venerdì 31 dicembre 2010

Idiosincrasie

In questo periodo in cui le liste, che paiono essere state inventante da Fazio e Saviano ma che, come ha raccontato Umberto Eco nel 2009, erano già molto popolari nel medioevo, riscuotono un così grande successo anche tra le riviste che scimmiottano ogni cosa, anch’io, come ho già fatto diverse volte in passato, consegno la mia lista di fine anno. 
È costituita dalle parole, e anche dai nomi, che non vorrei più risentire nel 2011, ma che di sicuro mi toccherà risentire ancora infinite volte. 
Diciamo che più che una speranza è un grido di nausea, di desolante protesta, di totale rifiuto per ciò che siamo diventati, che ci hanno fatto diventare, che ci hanno costretto ad essere.

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mercoledì 29 dicembre 2010

Mah...

Non è il momento di tirare le somme, e tanto meno ne ho l’intenzione. Sta di fatto però che è passato quasi un anno dal rovescio lavorativo e di nuove propettive non ne vedo nemmeno l’ombra. 
Un anno di blog, migliaia di mail per la ricerca di nuovi clienti, telefonate in ogni parte d’Italia, decine di preventivi finiti prima ancora di cominciare, colloqui inutili in partenza, un discreto aumento della pressione sanguigna sia mia che di mia moglie. 
Un anno vissuto con periodi di incosciente felicità famigliare, misti ad altri fatti del più profondo pessimismo cosmico.
La crisi è nera, non c’è dubbio, ma la grafica esiste ancora, i giornali, specialmente di settore, non prosperano è vero, ma ci avete fatto caso a quante migliaia di testate specialistiche esistono in italia? Dall’organo dei produttori di fischietti per arbitri, al giornale di categoria dei pescatori di frodo, ogni realtà, anche minima, ha la sua rappresentazione cartacea, eppure non siamo riusciti a spuntare nemmeno uno schifo di lavoro. 
O meglio, solo un catalogo al quale ho lavorato oltre due mesi e qualche piccola brochure per una testata regionale che, in tutto, hanno fruttato quattromila euro lordi scarsi.
Così non è possibile vivere, e non è possibile nemmeno contare sulla pensione di mia madre che, in cambio, vorrebbe l’anima e chissà cos’altro.
Questo blog mi ha aiutato a sfogare la rabbia e il pessimismo dei primi momenti, a condividere speranze poi svanite, velleità sfumate e mali comuni, ma ora mi sembra solo un esercizio inutile e autoreferenziale. Non lo abbandonerò, perché sono un testardo e ho deciso che oltre alla discesa dovrà raccontare, prima o poi, la risalita, per far comprendere ai miei figli che pure le cose brutte devono avere una fine, anche se, a differenza del bel libro di Holiday Hall, in questo caso la fine (non) è nota.

