da quello in cui vivevo; futuribile, avveniristico, pacificato, razionale e finalmente libero da credenze ataviche e superstizioni medioevali.
1975: Occhi bianchi sul Pianeta Terra; 1997 Fuga da New York; 1999, Conquista della Terra; Spazio 1999; 2000: la Fine dell’Uomo; 2001: Odissea nello Spazio; 2002 La Seconda Odissea; 2010 l’Anno del Contatto; 2022: I Sopravvissuti.
Alcuni portavano messaggi positivi, ma altri, - a dispetto delle mie convinzioni - erano incredibilmente pessimisti, come per esempio 2022, nel quale il pianeta è devastato da inquinamento e sovrapopolazione.
Quelle date, una a una, sono state tutte raggiunte e superate, anche se con un vago senso di straniamento, e il mondo è peggiorato. Sì, va beh, abbiamo i telefoni cellulari, i computer, la tac. Ma il resto? Dove sono le auto volanti? Perché siamo ancora schiavi del denaro? Perché il mondo è ancora così ingiuto e le disparità sociali ancora più ampie? Perché si muore ancora di cancro soffrendo, a dispetto di terapie che potrebbero annullare il dolore? E soprattutto, perché la religione ci sta ributtando indietro di secoli a calci nel culo e spauracchi primordiali?
Almeno ho la soddisfazione di vedere com’è la mia faccia da quasi cinquantenne, e non mi sembra poi così diversa da prima. La barba è più bianca che scura, d’accordo, però i capelli, anche se più radi, resistono e sono ingrigiti solo un po’ sulle tempie, come Reed Richards dei Fantastici Quattro.
Ecco allora come sono, ecco com’è diventato quello che, a quattordici anni, pensava che nel 2011 sarebbe stato un vecchio decrepito, addirittura impossibile da immaginare.
Ma dentro, appena sotto i peli grigi e le occhiaie della mattina, sono sempre lo stesso. Non tale e quale perché sarebbe idiota pensare di rimanere sempre gli stessi, ma quello che è il nocciolo vitale, l’essenza primordiale, è sempre il medesimo di quel bambino che guardava Il Pianeta Proibito, affascinato oltre ogni immaginazione e anche spaventato da forze oscure provenienti dal profondo della nostra stessa anima, il lato oscuro che ognuno possiede.
Se il segreto che ogni americano vorrebbe vedere svelato prima di morire è: chi ha ucciso realmente il presidente Kennedy? Per me non sarebbe sapere chi ha abbattuto l’aereo su Ustica o ha messo la bomba alla stazione di Bologna - perché in realtà già lo so - ma se esiste una qualche altra forma di intelligenza nell’universo.
Personalmente penso di sì, ma credo anche che le distanze e le scale temporali siano così enormi che sarebbe come pretendere qualcosa di così statisticamente improbabile da essere virtualmente impossibile.
Eppure, questa sarebbe per me la vera e unica domanda a cui anelerei trovare la risposta prima di andarmene.
Probabilmente una notizia del genere provocherebbe uno shock culturale così devastante per ogni abitante di questo mondo, da renderlo, questa volta sì - altro che 11 settembre! - diverso per sempre. Credo proprio che questo sia ciò che ci manca per effettuare il prossimo salto culturale ed evolutivo.

Tornando coi piedi per terra, penso invece che anche i nostri rapporti con la Francia e gli editori francesi siano andati a scatafascio. Ho ricevuto notizie dalla segretaria dell’editore, la quale, dice che le nostre pagine sono state molto apprezzate dal punto di vista tecnico, ma che hanno sollevato pareri contrastanti per ciò che riguarda la parte creativa: alcuni favorevoli, altri contrari. Dice di avere pazienza per qualche giorno e che, entro la settimana, riceveremo una risposta definitiva.
Sono troppo sgamato - o pessimista - per non capire che anche questa volta abbiamo fatto un buco nell’acqua. Anzi, a questo punto comincio seriamente a domandarmi se siamo noi a non funzionare più come dovremmo, tanto che, anche se ho deliberatamente deciso di non allegare mai immagini a questo blog, sono davvero tentato di sottoporre al vostro giudizio i lavori che ci hanno portato a fallire così spesso in questi ultimi tempi.

venerdì 1 aprile 2011

Come una puttana da casino

Mi sento prosciugato, proprio come le ignare vittime degli alieni succhiacervello dei film di fantascienza degli anni cinquanta.
Sono più o meno tre mesi che lavoro come uno schiavo a progetti, preventivi, proposte. Fino a oggi per più o meno duemila euro che, tra l'altro, non ho ancora incassato.
Non dormo più di cinque o sei ore per notte. Non posso farci niente, mi sveglio e penso se quelle cinquanta pagine andranno in porto o meno, oppure se l’altro preventivo era troppo alto o basso, o se quello che mi ha contattato, chissà come, alla fine mi farà lavorare.
La società che produce software gestionali, proprio ieri ha rifiutato il mio preventivo. “Ma è per una questione economica?” ho chiesto. “No, non è per quello” hanno risposto.
Eppure ci avevo creduto. Magari non sarò Bob Noorda, ma dopo tanti anni riesco a capire quando imbrocco la strada giusta per un progetto. E questa, ve lo giuro, era proprio un’ottima strada, anzi, un’autostrada.
Continuo a pensare che l’abitudine che ha contagiato anche il negozio di frutta e verdura sotto casa di chiedere preventivi e indire gare fra più soggetti (dall’agenzia al secchione smanettone) per il volantino delle offerte speciali, è una cosa perversa e controproducente.
Io sono convinto che debba essere l’agenzia a guidare il committente sulla strada giusta e non il contrario. Non è credibile che il cliente scelga un progetto grafico come si sceglie una carta dal mazzo di un prestigiatore di periferia, o come una puttana in un casino. 
Sarebbe come interpellare quattro medici per una diagnosi, e poi credere a quello che ha detto la cosa che ci saremmo aspettati, o che ci ha consegnato la parcella più economica. A volte si deve accettare ciò che a prima vista non piace ma funziona e, molto spesso, è proprio lo sciroppo più amaro quello che guarisce. 
Ma per continuare con la metafora dei medici, oggi sono tutti esperti di tutto, tutti pretendono di ricevere le cure che si sono autoprescritti, anche quando sono più dannose che salutari.
Tempo fa non avrei perso tempo con un’azienda formata da cinque soci, ognuno con un’idea diversa e ognuno convinto di essere il depositario assoluto delle verità del mondo. Ma oggi continuo a cascare in queste trappole, come un animale che sa di andare incontro a morte sicura e che pure non fa nulla per evitarlo. Non perché sia nella mia e sua natura, ma perché non abbiamo alternativa.
Continuo comunque a coltivare la speranza che l’editore francese capisca che per essere un buon art director non servono uffici lussuosi e tutti gli inutili fronzoli che giustificalo solo parcelle salate come il Mar Morto.
Come in un pesce d'aprile del cazzo, per ora non posso fare altro che incrociare le dita e sperare.