lunedì 26 luglio 2010

Socialmente responsabile

Ho sempre provato un certo orgoglio per ciò che ho dato alla mia famiglia. Una sensazione tutta mia, da godere in solitudine. Almeno fino a oggi. 
Non che abbia fatto chissà cosa: qualche vacanza, qualche capriccio per i ragazzi, qualche regalo in più a natale. Una casa comoda e accogliente, ma di certo non lussuosa. La possibilità per mia moglie di trascorrere il suo tempo con i figli e con me. 
Le mie pretese non sono mai state eccessive: non mi interessano i vestiti firmati, un cellulare nuovo ogni tre mesi o un'automobile che valga più di quanto possa permettermi. La deformazione a dare estrema importanza a tutto ciò che è visivo, bello, inaspettato, mi ha portato a spendere qualche centinaio di euro ogni tanto per libri di ogni genere, film e qualche oggetto che soddisfasse il mio bisogno del bello.
Praticamente non bevo, ho smesso di fumare sigarette in cambio di qualche buon sigaro cubano - ci ho provato con i toscani, ma non riesco a sopportarne la puzza - non amo bar e cose simili. 
Credevo di essermi ritagliato un posto tranquillo per la vita della mia famiglia. Nella speranza di non destare le attenzioni del destino, ho volato sottotraccia accettando con soddisfazione il poco o il tanto che riuscivo a ottenere. Sperando che il mondo non si accorgesse di noi, che ci facesse vivere tranquillamente.
Sono ateo, perciò non posso accusare nessun dio di avermi abbandonato o di non avermi aiutato nel momento del bisogno, non voglio nemmeno pensare alla sfiga, il destino, il karma o qualunque altra superstizione atavica. Inutile accusare me stesso, anche se la tentazione è molto forte, ma so che è illogico. E allora con chi dovrei prendermela? Chi devo accusare? Il mafioso pelato che non ha esitato a rovinare una famiglia senza il coraggio di ammetterlo davanti alla sua anima lurida e presuntuosa? Forse, ma non è abbastanza, non mi soddisfa, non può essere così semplice.
Penso alla fiat, che preferisce produrre le sue automobili in serbia, paese in cui i lavoratori non hanno alcun diritto e guadagnano 400 euro al mese, piuttosto che mantenere famiglie italiane che, con le tasse hanno pagato la cassa integrazione e le perdite dell'azienda e che, dei guadagni, non hanno mai visto un centesimo. 
È “socialmente responsabile” - locuzione odiosa che va tanto di moda fra le grandi multinazionali con la coscienza sporca - che un’azienda a conduzione familiare diventata ciò che è grazie ai soldi del piano Marshall, i finanziamenti statali, gli sgravi fiscali, l’ammortamento delle perdite chiamato cassa integrazione, decida di spostare, nel nome di una non ben precisata globalizzazione, la sua produzione in paesi in cui non esistono diritti dei lavoratori e la manodopera costa niente? 
Insomma, dopo aver fatto pagare sempre e comunque le perdite ai lavoratori e agli italiani, ora, nel nome dell’economia selvaggia, si permette di dare un calcio in culo a decine di migliaia di lavoratori, mogli, figli, genitori e anche cittadini. 
Non ho letto su alcun giornale una proposta una, per risolvere questa lenta schiavizzazione di migliaia di italiani. Solo pompose analisi che lasciano il tempo che trovano, ma nessuna soluzione.
Già immagino cosa proveranno tutti questi operai e le loro famiglie, perché è proprio quello che sto passando anch’io. 
Si incazzeranno, altro che, se si incazzeranno. Prenderanno un po’ di manganellate dalla polizia, un sussidio di disoccupazione per qualche mese, con l’angoscia di cosa fare una volta terminati i soldi e, come me, si meraviglieranno di come il mondo continui la sua vita, indifferente verso la loro disperazione.
La prima volta che provai una sensazione simile fu alla morte di mio padre: non riuscivo a capacitarmi di come mai la vita fuori dalla porta di casa potesse proseguire indisturbata malgrado un dolore così profondo. Mi stupivo addirittura che anche le case, le auto, gli alberi, non dessero alcun segno di tristezza. Poi ho capito che il mondo esiste perché io esisto. Quando non esisterò più, per quanto mi riguarda, non esisterà più nemmeno il mondo.
Non è che il mondo fosse indifferente alla morte di mio padre, era semplicemente che il mondo, per mio padre, non esisteva più e viceversa.
Eppure continua a farmi rabbia questa indifferenza che mi circonda, rispetto a quando il telefono squillava ogni dieci minuti e un sacco di gente si preoccupava di me, pensava a me, aveva bisogno di me. 
Proprio come la mia famiglia, che continua ad avere bisogno, ma sono io questa volta, a non poter soddisfare le sue necessità. 
Per aiutarla non esiterei a corrompere, a farmi corrompere, farmi raccomandare, a fare tutto ciò che sarebbe moralmente inaccettabile, perché ciò che conta, al di là di tante belle parole, è il benessere dei propri cari, perpetuare i propri geni, contro tutto e tutti. 
Questa volta non mi farei gli scrupoli morali che mi rodevano il cervello a causa di ciò che andava contro i miei principi. Il lavoro è lavoro. Punto e basta. E un uomo a cui viene tolta la dignità e la possibilità di crescere i propri figli, è un uomo cui è stata inflitta la più tremenda delle ingiustizie. 