lunedì 27 dicembre 2010

Veterani del natale

Sopravvivere al natale non è facile. Credo sia uno dei rischi che prendiamo più a cuor leggero, forse perché non ci rendiamo conto dei pericoli insiti nelle lucine colorate, nelle barbe finte da babbo natale e i pranzi no limits.
Ma sono sopravvissuto anche a questo. Posso dirlo con l’orgoglio di un veterano che, da quindici anni, combatte contro il sonno, la bulimia, i costumi da babbo natale di carta-stoffa, le barbe finte che prudono in modo insopportabile, i giochi da montare, i biscotti da mangiare, le tazze di latte da bere, gli ho, ho, ho controvoglia. Meriterei almeno tre stellette e un lungo congedo illimitato conquistato duramente a suon di vigilie con i suoceri e natali con i miei e viceversa.
Non mi sono mai tirato indietro; ho giocato sfiancanti partite all’ultimo sangue di mercante in fiera, tra mio cognato che vuole vincere la posta a tutti i costi per rientrare dei soldi della benzina consumata per raggiungere i suoceri, o del panettone che, suo malgrado, ha dovuto portare, e mio genero che affronta qualsiasi gioco di carte come un texas hold’em da due milioni di dollari.
Sono sopravvissuto, non senza conseguenze, ai pranzi di mia suocera e, in particolare, ai suoi famigerati “ravioli fatti a mano” che parevano fatti di malta bastarda e ripieni di nervetti. Ho ingollato brodi color arancione che parevano umori di cadaveri umani, mi sono rotto i denti con torroni di cemento bianco, ho sopportato gli infiniti capricci di nipoti antipatici e ululanti come sirene da nebbia.
Solo la morte di mio padre prima, e mia suocera poi, pace all’anima loro, ha interrotto questa giostra perversa, questo girone dei dannati del natale che non riuscivo a far diventare mio, della mia famiglia.
Oggi lo vivo con maggiore tranquillità, ma sempre con la palla al piede di una madre che devo invitare malgrado tutto e che sembra faccia apposta a farmi impazzire per dodici ore di seguito. È affetta dai normali acciacchi dell’età, ma in condizioni di salute generali più che buone, eppure, come una ragazzina viziata, vuole sempre essere al centro dell’attenzione. Quindi, come e peggio di una principessa sul pisello attempata e patetica, dice che la bella sedia in legno anatomica e con braccioli che le ho riservato non va bene, “mi fa tirare tutto il nervo della gamba”, quelle imbottite stile diner americano della cucina, andavano bene fino all’anno scorso: “sono le uniche sedie dove mi sento davvero comoda”, ma quest’anno non più. Chissà per quale motivo le procurano mal di schiena. Ho provato con la sedia rossa del mio studio ma non andava bene nemmeno quella, allora, come ultima speranza, le ho fatto provare quella che uso per lavorare al computer: una mediocre sedia dell’ikea, una di quelle con il pistone a gas che le fa salire e scendere. Pare che per quest’anno sia di suo gradimento, a differenza del divano che, a suo dire, ha la seduta troppo profonda e le dà fastidio alle gambe.
Risolto il problema della sedia, ecco che cominciano quelli legati al pranzo natalizio. Per non disturbarla troppo (ma una volta non erano le nonne che amavano esibire la loro abilità culinaria proprio in queste occasioni?), mia moglie le ha chiesto di cucinare solo il brodo per i ravioli. Una preparazione che ha richiesto almeno una settimana di studi, esperimenti, piani strategici su quale potesse essere il negozio migliore per comprare la carne e, soprattutto, di quali animali. Gallina vecchia fa buon brodo, questo lo sanno anche i muri, ma però, secondo me, puzza di morto. Avrei preferito il pollo ma, a detta di mia madre, la gallina è meno grassa!? E allora mettici la gallina. Poi è subentrato il conciliabolo se mettere subito tutte le carni a bollire, oppure buttarle in pentola secondo il loro tempo di cottura. A questo punto, mia moglie che stava per impazzire, le ha detto di cucinarlo come voleva, male che vada, possiamo sempre condire i ravioli con olio e grana, o la passata di pomodoro. Sono d’accordo con lei, la salute mentale è più importante di un piatto di ravioli in brodo.
Altra prova che ci tocca superare ogni anno è quella sulla qualità del cibo. A caval donato non si guarda in bocca, ma mia madre non riesce a fare a meno di criticare qualunque cosa, anche la più raffinata prelibatezza nasconde immancabilmente qualche difetto. Quindi: gli antipasti erano salati, il formaggio acquistato nelle marche questa estate, che ho ribattezzato “ciao sono io” per la pungente personalità del suo profumo simile all’odore di piedi di un maratoneta, era naturalmente troppo nauseante per il suo fine odorato, i ravioli artigianali del plin, “abbastanza buoni”, il polpettone un po’ troppo asciutto, e poi non ci vanno mica i wurstel, dimenticando che abbiamo impostato il pranzo in modo che potesse essere a misura anche dai nostri figli.
Pare aver apprezzato solo una specie di panettone artigianale siciliano che ci ha regalato la madre di un compagno di scuola di E. Ma ho il sospetto che l’abbia gradito solo perché era l’unica cosa non comprata o cucinata da noi.
Ma questo è ancora sopportabile per chi la conosce. La vera tortura comincia con i giochi da tavolo. Naturalmente lei odia e disprezza la tombola o mercante in fiera perché li giudica “giochi d’azzardo” che diseducano i ragazzi al valore dei soldi. Abbiamo ripiegato sul Monopoli, un classico dalle regole semplici e il divertimento assicurato. Ma non per noi. Mia madre non compra nessuna proprietà, non le scambia e non le vende. Ci si attacca come se fosse una questione di vita o di morte e, prima di pagare l'affitto a un altro giocatore, vuole vedere e rivedere il valore dei terreni e degli immobili. Malfidente e taccagna si separa dai soldi finti del monopoli come fossero fruscianti biglietti appena usciti dalla zecca italiana con i quali fare la spesa. Non rispetta mai il suo turno e continua a confondere gli altri giocatori tirando e ritirando i dadi e spostandosi utilizzando i segnaposti degli altri. Continua a propinare consigli sul risparmio e la morigeratezza, dimenticando che vince chi è più spregiudicato e senza scrupoli. Non costruisce mai case sulle sue proprietà perché “costano troppo”, ogni volta che passa per il via si meraviglia che la paghino chiedendo: “ma non è che ci devi capitare esattamente sopra? Basta anche che ci passi solamente?”. Che è una domanda perfettamente lecita, ma ripetuta ad ogni giro del tabellone, può anche portare alla pazzia.
Ma, per fortuna, anche questo natale è passato.

