domenica 26 giugno 2011

Il Signore del Male

Mia moglie dice che sono un po’ “sopra le righe”.
Può darsi, questo periodo mi ha provato piuttosto duramente e non è facile per uno come me passare dal pianto al riso, o dalla tristezza alla gioia, come schiacciare un interruttore. Non so se è così anche per il resto del mondo; per me il mondo sono i miei figli, la mia famiglia, mia moglie e ora, anche un cane, l’ultima novità di questo periodo così concitato e confuso.
Il contratto con Jean-Cul - l’editore francese - almeno fino a dicembre è stato firmato, il sigaro che tanto ha aspettato nell’humidor, è stato fumato proprio oggi, ma la paura non è ancora svanita.
Non so nemmeno io come mi sento; ogni tanto mi prende ancora il groppo allo stomaco e, specialmente la notte, ho ancora qualche piccolo attacco di panico. Mi sembra ancora incredibile la fortuna che ci è capitata così improvvisamente, non riesco a capacitarmi, non riesco a rilassarmi, non riesco a gioire come dovrei.
Questa mattina, mentre andavo a comprare il giornale, sono passato sotto alla finestra della casa in cui, più di trentacinque anni fa, abitavano due fratelli che conoscevo di vista. Il più piccolo - più o meno mio coetaneo - era strano, manesco, incomprensibile anche per uno come me, cresciuto in quella specie di far west che era la periferia milanese a ridosso di Sesto San Giovanni. Ogni tanto però era d’obbligo parlarci, o almeno scambiarci due parole per non farselo nemico. 
Passando sotto quelle finestre, che oggi sono occupate da chissà chi, mi è tornato in mente di quando mi fermò proprio mentre passavo lì sotto, chiedendomi, con un fare tra il minaccioso e l’amichevole, se io c’avevo lo spiuting. Che potevo dire se non che non sapessi di cosa stava parlando? Lui rispose con un tono leggermente spazientito: “Lo spiuting! Non sai cos’è lo spiuting? - così, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ha sputato sul marciapiede mezzo litro di saliva rossastra e schiumosa. “Vedi? È questo lo spiuting. C’è chi lo sa fare e chi no. Tu lo sai fare?”.
“Beh - ho risposto - lo so fare anch’io, ma il mio non è colorato. Tu come fai?”.
“Eh, bisogna saperlo fare, e poi c’è il segreto. Devi ciucciare un ghiacciolo, così quando sputi, la saliva ha lo stesso colore. Allora, tu ce l’hai lo spiuting?”.
Questa conversazione mi era sembrata così scema e, al contempo, così surreale, che l’unica cosa che mi premeva in quel momento era togliermi di torno nel modo più veloce e dignitoso possibile. Non ricordo esattamente cosa dissi; forse qualcosa come: “Ah sì, ho capito, voglio provarci anch’io”.
Un ricordo stupido, ne convengo, ma non posso farci niente. È un periodo in cui, come con le madeleine per Proust, basta un niente per far riaffiorare alla memoria cose stupide e affogate in qualche angolo del cervello da chissà quanto tempo. 
Si dice che la nostra mente operi una selezione dei ricordi che vanno conservati rispetto a quelli che invece sono destinati all'oblio, perché, come in un hard disk, lo spazio è quel che è, e non è possibile conservare tutto quanto. Ma allora, cos’ha di così importante un episodio apparentemente futile come questo?
Forse ha ragione mia moglie, sono sopra le righe e il mio cervello avrebbe bisogno di un buon antivirus, o almeno una deframmentazione del disco. In effetti forse non riesce a comprendere come mai, quando ero ancora nel pieno di ciò che definivo inferno, ero padrone del mio tempo, sperimentavo nuove cose, passavo la giornata con la mia famiglia, mentre, ora che dovrei vivere finalmente nel paradiso del lavoro, non ho più tempo per me stesso o chiunque altro. Non è che ho commesso un’inversione dei termini? Non è che, come nel Il Signore del Male di John Carpenter, quello che sembrava il bene, in realtà non era altro che il male travestito da agnello?

