martedì 31 agosto 2010

A presto amico mio

Eccoci di nuovo a Milano, dopo un viaggio allucinante durato quasi sei ore per meno di cinquecento chilometri.
Dopo questa esperienza catastrofica sono giunto alla conclusione che le strade ormai rispecchiano ciò che sono diventati gli italiani: una massa indisciplinata di prepotenti bifolchi.
Ho rasentato la rissa con un figlio di puttana di Torino che, malgrado avesse a bordo di una improbabile opel vectra famigliare moglie e figlio, si comportava come un idiota incosciente, cambiando corsia come se guidasse un autoscontro, sorpassando indifferentemente a destra e sinistra e cercando la rissa con chi non lo faceva passare. Quando anch’io, come un delinquente di periferia, ho minacciato di stringerlo per buttarlo fuori, si è eclissato e non l’ho più visto fino a Milano.
Mi sono comportato come un energumeno incivile e me ne vergogno, ma ero completamente fuori di me. Se avessi avuto una pistola gli avrei sparato senza esitare, e se con me non ci fossero stati moglie e figli, lo avrei inseguito fino in capo al mondo e, dopo averlo speronato, lo avrei massacrato di botte.
Mi ci sono volute quasi tre ore per smaltire il giramento di coglioni, ascoltando musica, guardando il panorama dal finestrino e ripensando a Dorico e come mi aveva salutato prima di partire.
Stranamente, si era ricordato il mio nome, ma non quello dei miei figli. Veramente quello di E. non riusciva nemmeno a pronunciarlo e, dopo un certo numero di tentativi, abbiamo rinunciato a ripeterglielo per rassegnazione.
“Partite di già?”. Ci ha detto con un velo di tristezza e meraviglia. Poi ha voluto che gli lasciassimo il numero di telefono: “Perché io sò testardo e ogni tanto me prendo la mia agendina e chiamo li amici, anche in Argentina. - e rivolto a C. - e quando te chiamo, me devi fà sentì come suoni la chitara”.
Poi ha cominciato a dire che chissà se l’anno prossimo sarà ancora al mondo e se ci rivedremo, domandandosi quale incantesimo gli avessimo fatto perché si affezionasse così tanto a noi. Mi ha stretto la mano, raccomandandomi di guardà avanti e dicendomi: “Ciao amico mio”.
Sono state proprio queste tre parole a colpirmi profondamente. Lo so, vengono da un vecchio che nemmeno conosco e con la testa un po’ frastornata, ma ho capito che le diceva davvero col cuore e con gli occhi lucidi.
Poi ci si è messa anche Milano a sollevarmi il morale. Sembrava quasi bella, il cielo azzurro, la tangenziale asfaltata di fresco e quel po’ di verde che la circonda era così brillante, come se qualcuno l’avesse lucidato in previsione del nostro arrivo.
Sembrava quasi una di quelle giornate di fine estate di quando ero piccolo, così belle da essere quasi malinconiche.

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