venerdì 24 dicembre 2010

La solita fregatura quotidiana

Dopo oltre due mesi di lavoro il catalogo è andato in stampa.
Non che me ne freghi molto; in questo momento tutto il mio essere è teso esclusivamente alla sterile lotta per la sopravvivenza. E, proprio per questo, l’infinito balletto sulla cifra da fatturare che, proprio oggi, si è ridotta a duemilatrecento euro lordi (netti saranno forse millecinquecento), mi ha lasciato sfinito.
La delusione maggiore in questa faccenda è l’aver scoperto il miserabile gioco con cui il direttore mi ha defraudato di ciò che sarebbe stato mio di diritto. È duro da accettare, proprio perché mi sono sempre fidato di lui come ci si fida di un vecchio zio, di una persona che ha visto crescere i tuoi figli, come io ho visto diventare grande la sua.
Capire di essere stati usati nel momento in cui si è cercata una mano tesa, un salvagente nel mare in tempesta, una faccia amica, non è mai piacevole.
Tutto comincia con la proposta a un importante editore, di cui l’ex direttore è consulente esterno, di un progetto come, per esempio, questo catalogo.
Verrà quindi firmato un contratto, nel quale è contemplato il compenso per il direttore che si occuperà, in piena autonomia, della realizzazione del lavoro pronto per andare in stampa.
Qui entro in gioco io che, come in un subappalto della Salerno-Reggio Calabria, mi occupo di fare quello per cui viene pagato l’ex direttore. Come in un normale subappalto, dovrebbe stornare parte del compenso per pagare le mie prestazioni. Invece, essendo ligure, gli è difficile accettare una cosa del genere ed ecco che allora inventa prestazioni non comprese nel contratto, cercando di addebitarle ora al cliente, ora all’editore.
Infatti come si spiegherebbe altrimenti che ho fatturato direttamente all’editore, scrivendo, su disposizione dell’ex direttore, “elaborazioni e produzioni fotografiche per...”. Allora chi è stato pagato per l’impaginazione?
Ciliegina sulla torta, l’editore non accetta fatture pro forma, che emetto da vari anni per non dover anticipare costantemente l’iva. Quindi mi tocca datarla 3 gennaio e incassarla, se tutto va bene, a fine marzo 2011. Non c’è che dire, proprio un affare.
Non importa, è natale, e io, come uno stupido scolaretto, ho lo stomaco allegramente sottosopra, aspettandomi chissà cosa. Mi basterebbe che babbo natale portasse un po’ di lavoro, quel tanto che basta per sopravvivere dignitosamente, ma ormai lo sanno tutti che babbo natale non esiste.
Auguri a tutti voi.

mercoledì 22 dicembre 2010

Fanculo a tutti!

Ci siamo, ormai natale è alle porte. Oggi è l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie e, come un’amara beffa, anche il giorno che, con ogni probabilità, vedrà approvata quella riforma della scuola che sarebbe legittimo, quella sì, definire criminale.
Invece, secondo il gorverno, i criminali chi sarebbero? Gli studenti, i precari, i disoccupati, i terremotati, i sommersi dall’immondizia che hanno la sfacciataggine di scendere in piazza a dimostrare la speranza di un futuro che appare nero come il petrolio anche a chi, come me, ha intorno ai cinquant’anni.
È notizia di ieri, ma nota da tempo e, la fonte (Bankitalia), più che autorevole. Il 45 per cento della ricchezza in Italia è in mano al 10 per cento delle famiglie, con una disparità degna dei peggiori esponenti mondiali del cosiddetto capitalismo. E, cosa ancor più grave, è che i figli occuperanno nella stragrande maggioranza dei casi, la medesima posizione dei genitori; chi è di famiglia ricca si arricchirà sempre più, mentre chi è nato povero, con ogni probabilità rimarrà tale. 
Con buona pace del buon Gustavo Zagrebelsky che insiste convinto nell’affermare che non esistono caste in italia, ma giri: di amicizia, di interessi politici, economici eccetera.
So che una delle leggi fondamentali dell’economia che ogni grande imprenditore italiano ha sempre tacitamente seguito è questa. Ogni industriale ha sempre interesse, anche a scapito di una quota di profitto, di far sì che esista sempre una certa percentuale x di disoccupazione, perché questo gli fornisce un enorme potere contrattuale sui lavoratori.
Facile capire allora perché un fascista, capogruppo del partito di maggioranza che ha espresso un presidente del consiglio che altro non fa se non scopare di notte e dormire di giorno, come il peggiore degli studenti che tanto ama bacchettare, non trovi di meglio da dire ai genitori di tenere a casa i figli, giacché, nei cortei, è nota la presenza di potenziali assassini. Già, proprio come in 1984 di Orwell.
Varrebbe la pena, credo, tenersi sempre appuntate sulla scrivania, queste poche righe del, fortunatamente, scomparso ex presidente della repubblica e grande insabbiatore, Francesco Cossiga. Sono virgolettate perché sono le sue esatte parole:

"Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano".

