lunedì 7 aprile 2014

Chi non muore (forse) si rivede


Ho abbandonato un po’ frettolosamente questo blog quasi tre anni fa. Non per inedia, ma per sopraggiunta forza maggiore: un impegno lavorativo che, finalmente, assorbiva buona parte del mio tempo.
Mi sentivo come Ulisse, tornato finalmente a Itaca, a casa, dopo aver fatto esperienza di tutto ciò di cui mai avrebbe nemmeno immaginato l’esistenza. Ma come lui, forse, diventando un uomo diverso, con meno certezze e tante speranze.
Sarebbe quasi imbarazzante e banale, a questo punto, citare il solito Tolstoj, secondo il quale: “Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, perché non sarebbe la verità. 
La cosa strana invece, è che malgrado tutto, continuiamo a essere una famiglia felice, ma estremamente dissimile da altre famiglie che tali si considerano. Perché? Perché, malgrado il destino infame continui ad accanirsi contro di noi, come un cane che non vuole mollare un osso ormai spolpato, riusciamo a essere felici?
A questo punto diventa indispensabile, un’altra citazione. Meno colta, ma infinitamente più calzante nella sua apparente banalità.
È tratta dal serial Twin Peaks (rivisto recentemente insieme a mio figlio) ed esce dalla bocca di quello stralunato personaggio che è l’agente Cooper (alter ego di David Lynch): “La casualità e il fato influenzano la nostra vita in maniera imprevedibile”. Twin Peaks, seconda stagione, episodio 25.
Già, il fato, la casualità, il destino, chiamatelo un po’ come vi pare, ma questa è l’unica certezza delle nostre vite: il non poter essere mai certi di niente. E forse è anche la nostra fortuna. Se ne aveste l’opportunità, davvero vorreste sapere se, fra due mesi, o tre anni, o cinquanta, vi ritroverete miserabilmente poveri, oppure che vostro padre morirà proprio quel giorno in cui voi vi stavate divertendo con gli amici in pizzeria, o che vi ritroverete dall’oggi al domani irrimediabilmente malati e senza speranze di guarigione?
Davvero vi fareste asportare una tetta perché un esame genetico rivela che avete una maggiore predisposizione al cancro, o smettereste di fumare sapendo che fra tre anni vi ritrovereste sotto terra?
Non so voi, ma io preferirei di no. 
Non avete mai pensato, quella volta che avete rischiato di schiantarvi contro un albero con l’automobile, o quell’altra in cui avete passato una settimana di atroci sofferenze in preda a un attacco di coliche renali, come eravate felici e sereni solamente una settimana, o tre giorni prima? Vale la pena buttare dalla finestra quei rari momenti di felicità che la vita avaramente ci offre, perché sappiamo che fra un mese, o un anno, dovremo affrontare sofferenze, tristezze e difficoltà? Non credo.
Nel mio lavoro ho imparato che, prima di arrivare al sodo, bisogna risvegliare la curiosità. Forse l’ho risvegliata, oppure no. In ogni caso vi toccherà aspettare la prossima volta.
“Oh, se uno potesse già conoscere l’esito degli avvenimenti d’oggi! Ma basterà che si concluda il giorno, e tutto si saprà”. William Shakespeare, Giulio Cesare, Bruto: atto V, scena I.

