Quando aspettavamo il nostro primo figlio, oltre quattordici anni fa, eravamo convinti che non gli avremmo permesso di condizionare la nostra vita più di tanto.
Fino ad allora, si può dire che avevamo condotto un'esistenza quasi privilegiata. Lavoravamo entrambi, lavori più o meno buoni, che ci permettevano qualche viaggetto in luoghi divertenti o, se vogliamo, anche esotici: Formentera, Zanzibar, Cuba, Fuerteventura, Marocco, Santo Domingo, Lanzarote, Ibiza, l'Andalusia. Insomma, direi che per un certo periodo ce la siamo anche goduta. Non è che i viaggi fossero proprio la mia passione, ma per L. sembravano un'esigenza imprescindibile e, in fondo, non posso dire che non piacessero anche a me.
Non credo che in futuro possa mai ripetersi la magia delle prime volte a Formentera, più o meno verso la fine degli anni ottanta. Era un posto paradisiaco, senza calciatori, senza puttanelle, senza i cafoni che oggi invadono in massa questi meravigliosi francobolli di terra al largo di Barcellona. Il turismo era quanto di più eterogeneo si possa immaginare: i soliti tedeschi con la bottiglia di birra in spiaggia, inglesi perennemente ubriachi, reduci dei figli dei fiori che organizzavano concertini a base di Pink Floyd e Jimi Hendrix o mercatini di gioielli in argento e artigianato pop-hippy, nudisti di tutte le razze che spesso si infrattavano fra le dune per approfondire la conoscenza delle rispettive nature, turisti nordici con torme di bambini di tutte le età, qualche industrialotto benestante delle nostre parti.
Era possibile alternare giornate sulla spiaggia bianca e rosa delle Illetes, con via vai di ragazzi e ragazze, e merenderos a bordo spiaggia, ad altre nella tranquillissima e quasi deserta spiaggia di Midjorn a sud dell'isola.
A Cala Sahona, bellissima insenatura a forma di ferro di cavallo, molto gettonata dai tedeschi, ho compreso con mia estrema meraviglia, ciò che dicevano due di loro mentre facevano il bagno vicino a me, rendendoli ai miei occhi più umani di quanto avessi mai pensato. Si dicevano una cosa normalissima, e cioè di quanto fosse bella e trasparente l'acqua. E io che credevo parlassero esclusivamente di come uccidere ebrei o fucilare italiani!
Per poche pesetas si poteva mangiare in locali spartani sulla spiaggia, che però riuscivano a sfornare delle meravigliose cernie in crosta di sale con patate al forno tagliate sottilissime e ricoperte di una specie di besciamella. I ristoranti veri e propri erano poco più che delle casette coloniche con immancabili graticci ricoperti da piante di vite. Potevi mangiare greco, oppure quella che poi, i soliti fighetti, hanno cominciato a chiamare cucina fusion, oppure carne e pesce alla griglia serviti di volta in volta da ex fricchettoni, burrose ragazze tedesche convertite alla cucina greca, ruspanti ragazzi spagnoli o anziani hippies del nord europa.
Stavamo vivendo il nostro nirvana e ne eravamo a stento coscienti. Una situazione che ha rappresentato perfettamente Patti Smith in un'intervista che ho letto di recente. Di lei stessa e Robert Mapplethorpe dice: "La cosa buffa è che allora non ci rendevamo conto di quanto fossimo belli. È una scoperta che ho fatto da poco, riguardando vecchie foto ... - e parlando dei giovani di oggi - Hanno una luminosità che viene dalla loro età, mi affascina. Perché non l'ho capito prima? Ero così spaventata, insicura, da ragazza".
E noi belli lo eravamo davvero, ma non nel senso estetico del termine, ma belli perché pieni di vita, fiduciosi, con tante speranze, aspirazioni e anche un po' di paura. E, come Patti Smith, anche noi stavamo vivendo momenti magici, senza esserne coscienti, come in un lungo sogno.
Sarà che quando la vita fila liscia come l'olio, quando, sempre come dice Patti, "Non avevo così tante persone care morte", tutto sembra che debba essere così, normale, dovuto.
Ma a proposito del non farsi condizionare dalla nascita del primo figlio, era nostra ferma intenzione non rinunciare a quelle che, per noi, erano le uniche vacanze possibili. Il fratello di L. che, nel frattempo era diventato anche il mio miglior amico, sghignazzava e diceva: "Vedrete, altro che Formentera! Saranno cazzi vostri!". E sghignazzava nuovamente, così forte che faceva girare tutti quanti.
Noi, come dei cretini, rispondevamo che, o i figli avrebbero fatto quello che facevamo anche noi, oppure li avremmo mollati alla nonna. Che minchioni!
Comunque siamo stati coerenti e, per un paio d'anni, siamo andati tutti quanti a Formentera. Solo che con un bambino di poco più di un anno non è così facile trascorrere le giornate in spiaggia, scarrozzarlo in macchina a destra e sinistra o girare tutti i ristoranti dell'isola.