E allora, caro Saviano, di fronte a gente che ragiona così, a che serve la tua democrazia, la tua civiltà, il tuo predicare dal calduccio di un nascondiglio protetto e sicuro? Prima di fare la morale ai giovani bisogna mettersi sul loro stesso piano, scendere in piazza in mezzo a loro, prendere le manganellate dalle "forze dell'ordine", che saranno anche composte in maggioranza da giovani in cerca di un lavoro malpagato e pericoloso, ma non per questo sono autorizzate ad un uso della forza sproporzionato e fascista.
Non posso che augurarmi una impossibile e utopistica rivoluzione alla francese, ma ormai lo sfascio è totale, la corruzione dilagante, siamo al “si salvi chi può”. Appunto, chi può. E chi non può che fa?
Buon natale.

lunedì 20 dicembre 2010

L'invito della domenica

Domenica siamo stati invitati a pranzo dal “lungo”, con cui, insieme al “corto”, rappresentavamo l’incarnazione vivente della famosa canzone dello Zecchino d’Oro: Il lungo, il corto e il pacioccone.
Siamo stati amici per oltre trent’anni. A presentarci fu il “corto”, suo compagno di scuola e mio amico d’infanzia.
Ricordo ancora la volta che mi disse: “Voglio farti conoscere questo tipo; uno un po’ strano ma simpatico”. E l’amico si presentò un pomeriggio in sella a un caballero regolarità elaborato che filava come il vento. Lo guidava come fosse una Bentley da collezione, senza esibirsi in nessuna delle cazzate che si fanno quando si ha tra le mani un motorino. Guidava pulito, preciso, essenziale e questo mi è subito piaciuto.
Intenderci è stato naturale e immediato, mi sentivo spesso più affine a lui che al “corto”, che pure conoscevo da molto più tempo. L’unico difetto che aveva era quello di essere un po’ troppo svagato e distratto e, in particolare, l’essere succube assoluto di ogni ragazza. E chissà perché, forse per la sua aria svagata, o l’apparente mancanza di atteggiamenti maschilisti che spesso si accompagnano all’adolescenza, di ragazze ne ha avute parecchie.
L’amicizia si è spezzata a causa di tante piccole cose che mi ero stufato di sopportare. Presentarsi a mani vuote ogni volta che lo invitavo a pranzo o cena, salutare la nascita dei miei figli senza nemmeno un pensiero da poche lire, essere schiavo della propria taccagneria e mascherarla con la distrazione o la svagatezza, fino al tempestarmi di telefonate per venirci a trovare in vacanza e, dopo essere arrivato la sera prima in camper, scappare come un ladro la mattina dopo senza nemmeno aver preso un caffè insieme, accampando scuse inconsistenti e stravaganti per mascherare i capricci della moglie.
Da quella volta è passato un bel po’ di tempo, fino a quando, come niente fosse, chiama per una delle rare uscite serali. Gli dico chiaro e tondo che ci sono rimasto molto male, ma se il “lungo” ha un pregio, è che è impossibile litigarci. Però deve aver capito perché non l’ho più sentito per un anno intero.
E così arriviamo a venerdì scorso, quando ci invita a pranzo. Penso che, dopo aver provato sulla mia pelle quanto sia meschino essere cancellati dai parenti per sgarbi mai commessi, sia un modo per chiederci scusa, per farsi perdonare, per riallacciare un rapporto di amicizia.
Accetto, compro qualcosa da portare e ci metto anche uno dei miei poster numerati. Non lo faccio per umiliarlo, faccio solo ciò che mi è stato insegnato e che la mia educazione mi sussurra. Tanto so che non riuscirebbe a comprendere il senso di una cosa del genere. E, come tutte le volte che voglio fidarmi, che accordo fiducia, rimango nuovamente fregato. Al nostro arrivo c’è già un’altra coppia con figlio piccolo e, in seguito, si aggiungerà anche la sorella della moglie.
Potrò essere anche uno snob demodè, ma credo sia doveroso avvertire gli ospiti di quali saranno gli eventuali altri invitati e non, invece, trovarseli davanti a sorpresa, come se fosse un party organizzato da qualche organizzazione umanitaria aperto a chiuque si trovi a passare di lì. Tra l’altro, conosco di vista l’altra coppia e mi è sempre stata moderatamente sul cazzo.
Pazienza, mi sorbisco quattro ore di cazzate e di cafonerie varie, faccio buon viso a cattivo gioco e cerco pure di essere simpatico, ma questa è proprio l’ultima volta, sono stufo di farmi prendere per il culo: dagli amici, dal lavoro e dalla vita.