3 commenti:

  1. Caro Jolly Roger,
    ti avevo già scritto qualche tempo fa e mi è venuta la curiosità di tornare a vedere se per te le cose erano girate in meglio. Sono una giovane illustratrice. Per campare e fare qualcosa di socialmente utile ho iniziato a fare il servizio civile e lavoro con disabili. Vivo con il mio ragazzo in una piccola casa di proprietà di parenti di lui, in zona quasi montana. Abbiamo un orto che stiamo imparando a coltivare. Guadagniamo in due più o meno ottocento euro al mese (in due) ma ne spendiamo molti meno. Abbiamo una macchina sola, dividiamo le spese e io la uso il meno possibile. Il mio ragazzo ha imparato a lavorare il legno, ha fatto mobili per la nostra casa, si aggiusta la macchina da anni. Io ho smesso quasi di comprare vestiti e ho imparato a cucire per ripararli (ma ti assicuro che me ne arrivano sempre di nuovi dismessi). Mi sono fatta assorbenti lavabili e mi preparo creme e cerette in casa. Ci facciamo il sapone e il pane, non compriamo cibi pronti salvo la pasta, ci tagliamo i capelli a vicenda (con i risultati che immagini). Compriamo tramite Gas, mercato e cascine. Abbiamo imparato moltissimo e continueremo a imparare. Sono tutte nostre scelte (ad esempio lui ha scelto di lasciare il suo precedente lavoro e io di lasciare la grande città) per molti difficili da capire. Non sono qui per giudicarti e magari giudicherai stupide o utopistiche le mie parole, ma non ho secondi fini se non quello di cercare di aprire i tuoi occhi ad altre strade. Non so, forse se tutto ti va storto e non riesci più a trovarti nel mondo in cui hai vissuto metà della tua vita, può essere arrivato il momento di prendere coscienza che forse quel mondo, adesso, con la crisi, non fa più per te. Non è l'unico! Milano, o la grande città in generale è solo uno dei possibili luoghi in cui si può vivere e il lavoro a tempo determinato (o pieno) solo uno dei modi di stare al mondo. Non so quanto possa essere difficile per te fare delle scelte drastiche come cambiare casa, uscire dalla grande città e, magari, poi, uscire dalla logica del lavoro-produco-consumo a tutti i costi. Sono sicura che a molte persone, magari anche a te e alla tua famiglia, farebbe un gran bene, prima di tutto alla salute, poi anche all'umore.

