mercoledì 22 settembre 2010

Tempo di raccolto

Autunno, si sa, è tempo di vendemmia. Maturano le olive, si raccolgono funghi, castagne e anime.
Ne sa qualcosa il prete della parrocchia, che da settembre e per tutto l’inverno, ma specialmente in autunno, suona le campane a morto anche più volte al giorno.
Troppo facile allora, per uno come me che passa le sue giornate in questo quartiere, citare Hemingway e dire: “...non chiedere per chi suoni la campana. Suona per te”.
Un po’ è vero, perché il più delle volte non ho bisogno di chiedere per chi suoni, perché già lo so. Dopo oltre quarant’anni passati sempre nello stesso pollaio, posso dire di conoscere, almeno di vista, quasi tutti i polli, le galline e anche i galletti.
Di alcuni, onestamente, non posso che rallegrarmi che liberino il mondo dal loro fetore insopportabile, per altri sono sinceramente dispiaciuto.
Più che nel mio condominio, invero piuttosto avaro di morti e funerali - mio padre, mia nonna, la coppia del piano di sopra, la vecchia signorina ex insegnante con l’amichetto coetaneo che l’aspettava sotto casa per ore e ore e a cui ha sempre negato anche solo di accompagnarla fino alla porta, il padre di un’amico d’infanzia, quel pazzo di siciliano che prendeva la moglie a calci in culo in mezzo alla strada, l’operaio sardo che viaggiava con tutta la famiglia a bordo di un vespone - dicevo che è il condominio di fronte che ha offerto gli spettacoli più forti.
C’era la coppia al piano rialzato: due vecchi biliosi, pettegoli e cattivi. Lei, ex portinaia, passava le giornate sul balcone a spiare chi entrava, usciva o transitava davanti al condominio. Non aveva nemmeno bisogno di alzarsi dalla sedia, cominciava a inclinarsi in avanti sempre di più, fino a sfiorare la ringhiera col mento, girando svelta la testa da una parte e dall'altra come un grosso rettile.
Lui, camionista in pensione - di quando fare i camionisti voleva dire guadagnare fior di soldi - era uno fra gli esseri più spregevoli che abbia mai ospitato questo pianeta. Lungo, magro e pelato come un avvoltoio, trascorreva il suo tempo seduto sul balcone. L’intento era di spiare ogni essere vivente di sesso femminile che si trovasse a passare. E non era esclusa una veloce masturbata in pubblico quando l’assenza della moglie lo permetteva. 
Il giorno in cui un’ambulanza ce lo tolse di torno, sperammo che non sarebbe mai ritornato. E invece tornò; con una gamba in meno, ma tornò ad appollaiarsi sul balcone come un uccello necrofago, ancora più affamato, ancora più avido di vita. 
Pensai che per estirpare una malaerba del genere si dovesse procedere per gradi: prima una gamba, poi l’altra, poi le braccia e tutto il resto, per seppellirlo senza che se ne accorga, altrimenti avrebbe schifato anche la morte. Finalmente, dopo qualche tempo, schiattò senza troppe storie, ma ci volle sputare in faccia per l’ultima volta, quando se ne andò a bordo di una enorme mercedes funebre, con  corone a non finire in un esternazione di cattivo gusto come raramente ho mai visto. 
La moglie, forte come un toro e di pelo rosso, ha resistito alla dialisi per alcuni anni, poi finalmente ha raggiunto il marito che, a quanto pare, non aveva alcuna fretta di ritrovare.
Di tutt’altro stile è stato il funerale del vecchio partigiano del primo piano, a fianco dell’ingresso.
In effetti non sapevo si trattasse di qualcuno che si fosse impegnato in qualcosa di così nobile. Io lo vedevo come un vecchio massiccio, duro come una quercia, con un carattere scontroso o quanto meno poco amichevole. Confesso insomma che non mi era eccessivamente simpatico, a parte quando doveva spostare l’auto sul marciapiede per la pulizia delle strade. 
Aveva una vecchia ford fiesta che risaliva a prima del 1980, la teneva lucida e in esercizio come un cesso appena pulito. Ma anche se in gioventù avrà avuto dimestichezza nel maneggiare armi contro nazisti e fascisti, la guida non era di sicuro il suo forte. 
La manovra per spostare l’auto sul marciapiede, cominciava con delle sgassate potenti e prolungate, poi, con il motore così su di giri che pareva chiedere pietà, cominciava la lenta risalita del marciapiede. Questa operazione prevedeva tre o quattro altalenanti andirivieni per ogni singola ruota, col motore che implorava di morire facendo vibrare il cofano. Ma la parte più complessa era l’allineamento orizzontale che procedeva in modo estremamente lento ed esasperante, fino ad arrivare a pochissimi centimetri dal muro. Era uno spettacolo al tempo stesso ipnotico e irritante, ma che non avrei perso per niente al mondo.
Morì che era novembre, o forse ottobre, non ricordo bene. Quella mattina scendeva una neve improvvisa, asciutta e fine, spinta da un vento inaspettato che la fece aderire sulla strada e le auto parcheggiate nel giro di qualche decina di minuti. Una banda aspettava infreddolita l’uscita della bara, con l’ottone dei tromboni che rifletteva un cielo grigio e le folate di vento che infilavano la neve negli strumenti. Quando uscì la bara cominciarono a intonare Bella ciao. Vecchi partigiani accompagnati da bandiere gonfie di medaglie, cominciarono ad incamminarsi curvati dal vento e dalla neve. Non in chiesa, dove un vecchio partigiano comunista non sarebbe entrato nemmeno da morto, ma direttamente al cimitero, lasciando le righe nere delle gomme del carro funebre sulla strada imbiancata. Una scenografia che raramente Milano offre ai suoi vecchi.
Ieri è toccato alla mamma di quello che in famiglia chiamiamo “il Pinocchietto”. 
Non so perché questo vizio di dare un soprannome a chiunque ci capiti a tiro. Forse una riminescenza della vita contadina dei miei nonni, vita che, in paesi in cui tanti avevano lo stesso nome, l’identità veniva dal soprannome, a volte buffo altre dispregiativo, che si sarebbe portato appresso per tutta la vita. Per esempio, mio nonno materno era per tutti “Crustin” dalle croste di pane, mentre un’altro era “U curtu”.
Insomma, visto che non conosco il cognome di quella strana famiglia formata da due fratelli maschi e i loro genitori, li abbiamo identificati come la famiglia di Pinocchietto. 
Pinocchietto è uno dei due fratelli, credo il più anziano. Avrà intorno ai quarant’anni, magro come un chiodo, barbetta caprina e occhiali. Cammina come se le gambe andassero per i fatti loro, a volte anche un po’ di sbieco, con le braccia che marciano come quelle di una marionetta. 
Ex alpino, non si perde un raduno, dinoccolandosi verso la metropolitana in vestiti borghesi e cappello con la piuma d'aquila, spesso parlando da solo come la madre. Inutile dire che non si è mai sposato, né mai l’ho visto in compagnia di una donna. Forse dev’essere un po’ pazzo, uno di quei tipi che fanno scappare qualunque femmina. 
Il fratello è più giovane, con pochi capelli, ma più umano nell’aspetto e nell’andatura, tanto che, qualche anno fa, ha messo incinta la Secca, una bionda allampanata e magrissima che gira tutti i negozi del quartiere a credito, e che ogni tanto scompare per qualche mese per calmare le acque. 
Una sera la madre si è presentata sotto il condominio urlando alla famiglia di Pinocchietto che quel puttaniere di loro figlio avrebbe dovuto sistemare la faccenda, perché altrimenti con una bella denuncia alla polizia, gliene avrebbe fatte passare di tutti i colori. E, tanto per cominciare, direi che sputtanarlo davanti a tutto il quartiere era già qualcosa. 
Per quanto ne so, lui e la Secca non si sono mai sposati e ognuno è rimasto ad abitare a casa sua. Però è nata una bambina che viene sballottata qua e là e comincia ad assomigliare in modo impressionante a sua madre.
Il padre di Pinocchietto è un omino piccolo e secco, con un collo da gallina che fa lo scrutatore a ogni tornata elettorale, una volta per il pci, oggi non so.
Ma la vena di follia non può che derivare dalla madre: una donna sui sessanta, tonda come una mela e che cammina con immane fatica, un passo dopo l’altro, come se avesse le scarpe piene di puntine da disegno. E mentre cammina, parla. Non si sa con chi o di che cosa. È un chiacchiericcio sommesso, accompagnato da appropriate espressioni del viso e qualche vago gesto delle mani. Lo fa sempre: quando esce, quando torna a casa, quando la incontro per strada. Ma non credo che questo le abbia impedito di lavorare, perché gli orari sono quelli tipici degli uffici.
L’altra sera l’hanno portata via con l’ambulanza a sirene spiegate e, nel giro di una giornata, il portone si è listato a lutto.
Chissà che ne sarà ora di Pinocchietto, suo padre e suo fratello. Tre uomini soli, non tanto svegli, capaci di combinare cazzate grosse come case, senza più quella pazza della madre a mettere un po’ di ordine in quelle testoline.