venerdì 17 dicembre 2010

Auguri

Come il telo che una mano pietosa stende ipocritamente sui cadaveri, questa mattina anche Milano, per l’ennesima volta, è avvolta da un sudicio lenzuolino bianco. Una coperta da quattro soldi, troppo corta per coprire anche la tristezza.
Chiuso, forse, il catalogo, mi ritrovo a buttare il mio tempo pensando a qualcosa da fare. Gli auguri, pochi, li ho spediti via mail ieri e, quasi tutti, hanno già risposto.
Gli anni scorsi, questa degli auguri, era un’incombenza, quasi un dovere verso clienti, conoscenti e parenti. Quest’anno mi sento come gli zingari che suonano il violino sulla metro. Una scocciante interruzione alle attività altrui. Un seccatore che approfitta degli auguri per elemosinare un po’ di lavoro, per ricordare a chi sta cenando al calduccio del ristorante all’ultima moda, che fuori, a spiarli dalla vetrina, c’è sempre un barbone che chiede, invidia, che reclama la sua fetta di torta.

giovedì 16 dicembre 2010

Manager del cazzo!

È una giornata bellissima, tersa, luminosa. È un po’ una fregatura perché stana la sporcizia dagli angoli di casa che l’eterno crepuscolo dei giorni scorsi nascondeva così bene. È come la fiamma dell’onestà che illumina lo sporco dell’anima. Ma, a differenza degli angoli del nostro appartamento, la mia anima, o meglio, da buon ateo dovrei dire la mia coscienza, è pulita come un A4 extra strong.
Almeno sono soddisfatto di aver mandato in tipografia la rivista-catalogo. 
Dopo oltre due mesi di lavorazione non posso che considerare che, quale che sarà il mio compenso, avrò lavorato in perdita. Ma non importa, lo si fa per restare nel giro, per far vedere che si esiste ancora. Ma a chi? Mi sembra incredibile che sia passato quasi un anno senza combinare praticamente niente. Speravo in un cambio di rotta politico che invece non c’è stato, sento tutti che dicono, compresi gli operatori di Casa Moratti (una storia che racconterò un’altra volta), che tutto è immobile in attesa di un cambio radicale, che nessun imprenditore serio osa muovere più un dito e, intanto, quelli come me muoiono lentamente, giorno per giorno, consumando quelle poche scintille di dignità ed entusiasmo rimaste. Ecco la cosa che più mi fa rabbia e paura: perdere, giorno per giorno, l’entusiasmo, la voglia di fare, la stima di me stesso.
Poi penso a questi manager con cui abbiamo lavorato per impaginare il catalogo. In teoria uno strumento per incrementare le vendite natalizie, in pratica, un inutile sperpero di denaro, perché ormai non potrà più essere stampato prima della fine dell’anno, quando i giochi sono fatti.
Eppure il tempo ci sarebbe stato eccome. È dai primi giorni di ottobre che ci lavorariamo sopra e avremmo potuto chiudere agevolmente entro la fine del mese. Perché non è stato possibile? Perché per ogni pagina sono state realizzate almeno dieci bozze con continui cambi di prodotti, di immagini, di testi, ognuno dei quali ha richiesto ogni volta almeno una settimana lavorativa affinché il mezzo manager, il grande manager e, infine, il capo dei capi, ponderassero le loro decisioni. Ognuno a delimitare l’orticello del proprio potere, ognuno a pisciare sull’alberello per difendere il proprio territorio. Ognuno che ha pensato ai cazzi suoi e nessuno che abbia pensato agli interessi dell’azienda. Magari parlerò anche per invidia, che ne so, ma questa gente non è onesta, non è corretta, non è competente, e però si porta a casa stipendi di tutto rispetto, mentre io non porto a casa un emerito niente, e questo mi fa molto incazzare.