venerdì 8 luglio 2011

Le unghie dei piedi, l'inferno e il paradiso

Certe volte mi ritrovo con le unghie dei piedi oscenamente lunghe. Ma proprio lunghe; sembrano quasi artigli.
Non c’è una ragione precisa, e non credo sia una forma di idiosincrasia dovuta alla mania per la pulizia tipica di mia madre.
Non credo alle spiegazioni semplicistiche “causa-effetto”, come quella accampata da un professore di architettura al liceo, che pretendeva di giustificare le sue unghie sporche col fatto che la madre lo costringesse a pulirle con lo spazzolino tutti i giorni.
Penso sia più plausibile una mia innata pigrizia verso la cura del corpo e, in parte, anche dell’anima.
Dicono che non è possibile amare se non si è in pace con sé stessi. Se è così, allora non dovrei amare nessuno, perché non solo non sono mai stato in pace con me stesso, ma addirittura un po’ mi odio.
Mi viene in mente mia nonna, che aveva un negozio da calzolaia in viale Monza quando ci passavano ancora i tram, e i platani napoleonici rinfrescavano le serate estive. Diceva che ogni tanto entrava ancora qualche contadina per farsi fare gli zoccoli, e avevano le unghie degli alluci così lunghe e sporche, che una volta gliele ha tagliate con le tronchesi fingendo di sbagliarsi.
Sembra incredibile, ma mia nonna era davvero così. Se non liberavo in fretta il bagno era capace di innaffiarmi con la canna della lavatrice, altre volte invece, per divertirmi, faceva suonare come una trombetta i fili d’erba.
Comunque non credo ci sia un motivo preciso per cui odio così tanto tagliarmi le unghie dei piedi. È vero però che da piccolo ero terrorizzato da quelle storie di unghie incarnite che si sentivano in giro. Anche mio cugino aveva dovuto farsi incidere un alluce infetto, e io ne ero rimasto scioccato. Ma ora sono cresciuto e queste cose non mi fanno più paura; è che proprio non mi va di perdere tempo in un’attività così faticosa - provate voi a tagliarvi le unghie con una pancia da babbo natale - e francamente inutile.
Non basta a convincermi nemmeno lo spauracchio usato da mamme e nonne per essere sempre puliti e in ordine: “E se per caso ti senti male o ti succede qualcosa mentre sei fuori? Non vorrai mica fare la figura dello sozzone mentre ti spogliano all’ospedale?”. Questo è quello che mi sentivo ripetere un’infinità di volte, proprio come era impossibile evitare l’ispezione a vestiti, unghie, capelli, orecchie, piedi, prima di uscire per andare a scuola. “Non vorrai mica che ti cresca il prezzemolo nelle orecchie vero?”.
O forse non le taglio perché il lavoro è - per fortuna - diventato così asfissiante che ho perso anche la cognizione del tempo. Jean-Cul - l’editore francese - è così lanciato che non ho più tempo per fare altro. Dieci ore al giorno davanti al computer sono diventate la norma e, durante le chiusure, tirare le undici di sera è una prassi consolidata.
A quanto pare, l’inferno sembra finito, anche se non sono più così certo del confine tra inferno e paradiso, e quale sia di preciso l’uno e l’altro.

domenica 26 giugno 2011

Il Signore del Male

Mia moglie dice che sono un po’ “sopra le righe”.
Può darsi, questo periodo mi ha provato piuttosto duramente e non è facile per uno come me passare dal pianto al riso, o dalla tristezza alla gioia, come schiacciare un interruttore. Non so se è così anche per il resto del mondo; per me il mondo sono i miei figli, la mia famiglia, mia moglie e ora, anche un cane, l’ultima novità di questo periodo così concitato e confuso.
Il contratto con Jean-Cul - l’editore francese - almeno fino a dicembre è stato firmato, il sigaro che tanto ha aspettato nell’humidor, è stato fumato proprio oggi, ma la paura non è ancora svanita.
Non so nemmeno io come mi sento; ogni tanto mi prende ancora il groppo allo stomaco e, specialmente la notte, ho ancora qualche piccolo attacco di panico. Mi sembra ancora incredibile la fortuna che ci è capitata così improvvisamente, non riesco a capacitarmi, non riesco a rilassarmi, non riesco a gioire come dovrei.
Questa mattina, mentre andavo a comprare il giornale, sono passato sotto alla finestra della casa in cui, più di trentacinque anni fa, abitavano due fratelli che conoscevo di vista. Il più piccolo - più o meno mio coetaneo - era strano, manesco, incomprensibile anche per uno come me, cresciuto in quella specie di far west che era la periferia milanese a ridosso di Sesto San Giovanni. Ogni tanto però era d’obbligo parlarci, o almeno scambiarci due parole per non farselo nemico. 
Passando sotto quelle finestre, che oggi sono occupate da chissà chi, mi è tornato in mente di quando mi fermò proprio mentre passavo lì sotto, chiedendomi, con un fare tra il minaccioso e l’amichevole, se io c’avevo lo spiuting. Che potevo dire se non che non sapessi di cosa stava parlando? Lui rispose con un tono leggermente spazientito: “Lo spiuting! Non sai cos’è lo spiuting? - così, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ha sputato sul marciapiede mezzo litro di saliva rossastra e schiumosa. “Vedi? È questo lo spiuting. C’è chi lo sa fare e chi no. Tu lo sai fare?”.
“Beh - ho risposto - lo so fare anch’io, ma il mio non è colorato. Tu come fai?”.
“Eh, bisogna saperlo fare, e poi c’è il segreto. Devi ciucciare un ghiacciolo, così quando sputi, la saliva ha lo stesso colore. Allora, tu ce l’hai lo spiuting?”.
Questa conversazione mi era sembrata così scema e, al contempo, così surreale, che l’unica cosa che mi premeva in quel momento era togliermi di torno nel modo più veloce e dignitoso possibile. Non ricordo esattamente cosa dissi; forse qualcosa come: “Ah sì, ho capito, voglio provarci anch’io”.
Un ricordo stupido, ne convengo, ma non posso farci niente. È un periodo in cui, come con le madeleine per Proust, basta un niente per far riaffiorare alla memoria cose stupide e affogate in qualche angolo del cervello da chissà quanto tempo. 
Si dice che la nostra mente operi una selezione dei ricordi che vanno conservati rispetto a quelli che invece sono destinati all'oblio, perché, come in un hard disk, lo spazio è quel che è, e non è possibile conservare tutto quanto. Ma allora, cos’ha di così importante un episodio apparentemente futile come questo?
Forse ha ragione mia moglie, sono sopra le righe e il mio cervello avrebbe bisogno di un buon antivirus, o almeno una deframmentazione del disco. In effetti forse non riesce a comprendere come mai, quando ero ancora nel pieno di ciò che definivo inferno, ero padrone del mio tempo, sperimentavo nuove cose, passavo la giornata con la mia famiglia, mentre, ora che dovrei vivere finalmente nel paradiso del lavoro, non ho più tempo per me stesso o chiunque altro. Non è che ho commesso un’inversione dei termini? Non è che, come nel Il Signore del Male di John Carpenter, quello che sembrava il bene, in realtà non era altro che il male travestito da agnello?

