mercoledì 10 novembre 2010

Scelte o destino?

Essendo nella quinta fase - quella dell’accettazione mista a depressione - delle cinque teorizzate dalla psichiatra Elisabeth Kübler Ross, mi trovo a ripensare, più spesso di quanto abbia mai fatto, a quali sono state le scelte, il destino, il karma, che mi hanno trascinato in questo indefinibile periodo della vita.
La prima considerazione è stata che, se non avessi deciso di intraprendere una “carriera solista”, questo momento non si sarebbe mai presentato.
Durante il liceo immaginavo il mio futuro immerso in una nebbia densa, dalla quale, affioranti in pozze di luce gialla, comparivano ora un lavoro in un’agenzia pubblicitaria, talvolta un’altro come fotografo, illustratore o roba simile.
La passione era forte, più di ogni altra, ma, contemporaneamente, povera di mezzi. Non potevo permettermi colori di qualità, materiale fotografico e tantomeno grafico. Mi arrangiavo come potevo, fra regali di natale, compleanno e molta inventiva.
Ma inventiva e buona volontà non sempre bastano. Puoi provare a piantare un chiodo con una scarpa, ma col martello è infinitamente meglio.
In verità è sempre mancato l’incoraggiamento, non solo economico, da parte dei miei, forse perché la mia scelta scolastica, fortemente voluta, non è stata omogenea alle loro ambizioni.
Inutile dire che la mia risposta negativa alla semplice domanda formulata una sola volta: “Vuoi continuare a studiare o ne hai abbastanza?” fatta a diploma ancora caldo, mi ha subito catapultato alla ricerca di un lavoro.
Col senno di poi, avrei potuto approfittarne per trascorrere qualche anno di cazzeggio, fingendo di frequentare qualche facoltà di cui nemmeno conoscevo l’esistenza. Mi sarebbe piaciuto provare con l’Accademia di Belle Arti di Brera ma, mea culpa, ero totalmente ignorante riguardo alle strade che avrei potuto intraprendere dopo il diploma, e il mio interesse era totalmente concentrato sulla mia ragazza e le passioni artistiche. 

Credo che questo sia il primo punto di svolta della mia vita, la prima vera pietra angolare. Una scelta condotta in piena solitudine che mi ha fatto imboccare, fra le le strade che si aprivano, quella in apparenza più facile. Forse.

Così, con un portfolio costituito da semplici esercizi di stile autoprodotti, cominciai a girare per agenzie e inviare curriculum. Il ritornello era sempre il medesimo: “Hai passione, sembri volenteroso, ma sei giovane, non hai l’esperienza che ci serve”. Ho collezionato così tante risposte simili da deprimermi sempre più e comportarmi come quei pazzi che vedono cospirazioni aliene dietro ogni angolo. In breve tempo giunsi alla resa incondizionata, accettando un colloquio nella multinazionale in cui lavorava mia madre, forte del fatto che fosse prassi comune assumere i figli dei dipendenti prossimi alla pensione. Feci un colloquio con una psicologa aziendale e giuro che ce la misi tutta, ma finì in niente. Non credo di essere risultato adatto al lavoro di squadra, e nemmeno all’obbedienza incondizionata.

Il secondo punto di svolta della mia vita.