mercoledì 15 dicembre 2010

Ipocondria

Non so cos’abbia preso a mia moglie. No, sto mentendo, invece lo so. È colpa della sua passione. Ma passione non è la parola giusta; mania? Forse. O meglio ancora, un’ipocondriaca, maniacale passione per la medicina e, in modo particolare, per le malattie.
Mia nonna, che pure ha vissuto tanto a lungo da dimenticarsene, non l’ho mai sentita parlare così frequentemente e febbrilmente di malattie proprie o altrui.
Ormai è un’appuntamento fisso della giornata. Qualunque giornata.
Un’orrida lista che si srotola di prima mattina, durante la colazione, quando inizia a parlare delle malattie o i by-pass dei vicini di casa. Naturalmente, segue il bollettino dei suoi malesseri quotidiani: mi fa male il piede, non riesco nemmeno a camminare, ho dormito male, sono rimasta sveglia dalle due alle sei, ho mal di gola, mangio ma non ingrasso, mi fa male la schiena, non ci vedo più, ho tutto il lato sinistro che non funziona bene, mi fa male un dente, devo andare a farmi vedere questo neo, mi si sono gonfiate le ghiandole sul collo, non riesco a piegare il ginocchio, mi si è gonfiata una mano, devo farmi togliere questi fastidiosi porretti, sarà più di un anno che non faccio un esame del sangue, mi gira la testa, ho avuto il raffreddore per tutta la notte, mi fa male la pancia, ho fatto troppa cacca, non riesco a fare la cacca, ho un fungo sull’unghia del mignolo, mi sono fatta male buttando la pattumiera nei cassonetti, ho sempre mal di testa, sento un’oppressione sul petto, ho la pressione alta, mi sento stanca e via di seguito. Queste e altre rarissime e misteriose malattie o sintomi sconosciuti ma tutti premonitori di terribili gravissime e incurabili malattie, si susseguono a rotazione ogni giorno dell’anno da così tanto tempo che non ricordo più se mai è esistita una volta in cui mia moglie abbia detto: “Oggi mi sento proprio bene!”.
Naturalmente, per svariate volte durante la giornata, ci sono gli aggiornamenti, ovvero le malattie che hanno colpito persone che conosciamo anche vagamente di vista.
La mamma della tal compagna di E. si è ammalata di cancro, sembrava fosse finita e invece pare che si riprenda, anche se è gonfia come un materassino. L’ex insegnante di C. ha rischiato di morire per un aneurisma o qualcosa del genere. Pensa che aveva già fatto più di una tac e altri esami e non si erano accorti di niente. L’hanno presa per i capelli. L’avevo detto che G (un nostro vicino di casa) aveva il cancro. Quando cominciano a indossare, estate e inverno, quegli insulsi berrettini da baseball significa che stanno facendo la chemio e si vergognano a farsi vedere pelati. Ma lo sai che ieri mattina si è bloccata la metro perché a uno è venuto un infarto? Pensa che la mamma di E. stava pulendo il bagno quando è scivolata e ha battuto la faccia sul rubinetto della vasca da bagno. Era una maschera di sangue, non so quanti punti hanno dovuto darle! Sì, sai, la mamma di quella bambina che è nata senza tiroide. C’è poi quell’altro bambino che ha la sclerosi e non riesce più ad andare a scuola ma è costretto a seguire le lezioni da casa con internet. Sua madre mi ha detto che non durerà ancora per molto, forse due o tre anni, ma non c’è proprio da sperare. Hai sentito M? ha avuto dei problemi. Secondo me deve esserle venuto qualcosa di brutto, perché è un bel po’ di tempo che non si fa sentire. Sai, in fondo L. è anche così, un po’ strafottente, come reazione alla morte del papà. Erano molto legati e gli è venuto un colpo all’improvviso, capirai. Ma lo sai che ho incontrato A. e si è rotto di nuovo una mano? Sì, sì, è la mamma di quella che aiuta il maestro di karate, mi sa che ha un cancro, e pensare che era una così attiva, e non avrà neanche sessant’anni. Ho sentito A., mi ha detto che al lavoro da lei se ne stanno andando come birilli, tutti di brutte malattie. Ma ti ricordi di M.? Quella che lavorava alla Rusconi? Pensa che era andata finalmente in pensione, e un giorno, mentre puliva le finestre di casa è caduta di sotto ed è morta.
Pare impossibile, ma ogni giorno accade qualcosa di veramente terribile a qualcuno. Fatti che raccontano conoscenti, amici, amici di amici, conoscenti che hanno sentito dire che quella persona che abbiamo visto di sfuggita non so quanti anni fa è stata affetta da qualcosa di quanto meno curioso.
Eppure mia moglie non ha nemmeno cinquant’anni e, malgrado tutto, è in buona salute, ma invece di spendere il suo tempo godendosi la vita, non trova di meglio da fare che spaventare se stessa con le disgrazie altrui.