2 commenti:

  1. Mi viene il dubbio che questo blog sia in realtà un esperimento letterario e che tu non sia proprio quello che vorresti far credere di essere :)
    hai mai pensato di scrivere? Mi piace il modo in cui descrivi luoghi e persone e questo post mi rafforza nel giudizio.

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  2. Il tuo complimento mi riempie d'orgoglio, ma giuro che non sono mai stato altro che un grafico.
    Riguardo al blog, la verità è che, in un momento estremamente difficile, mi illudevo che avrebbe potuto attirare l'attenzione di qualche quotidiano o editore interessato a quello che, in effetti, è una specie di reality fatto di vita vera. Non so in che modo potrebbe avverarsi una cosa del genere, ma è stata ed è ancora una fantasticheria che non mi costa niente. Ma probabilmente rimarrà tale, visto che, malgrado abbia cercato di divulgarlo il più possibile fra i media, finora non ha sortito alcun effetto.
    Se poi col tempo e il vostro aiuto, il blog dovesse prendere una qualsiasi altra strada, non sarò certo io a fermarlo.
    Quello che posso garantire è che tutte le storie, le persone, i luoghi e i ricordi che trovate qui, sono indiscutibilmente reali. Quindi è con molto piacere che accetto, finalmente, giudizi e complimenti.

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