domenica 19 giugno 2011

Sarà, ma (quasi) non ci credo

È incredibile come, a volte, cose che parevano immutabili, cambino così repentinamente. Anni in cui nulla accade, in cui tutto si sussegue monotono e sempre uguale, vengono improvvisamente spazzati via in pochi giorni, o settimane; al massimo qualche mese.
Vivo nello stesso quartiere da oltre quarant’anni. Lo ricordo assolato e silenzioso nei pomeriggi estivi durante le vacanze scolastiche; oppure freddo e grigio negli inverni infiniti di austerity e terrorismo. Ma sempre immutabile; le stesse case, le medesime fabbriche, i soliti campetti malridotti. Poi, come una bella addormentata che si risveglia sotto baci di cemento, le fabbriche sono state demolite, le vecchie case sventrate e i campetti violentati da nuovi condomini, spuntati come i ponti del diavolo che ogni paese italiano racconta costruiti dal maligno nel corso di una sola notte.
Se sia bene o male non lo so dire; quello che è certo, è che il quartiere ha cambiato il suo volto immutabile nel giro di pochi anni. Ciò che credevo immodificabile si è modificato, ciò che credevo eterno, non lo è stato.
È facile ora, col senno di poi, dire che anche la mia situazione, che pareva così nera e fossilizzata in un voodoo senza fine, è finalmente cambiata. Quasi due anni di disperazione e pessimismo totale, sembrano  avviarsi a esaurimento e, per una curiosa combinazione, tutto questo coincide con un mutamento politico negli assetti della città e di un’Italia intera che sembra finalmente risvegliarsi da un torpore quasi mortale. Via gli affaristi snob, a casa chi pensava di arricchirsi con l’atomo, o vendendo un bene prezioso come l’acqua.
Come per il mio lavoro, non so dire se e quanto durerà questo vento allegro e profumato di nuove cose e freschi entusiasmi. Ciò che al momento è la realtà, che io stesso stento a credere, è che mi sono ritrovato nuovamente art director di una piccola rivista, e che ne curerò anche l’edizione francese; e che sono art director anche di un’altro giornale che l’ex direttore è finalmente riuscito a piazzare a qualcuna delle sue infinite conoscenze e che, se tutto va bene, sarò nuovamente in grado di mantenere la mia famiglia in modo dignitoso.
Tutto come prima allora? No, non credo proprio. La lezione è stata dura e non è detto che sia finita così presto. Robert Heinlein scriveva che La Luna è una severa maestra, ma la vita lo è ancora di più. Come ogni malattia lascia sempre qualche parte del nostro corpo indebolita rispetto a prima della sua comparsa, anche questa esperienza lascerà le sue cicatrici. La paura di ricadere nel baratro non scomparirà così facilmente, e anche il modo di vedere le cose non potrà più essere lo stesso.
Un fatto inconfutabile è che non ho ancora firmato nessun contratto. Solo quando questo accadrà potrò tirare fuori dall’humidor il Cohiba Siglo II e stappare il moscato del trentino. Ricordandomi però che nulla dura in eterno, niente è immutabile e che lo scalino che potrebbe farmi inciampare nuovamente è lì che aspetta, ben nascosto fra tutti gli altri.

giovedì 16 giugno 2011

Sono ancora qua

Sì, ci sono ancora. Con la testa dolorante per il poco dormire e il troppo lavoro. Senza il tempo di pensare a cosa sto facendo. Senza aver ancora visto una lira.
Vi terrò informati...