martedì 14 dicembre 2010

L'umana vanità

Non ne avevo parlato fino ad oggi per una sorta di imbarazzante scaramanzia.
Io stesso mi sorprendo in atteggiamenti che non mi appartengono, ma le delusioni sono tali e tante che uno alla fine le prova tutte.
Insomma, da quando con mia moglie abbiamo rispolverato la voglia, o il bisogno di fare qualcosa di artistico e di cimentarci nuovamente con ciò che ci aveva accompagnato per tutti gli anni del liceo, in modo da aprire maggiormente il ventaglio di potenziali possibilità lavorative, non era ancora successo alcunché di eclatante. Sì, qualche pubblicazione su siti e blog sull’arte, una mostra collettiva di un paio di giorni, ma niente di concreto, nulla di economicamente rilevante.
Fino a qualche giorno fa quando, una galleria, fra le centinaia che abbiamo contattato via mail, si fa sentire per telefono. È di Torino, zona centrale, la curatrice si definisce interessata al nostro lavoro e vorrebbe vedere e toccare i nostri lavori di persona.
Cazzo! La fantasia comincia a galoppare verso mostre personali, quotazioni, richieste, e la realizzazione di un sogno: vivere grazie alla passione di fare ciò che più desideriamo. Non abbiamo grandi ambizioni, ci basterebbe fare gli artisti da “mezza classifica”, quelli quotati quel tanto che basta per vivere senza problemi, senza le rotture di scatole della notorietà. È un film, è la fantasia, e sognare, per ora, non costa nulla. Credo che ognuno covi il proprio sogno, più o meno megalomane, e credo sia giusto che ognuno continui a coltivarlo, a sperare che un giorno, prima o poi, possa avverarsi.
Soldi non ce ne sono, ma intraprendiamo comunque questa trasferta torinese carichi di tele e sculture. Non torniamo a Torino da più di vent’anni; dai tempi di una gita organizzata dal dopolavoro della rai. L’impressione è quella di una periferia degradata a ridosso del centro. Vialoni larghi, lunghi e malinconici anche nel basso sole invernale, tanti barboni che, a Milano, probabilmente siamo stati più bravi a nascondere sotto il tappeto. Mi spiazzano questi viali che si incrociano ad angolo retto, la loro larghezza, sproporzionata alle dimensioni di una città che appare caotica e allo stesso tempo cortese. Sarà la suggestione, ma sembra davvero di respirare un’aria da ancien régime. Le bottegucce di esoterismo si mischiano alle panetterie che espongono in vetrina fasci di grissini. L’impressione è che ci siano ancora tante “botteghe”, un microcosmo variegato e vivo che Milano ha ormai dimenticato, ma anche una vena di tristezza, un freddo apparente, forse per le montagne coperte di neve che incombono dagli squarci tra le case.
Suoniamo alla galleria che sta in un bel palazzo d’epoca. La curatrice è una signora sui sessanta, elegante, i capelli grigi non tinti tagliati a caschetto lungo. Ci fa accomodare e, dopo le solite cazzate per rompere il ghiaccio, cominciamo a mostrare i lavori. Comincio con una serie di stampe digitali con interventi manuali vari. È roba un po’ forte e mi rendo conto che invece di rompere il ghiaccio ho srotolato sul tavolo un vero e proprio iceberg. Riarrotolo di gran carriera, mentre mia moglie estrae le sue tele. La signora mi pare indifferente, come se non le importasse nulla di ciò che le stiamo mostrando e aspettasse invece di vedere quello a cui è davvero interessata. Infatti quando le mostriamo i robot in materiali riciclati si rianima, li dispone sul pavimento per osservarli meglio.
Dice che da anni organizzano una rassegna artistica in una località ligure e che sarebbe interessata a esporre i robot. Dato che però ci sono delle spese da affrontare (movimentazione delle opere, catalogo, manifesti, ufficio stampa, eccetera) ad ogni artista selezionato devono richiedere un contributo di trecento euro.
Eccola là, che devo dire? Che il novantanove per cento degli italiani che si reputano artisti pagano e pagherebbero qualsiasi cifra per una misera mostra? Che dovrei fare la fine dei tanti sedicenti scrittori che pubblicano le loro impareggiabili opere a proprie spese?
No, proprio non mi va di fare quello che è andato per suonare e che finisce per essere suonato. Dico che sono molto lusingato dall’offerta e che una delle opere sia stata così gradita, ma per ora ci siamo già esposti economicamente per la realizzazione dei lavori e non ce la sentiamo di esporci ulteriormente.
Sembra delusa, e meravigliata. Probabilmente sono in pochi a rifiutare la possibilià di esibire il loro narcisismo dietro il pagamento di una cifra nemmeno così esosa. Confesso che se non navigassi in acque così torbide e profonde un pensierino ce l’avrei anche fatto. Ma la ragione di fondo è che nella mia vita non ho mai comprato né il diritto al lavoro, né la possibilità di essere ciò che non sono. Tutto quello che è stato, che ho fatto, che ho guadagnato, che sono diventato, è stata una strada in salita, nessuno mi ha dato spinte, nessuno mi ha permesso di attaccarmi al suo carro, nessuno mi ha mai offerto un sorso d’acqua.
In un mondo come il nostro è da stupidi comportarsi così, lo so, ma non voglio e mai vorrò vedere il mio nome su una di quelle patetiche cartoline in cui pseudo artisti si incensano inanellando partecipazioni a mostre misconosciute e critiche da parte di insigni cialtroni.

