giovedì 21 gennaio 2010

Và a lavurà, barbùn!

Vivo una dicotomia che mi sta lacerando l'anima. Da un lato, non lavorare più per il mafioso pelato quasi mi solleva; è come la fine di un incubo, un peso tolto dal cuore, un senso euforico di libertà. Ma c'è anche un lato oscuro che mi assilla, mi torce lo stomaco e, probabilmente, mi alza la pressione. Le cose vanno male, inutile nasconderlo. La crisi non è passata: è appena cominciata. Qualche anno fa mi bastava spedire una cinquantina di mail per avere almeno due o tre opportunità. In questa ultima settimana di mail ne avrò spedite almeno duecento, ricevendo solo due risposte da persone, certamente educate, ma non interessate.
Mi sembra di essere tornato a vent'anni, un periodo in cui mi sentivo escluso dal ciclo produttivo, emarginato, senza possibilità di futuro. Vedevo tutta la gente intorno a me che correva indaffarata, impegnata nel proprio lavoro o, quanto meno, nel contribuire alla crescita familiare. Io, che il lavoro lo cercavo e non riuscivo a trovarlo per mancanza di esperienza, ero così sfiduciato e malinconico. Milano non è mai stata gentile con chi non produce; né oggi, né ieri. E a chi perde tempo senza fare nulla ha sempre detto: "Ma và a luvurà, barbùn!"

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