martedì 10 agosto 2010

L'epifania

L’epifania è arrivata col sogno di questa notte. Uno di quelli che nascono confusi come solo certi sogni possono essere. Rimescolati come le strade che l’inconscio cerca per comunicare qualcosa d’importante. Proprio come le soluzioni ai tanti problemi lavorativi che si sono presentate, semplici e lineari, appena prima di addormentarmi, o nel dormiveglia che precede il risveglio.
Un sogno fatto di giornate di pioggia passate all’aperto, camminando su larghi marciapiedi inondati d’acqua, ambienti familiari eppure mai visti, puzzle di muri, strade e case archiviati nella memoria, persone conosciute chissà quando, teste montate su corpi diversi che si disperano per gli stessi problemi che oggi mi affliggono, altre che forse rappresentano chi non ho mai incontrato e che avrei voluto frequentare, e poi una scuola che sembra una fabbrica, un insieme di pezzi di vite vissute trent’anni fa, fuse insieme a caserme, licei di periferia, muri di cemento grigio.
Mi ci trovo dentro senza un motivo apparente, col cellulare che si smonta e che non riesco a rimettere insieme, vagando senza un senso e una ragione lungo corridoi sfuocati e pareti disadorne. Ci sono persone che vanno e vengono, alcune mi conoscono e mi sembrano familiari, altre no. Non capisco perché mi trovo lì, ma nessuno pare curarsene e non faccio che ripetermi che non ho tempo da perdere, che devo tornare a casa, ma non so per quale motivo.
E invece rimango, sono ipnotizzato da un’atmosfera senza tempo e nutro la convinzione che la mia presenza abbia una ragione ben precisa che mi sfugge come una lucertola impaurita.
Non so come, forse perché accetto una proposta fatta da chissà chi in un corridoio deserto, mi ritrovo a fare da supplente come professore di scienze a una classe di adolescenti ostili.
Come? Proprio io che rifuggo le nuove amicizie, i contatti umani troppo ravvicinati, il parlare in pubblico, come posso aver accettato una cosa del genere? Sono terribilmente impaurito, ma anche eccitato, incuriosito, stranamente attratto dal rapporto con questi ragazzi.
Entro e mi presento: “Buongiorno mi chiamo D. e per qualche tempo sarò il vostro professore di... - quasi mi sfugge la parola, ma poi arriva all’improvviso - di scienze”. 
Pensavo peggio, anche se la classe al momento è formata solo da cinque o sei ragazzi. Chiedo come mai siano così pochi e scatta un interruttore: click, il dialogo si apre, i ragazzi ascoltano e intervengono, si parla di tutto e un’ora passa in fretta, troppo in fretta.
Mi rendo conto che non potrò mai essere un professore di scienze, non conosco la materia, non l’ho mai studiata e non mi sono mai nemmeno laureato, e poi le graduatorie? I documenti? Verrà senz’altro fuori e succederà un disastro. Questa cosa non può funzionare, nemmeno in un sogno. 
È qualcosa che mi intristisce e a cui vorrei trovare una soluzione. Vado dal responsabile scolastico che, per l’occasione, si trasforma in un maresciallo dei carabinieri di paese, e la presidenza in una caserma vuota, con una scrivania e un piantone che funge da bidello. Spiego che voglio con tutte le mie forze stare con i ragazzi, dialogare con loro, parlando a ruota libera, perché sento che ne hanno bisogno, e ne ho bisogno anch’io.
Aver capito quanto sia importante questo rapporto simbiotico proprio mentre ne sto parlando, mi riempie di una gioia così dolce che non riesco a trattenere le lacrime. 
Come quando sono nati i miei figli. È un sentimento così forte che non riesco a descriverlo: è gioia, è amore, esaltazione, tenerezza e anche qualcosa che assomiglia alla paura. Un insieme di emozioni che manda in tilt il mio cervello, che non riesce più a decidere se ridere, piangere o fare entrambe le cose.
È allora che il preside-maresciallo mi abbraccia come si abbraccia un figlio e mi sistema il colletto della camicia, poi mi abbraccia ancora e mi guarda tenendomi le mani sulle spalle e distendendo le braccia, come quando si ammira un disegno venuto bene. Dice che sì, ha capito cosa intendo dire e che sarò una figura che potrà occuparsi dei ragazzi ogni volta che ce ne sarà la necessità.
Ed ecco l’epifania. È questo che devo fare: stare con i giovani, inventare qualcosa che mi permetta di guadagnare e, al contempo, trasmettere qualcosa di utile a chi lo desidera. Questa è la vera creatività, questo significa produrre qualcosa degno di durare nel tempo. Già, ma come?

PS: Ciao Zaccheo, benvenuto!

1 commento:

  1. Grazie. Non parlo molto, ma so ascoltare... e, per quanto possa servire, ti sono vicino. Salutami le belle Marche. Ciao.

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