domenica 19 giugno 2011

Sarà, ma (quasi) non ci credo

È incredibile come, a volte, cose che parevano immutabili, cambino così repentinamente. Anni in cui nulla accade, in cui tutto si sussegue monotono e sempre uguale, vengono improvvisamente spazzati via in pochi giorni, o settimane; al massimo qualche mese.
Vivo nello stesso quartiere da oltre quarant’anni. Lo ricordo assolato e silenzioso nei pomeriggi estivi durante le vacanze scolastiche; oppure freddo e grigio negli inverni infiniti di austerity e terrorismo. Ma sempre immutabile; le stesse case, le medesime fabbriche, i soliti campetti malridotti. Poi, come una bella addormentata che si risveglia sotto baci di cemento, le fabbriche sono state demolite, le vecchie case sventrate e i campetti violentati da nuovi condomini, spuntati come i ponti del diavolo che ogni paese italiano racconta costruiti dal maligno nel corso di una sola notte.
Se sia bene o male non lo so dire; quello che è certo, è che il quartiere ha cambiato il suo volto immutabile nel giro di pochi anni. Ciò che credevo immodificabile si è modificato, ciò che credevo eterno, non lo è stato.
È facile ora, col senno di poi, dire che anche la mia situazione, che pareva così nera e fossilizzata in un voodoo senza fine, è finalmente cambiata. Quasi due anni di disperazione e pessimismo totale, sembrano  avviarsi a esaurimento e, per una curiosa combinazione, tutto questo coincide con un mutamento politico negli assetti della città e di un’Italia intera che sembra finalmente risvegliarsi da un torpore quasi mortale. Via gli affaristi snob, a casa chi pensava di arricchirsi con l’atomo, o vendendo un bene prezioso come l’acqua.
Come per il mio lavoro, non so dire se e quanto durerà questo vento allegro e profumato di nuove cose e freschi entusiasmi. Ciò che al momento è la realtà, che io stesso stento a credere, è che mi sono ritrovato nuovamente art director di una piccola rivista, e che ne curerò anche l’edizione francese; e che sono art director anche di un’altro giornale che l’ex direttore è finalmente riuscito a piazzare a qualcuna delle sue infinite conoscenze e che, se tutto va bene, sarò nuovamente in grado di mantenere la mia famiglia in modo dignitoso.
Tutto come prima allora? No, non credo proprio. La lezione è stata dura e non è detto che sia finita così presto. Robert Heinlein scriveva che La Luna è una severa maestra, ma la vita lo è ancora di più. Come ogni malattia lascia sempre qualche parte del nostro corpo indebolita rispetto a prima della sua comparsa, anche questa esperienza lascerà le sue cicatrici. La paura di ricadere nel baratro non scomparirà così facilmente, e anche il modo di vedere le cose non potrà più essere lo stesso.
Un fatto inconfutabile è che non ho ancora firmato nessun contratto. Solo quando questo accadrà potrò tirare fuori dall’humidor il Cohiba Siglo II e stappare il moscato del trentino. Ricordandomi però che nulla dura in eterno, niente è immutabile e che lo scalino che potrebbe farmi inciampare nuovamente è lì che aspetta, ben nascosto fra tutti gli altri.

giovedì 16 giugno 2011

Sono ancora qua

Sì, ci sono ancora. Con la testa dolorante per il poco dormire e il troppo lavoro. Senza il tempo di pensare a cosa sto facendo. Senza aver ancora visto una lira.
Vi terrò informati...

lunedì 6 giugno 2011

Quasi arrivederci

La settimana appena trascorsa è stata la più strana, faticosa, eccitante, inquietante e incredibile che mi sia capitata da molto tempo a questa parte.
Iniziata per davvero solo martedì scorso, con la visita di Jean-Cul, l’editore francese, e la sua coordinatrice.
Abbiamo messo in piedi il solito teatrino: l’enorme robot di cartapesta sul pianerottolo, proprio come si vede in certe agenzie, il caffé espresso con le bustine di zucchero e il vassoio, le bottigliette di minerale, i vestiti buoni, le telefonate fasulle. È divertente e, allo stesso tempo, meschino. Una insulsa commedia, una recita da scuola elemetare che però sembra dare i suoi frutti.
Jean-Cul si è ormai convinto ad affidarci anche l’edizione francese del suo giornale, tanto che, nei giorni successivi, abbiamo parlato e contrattato di compensi, chiusure, ulteriori progetti.
In effetti sono su di giri, non pensavo che le cose sarebbero cambiate così in fretta ma, anche se ho già pronti nell’humidor tre Cohiba Siglo II, non mi sentirò tranquillo fino a che non avrò la firma di Jean-Cul sul mio contratto.
Per dirla fino in fondo, l’assunzione di un impegno così grande mi agita come un temporale: dovrei essere felice, eppure provo una strana oppressione alla bocca dello stomaco. Paura? Preoccupazione? Felicità? Non lo so, mi torna in mente il bel commento su questo blog di Sara, una ragazza coraggiosa che ha mollato tutto per vivere diversamente, libera dalle logiche che io mi sento costretto a seguire, e mi domando se ricadere in questo vortice sia ciò che voglio veramente. In fondo conosco già anche la risposta, ed è no. Non è questo che voglio davvero, ma non ho scelta. I tentativi di vivere la mia vita in modo diverso, senza la pazzia di questi orari insensati, del lavoro festivo, del dover essere imprenditore per forza, non hanno avuto riscontro. Si vede che non era cosa.
Quello che invece continua a meravigliarmi è la sincronia con quello che sta accadendo, anzi, è già accaduto a Milano. Un cambiamento impensabile che però avevo già avvertito nell’aria. Un cambiamento che, come nel lavoro, un po’ mi fa paura, ma che più di tutto mi riaccende di speranza.
Finalmente, incrociando le dita, questo blog sta per raggiungere il suo scopo, il suo compimento, e questo, come tante altre cose della vita, mi eccita e mi deprime contemporaneamente. Ormai mi ci sono affezionato, e mi sono affezionato anche a chi lo ha seguito fino ad ora. Quindi non chiuderò. Intanto perché è ancora troppo presto per cantare vittoria e proclamare al mondo intero l’uscita dall’inferno, e poi perché qualcosa da dire ancora ce l’ho. Semplicemente cambierà da una cadenza quasi quotidiana, a una variabile, dettata dagli impegni di lavoro.