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  2. ...
    Noi ci siamo avviati in parte all'autoproduzione e alla decrescita dei consumi per necessità (ho rinunciato da tempo a sperare in una pensione per quando non potrò più lavorare, visto che nemmeno adesso riesco a lavorare), ma soprattutto per scelta consapevole. Ti sembrerà la storia della volpe e l'uva, ma come ti avevo già scritto il mondo della grafica locale (e diverse altre strade che ho tentato di percorrere) non mi ha voluto, e forse questo limite mi è servito a capire cosa ero disposta o no a fare. Dovrò avere davvero fame prima di chiudermi in un ufficio o in una fabbrica per 8 ore al giorno e viaggiare magari per 1 o 2 (come ha fatto il mio ragazzo per alcuni anni), imbottigliata nel traffico, o vivere in una città dove l'aria porta malattia, l'acqua è imbevibile, il cibo è caro, insapore e artefatto e dove i bisogni primari (casa, aria, acqua, cibo, persino la salute) sono difficili e costosi da soddisfare e soprattutto succubi di mille fattori su cui non ho possibilità di controllo. Tutto ciò solo per poter lavorare? Ma la vita dov'è? Il tempo per la vita? Diciamoci la verità, grazie al cielo la fame per noi è lontana.
    Per me oggi è inconcepibile il modello di vita contemporaneo e mi sembra che stia crollando già da sè, portandosi dietro le vittime che sappiamo. E' insostenibile prima di tutto per l'uomo.
    Se per caso sei riuscito a leggere tutta questa solfa e a sopportarmi, ti consiglierei, se vuoi, qualche lettura: ti consiglio i libri di Pallante sulla decrescita felice, se già non li conosci, poi quelli di Stefano Montanari, e online trovi molto, per esempio la rivista online "il cambiamento" o il blog di "erbaviola" ma ce ne sono innumerevoli altri. Ribadisco che non ho nessun secondo fine. Tutto ciò che ho scritto lo penso e l'ho scritto col cuore, ci ho messo più o meno due ore (che polenta!). Non sono nessuno e non posso nè voglio pontificare, ma in ogni caso, mi raccomando, non smettere mai di fare ciò che ami fare, come scrivere o fare grafica. Adesso hai anche più tempo per farlo e questa è una ricchezza che non tutti possiedono. Se non puoi crearne un profitto, (adesso) puoi farlo comunque per te stesso. Saluti e in bocca al lupo.
    Sara

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  3. Cara Sara, i commenti come il tuo sono ciò che mi spinge a continuare questo blog che, povero illuso, pensavo sarebbe durato solo qualche mese e invece dura ormai da oltre un anno e mezzo.
    Non devi preoccuparti di giustificare quello che scrivi, o pensare che io mi permetta di giudicare ciò che dici o che pensi, soprattutto quando lo esponi così educatamente e con la serenità che sembra trasparire dalle tue parole.
    La vita che hai scelto di vivere è la stessa che io tante volte non ho avuto forse il coraggio di abbracciare.
    Sono uno di quelli che, ogni volta che deve prendere una decisione, ci pensa e ci rimugina infinite volte, col risultato di mantenere alla fine lo statu quo, oppure di fare la scelta sbagliata.
    La voglia di mollare tutto l’ho avuta anche in passato. Forse avrei dovuto avere più coraggio, o più coglioni, o più fame. Poi andava a finire che le cose si sistemavano e ci pensavo solo ogni tanto, come puro esercizio di stile. Un po’ come nella canzone di Battisti.

    ...Le distese azzurre e le verdi terre. Le discese ardite e le risalite su nel cielo aperto e poi giù il deserto e poi ancora in alto con un grande salto...

    E infatti si intitola “Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi!”.
    Oggi, che davvero sarebbe il momento, mi ritrovo a pensare ai miei figli, al loro domani, a quale sia la scelta giusta per loro. Per il grande, che ha già sedici anni e sta scoprendo le occasioni che la vita potrebbe riservargli, e la piccola di dieci anni, così intraprendente ed entusiasta.
    Mi domando se la scelta di - perdonami se uso un termine che potrebbe sembrare offensivo o supponente, ma non intendo davvero esserlo - rinunciare al mondo, sia davvero quella giusta per loro. Ma forse sbaglio a pensarla così, forse si tratta di una filosofia, non di una rinuncia.
    Quello che mi domando è se devo essere io a fare questa scelta anche per i miei figli. Se è giusto che imponga loro una svolta così radicale solo perché non mi riconosco più in questa italia, e soprattutto, in questi italiani.
    Non sarebbe più giusto fare tutto ciò che è in nostro potere per cambiare, per cambiarci?
    Non saprei davvero, è un periodo in cui ho le idee troppo confuse, o forse è perché sono così vicino ai cinquant’anni; un’età che non favorisce le scelte radicali e vede come una sconfitta la perdita delle posizioni acquisite con così tanta fatica.
    Vorrei darti una risposta più intelligente, vorrei avere le idee più chiare, dei punti fermi inattaccabili, ma non ci riesco. Se da una parte mi godo il tempo per fare tante cose che riempiono il mio animo di soddisfazione, dall’altra so che è un tempo che non mi appartiene.
    Scusami quindi se dico che il tuo commento mi ha un poco destabilizzato; pensare di fare determinate scelte di vita è una cosa, sentirsele raccontare da chi ha avuto il coraggio di farle è un altro paio di maniche.
    Ma questo è proprio quello che volevo, e quindi non posso che seguire le indicazioni che mi hai dato, ringraziarti, sperare che ogni tanto verrai ancora a leggere il mio blog e ricambiare di cuore a voi, ragazzi coraggiosi, il vostro in bocca al lupo.

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