I bambini hanno le loro esigenze che invariabilmente non vanno mai d'accordo con i desideri dei genitori.
Imperterriti, appena C. ha avuto tre o quattro anni, siamo passati a Fuerteventura: un'isola torrida, ventosa e selvaggia delle Canarie, al largo delle coste marocchine. Bellissima, natura allo stato puro, sole, acqua e vento, niente altro. Forse un po' troppo per un bambino. Infatti C. si è beccato un piccolo raffreddamento con febbre, tosse, raffreddore. Panico totale! Telefonate al pediatra in Italia, visite in uno di quegli ambulatori in cui fuori, tra l'altro, c'è scritto anche Zahnarzt, che poi sarebbe dentista in tedesco, ma che solo a leggerlo fa paura. Facciamo visitare C. da uno che parla a stento spagnolo, ci prescrive solo un po' di aspirina e dice che è una cosa di cui non preoccuparsi. Quando usciamo leggo l'intestazione sulla ricetta che ci ha lasciato, c'è scritto che è un ginecologo o qualcosa del genere. Siamo giovani, senza esperienza, ci spaventiamo perché C. continua a non stare bene anche dopo qualche giorno. Una sera, mentre fumiamo una sigaretta fuori dal nostro bungalow, vediamo un meteorite bellissimo, grande come un pugno, che lascia una scia di fuoco del quale riusciamo a vedere distintamente le fiamme. Uno spettacolo che ancora mi emoziona, regalatoci però in una situazione di ansia. Al rientro in casa, scopro un enorme scarafaggio, o cucaracha che dir si voglia, che sgambetta allegramente sul pavimento. Lo distruggo a ciabattate, ma il vaso è colmo, ce ne vogliamo tornare a casa per curare C. come si deve, tanto ormai la vacanza è rovinata.
Questa, come aveva previsto mio cognato, fu la fine delle nostre avventure per il mondo. L'anno successivo scegliemmo di trascorrere le ferie in una specie di deprimente agriturismo vicino al mare, in Toscana. Improvvisamente, mi sono sentito ributtare indietro di trent'anni, alle mie vacanze di bambino. L'atmosfera era la stessa e anche gli edifici erano gli stessi, la provincialità, la maleducazione, la cialtroneria, se possibile, ancora peggio. Se non altro, alla fine degli anni sessanta, c'era almeno quella specie di cortesia ipocrita, come quella che usano le bambine quando giocano a prendere il te:
"Gradisce una tazza di te signora Brisby?".
"Oh grazie duchessina Elisabeth, molto volentieri!".
Poi finisce sempre che la signora Brisby strappa i capelli della duchessina Elisabeth o, quanto meno, la spoglia nuda davanti al pupazzo di Winnie the Pooh e tutta l'allegra compagnia dei giochi, ma almeno la forma è salva.
L'anno successivo, quando C. era ormai abbastanza grande per riprovare con qualche luogo più esotico e meno caro dell'Italia, nacque E. Pensammo che a otto mesi, il posto più indicato per portarla in vacanza, sarebbero state le colline delle Langhe piemontesi, dove il solito direttore aveva una bellissima casa di campagna che ci avrebbe ceduto (a pagamento) per tutto il mese di luglio. E qui facemmo l'errore più grande della nostra vita, ovvero ci portammo anche mia madre e mia nonna.
Mia nonna, perché erano anni che non si muoveva di casa e mi faceva pena; mia madre, perché pensavo che con due bambini piccoli sarebbe stata utile per darci una mano, come in fondo mi pare facciano la maggior parte dei nonni, e per ultimo, perché di nonni non ce n'erano altri.
Finì che passammo un mese a servirle, preparare da mangiare per tutti quanti e ascoltare le continue lamentele di mia madre:
"Questo posto è così isolato che mi sembra di stare in galera".
"È pieno di insetti!".
"La sera è così buio che potrebbero ucciderci tutti senza che nessuno se ne accorga!".
"Non posso nemmeno fare una passeggiata perché i sentieri sono troppo ripidi!".
"Mangiamo sempre le stesse cose e non posso neanche vedere un paese perché a fare la spesa ci andate sempre tu e tua moglie (e meno male, altrimenti mi tocca sentirti anche in quell'ora scarsa!)".
"Fa troppo caldo!".
"In questa casa bisogna salire e scendere le scale un sacco di volte!".
Insomma non ne potevamo più. Confesso che quando le ho riaccompagnate a casa (ho dovuto fare avanti e indietro per due volte perché in sei in auto non ci stavamo), oltre a litigare per tutto il viaggio, ho preso le curve nel peggior modo possibile nella speranza di farle almeno vomitare, ma malgrado si lamentassero continuamente per la nausea e se potevo guidare un po' meglio, non ci sono riuscito.
Adesso sono anni che andiamo in vacanza nelle Marche, un posto abbastanza tranquillo se non si considerano i fine settimana, ma che non ha nulla a che fare con la natura selvaggia, severa e bellissima di Fuerteventura o dell'Andalusia. E quello che più mi scoccia è che spendiamo infinitamente di più.
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