Poi venne il giorno in cui una piccolissima agenzia si interessò a me. Specialmente per via del periodo passato a fare da assistente fotografo alla Fiera di Milano e quei pochi mesi di corso serale di fotografia al Cesare Correnti.
Cercavano un ragazzo che si occupasse della camera oscura e, a tempo perso, imparasse un po’ di grafica. Niente assunzione, solo un part time a ritenuta d’acconto. Manco a dirlo, durò poco: forse un paio d’anni, l'agenzia fallì  e mi ritrovai a spasso.
Ricomincio la ricerca e tornano le delusioni. Trovo lavoro in un’altra agenzia, ancora più miserrima, guidata da un ex alpino come fosse una caserma. Dopo un anno, poco prima di natale, oso chiedere un piccolo aumento. L’alpino risponde testualmente: “Ma quale aumento? Non lo sai che tanto dall’anno prossimo non lavori più?”.
Ho preso il mio assegno non sapendo nemmeno cosa rispondere e me ne sono andato. Non sono più tornato, ho denunciato l’alpino che, dal canto suo, per onorare l’arma a cui era tanto affezionato, mi ha accusato di furto. Ha perso, ma ho perso anch’io, ricominciando di nuovo da zero.
Altra piccolissima struttura. Si occupano di carte geografiche. La sede è ricavata in un angolo di un parcheggio interrato. Il cesso è disgustoso, ogni volta che un’auto entra o esce dal parcheggio tremano i vetri e l’odore è insopportabile, non c’è luce. Non resisto, non ce la faccio proprio a rimanere in questa tana di topi, non sopporto l’odore di ammoniaca delle cianografiche, me ne vado di mia spontanea iniziativa.
Nel frattempo mia madre incontra in ascensore il titolare di un’agenzia che lavora per la sua azienda. La scambia per una dirigente e, quando lei chiede se cercano un giovane grafico, lui dice di sì. Mi ritrovo in un ambiente discretamente pulito tranne che per la coscienza dei dipendenti. Non so perché, fanno di tutto per ostacolarmi, mi nascondono informazioni importanti, mi rendono la vita impossibile. Un giorno cado in moto sulla tangenziale. Mi ustiono un braccio, un avambraccio, il culo e l’osso del gomito mi spunta dalla pelle consumata dall’asfalto. Quando mi ripresento al lavoro mi dicono che non possono più continuare a pagarmi lo stipendio consueto. Sono disposti a tenermi, ma con una consistente riduzione. Li mando affanculo e quando esco mi sento più leggero e felice di quando ero entrato.
Torno di nuovo in pista. Capito per caso in una storica casa editrice di Milano. Una signora distinta mi propone di fare dei disegni tecnici per libri scolastici e non. È una cosa che mi prende di sorpresa, ma è un lavoro e decido di tentare. Mi si apre un nuovo orizzonte e, anche se non smetto di propormi come grafico e illustratore, comincio di nuovo a portare a casa un po’ di soldi. Allargo il giro ad altre case editrici scolastiche. Vado a ritirare il lavoro, lo faccio a casa e lo riporto. Non mi dispiace e amo dire che la scelta di lavorare come libero professionista non è stata una scelta vera e propria, ma un concatenarsi di coincidenze, un seguire un sentiero obbligato.

Questa è sicuramente la terza pietra angolare.

Lavoro per diverse case editrici scolastiche e altri piccoli clienti che ho facilmente incontrato da quando faccio il battitore libero. Uno di questi è fra i primi ad introdurre i sistemi macintosh nell’editoria e ci lavora mia moglie. Ogni tanto provo a sperimentare il computer e i primi rudimentali programmi di disegno. Li trovo comodi e molto più veloci dei rapidograph e delle squadre. Decido di fare il grande salto e compro il mio primo mac.

Quarta svolta, forse la più importante.

Dai disegni tecnici all’impaginazione il passo è breve, i programmi sono ancora piuttosto semplici da imparare e, in breve tempo, quasi tutti gli editori si convertono al digitale. Sono tempi fruttuosi, c’è molto lavoro, mi specializzo nell’impaginazione e nella progettazione editoriale. Col tempo il lavoro aumenta anche se il parco clienti funziona come una fisarmonica, contraendosi ed espandendosi ritmicamente, ma senza mai fermarsi. Dalla ritenuta d’acconto passo alla partita iva. Ormai ho abbandonato l’idea del posto fisso e, soprattutto, il campo delle agenzie pubblicitarie che, tra l’altro, sono piene di gente presuntuosa e molto distante da ciò che sono io. L’editoria è tutt’altra cosa, più alla mano, meno pretenziosa e permette di esprimere maggiormente la creatività del singolo, del battitore libero, come io mi sono sempre sentito.
È un modo di lavorare che concilia la mia indole solitaria, il mio carattere non facilissimo. Sono soddisfatto, guadagno ciò che basta per vivere come mi va. Non c’è sicurezza, d’accordo, ma sono andato avanti così per oltre vent’anni.
Poi è successo quello che è successo. Un cliente ha preso il sopravvento su tutti gli altri, ha monopolizzato il mio tempo, mi ha fatto guadagnare, è vero, ma è anche vero che al primo intoppo mi ha scaricato come i camper scaricano i loro wc chimici per strada.

Ecco quindi la quinta pietra angolare, credo la più importante di tutte, quella che mi costringerà, forse, a cambiare nuovamente vita. La più pesante da trasportare. E il problema è che non so dove portarla.

Adesso mi domando: ho sbagliato qualcosa in tutto questo? È stato tutto frutto di decisioni ponderate o, fin troppo spesso, delle circostanze, della combinazione, del karma o del destino? E se davvero le mie azioni non riescono a influenzare il corso della mia vita, cosa mi riserverà il domani?

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