venerdì 10 dicembre 2010

Rassegnazione o accettazione?

Non è che mi faccia piacere parlare sempre della dottoressa Kübler Ross e le cinque fasi di elaborazione del lutto e dei traumi psicologici, ma è solo per dire che mi sento più che mai nella quinta fase, ovvero quella della rassegnazione.
In effetti il termine esatto riportato su wikipedia sarebbe “accettazione”, ma sento che, per quanto mi riguarda, è molto più adatto rassegnazione.
Accettazione è una parola che non mi è mai piaciuta. Non potrò mai accettare, per esempio, la morte dei miei cari, ma rassegnarmi alla loro mancanza. Posso rassegnarmi al fatto di essere stato rovinato da un piccolo ometto presuntuoso, ma non lo accetterò mai fintanto che il mio cervello non sarà assalito da qualche malattia degenerativa che possa impedirmi di ricordarlo.
Le parole sono importanti e tra accettazione e rassegnazione passa una bella differenza. Per questo posso rassegnarmi ai rovesci della vita, ma non significa che li debba accettare.
È un po’ come accettare il fatto di arrivare sempre troppo presto o troppo tardi alle occasioni che la vita riserva. Posso rassegnarmi, ma accettare è un termine che implica un obbligo: o accetti oppure no, o mangi la minestra o salti la finestra.
Per esempio, nel 1968 ero solo in prima elementare, e quindi non ho avuto nemmeno la lontanissima percezione che il mondo stava cambiando. Quell’estate ero in colonia a Pinarella di Cervia e cantilenavo assieme ai compagni quella che sembrava una stupida filastrocca: “Lu-ce, svo-bo-da, lu-ce, svo-bo-da” senza avere la minima idea di cosa potesse significare. Anni dopo ho capito che Luce stava per Dubcek, e svoboda il cognome di Ludvik Svoboda. Era probabilmente una conseguenza della cosiddetta primavera di Praga, durata un refolo di vento; il 21 agosto i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia, schiacciando quella breve illusione di libertà.
E io cosa ne sapevo? Un emerito niente. Solo una cantilena che avrò sentito in qualche telegiornale. Troppo in anticipo sui tempi, ho vissuto nella mia bambinaggine un momento così importante.
I Beatles si sciolsero più o meno nel 1970, me li hanno scippati a otto anni mentre muovevo i primi passi nella musica "seria". Quando al liceo ho acciuffato per i capelli gli ultimi scampoli del progressive rock, già stava arrivando il punk e l’elettronica degli anni ‘80. Anche questa volta, troppo giovane per essere un hippy o un figlio dei fiori.
Potevo fare l’indiano metropolitano, o buttarmi nella sinistra extraparlamentare ma, gli anni di piombo, mi hanno sorpreso quattordicenne e, onestamente, le manifestazioni di quei tempi mi facevano cagare sotto. Preferivo prendere le cose di striscio, leccare le briciole, andare ai concerti, cazzeggiare al Macondo, ma ero troppo vigliacco, o troppo giovane, per rischiare le manganellate, o partire per l’India in cerca di non so cosa. Altra occasione in cui sono stato maledettamente in anticipo sui tempi.
Mi sono invece sentito in ritardo quando ho cominciato a lavorare in un mondo, quello della comunicazione, che, appena qualche anno prima, vedevo come un lontano miraggio. 
Non è stato facile: tanta fatica, tanta gavetta, tante umiliazioni e frustrazioni. Ma alla fine ci sono riuscito, complice un periodo squallido culturalmente, ma in cui giravano tanti soldi. Milano era la città da bere, Craxi il suo padrone e c’era una specie di frenesia, di elettricità, di eccitazione che ci faceva correre come burattini impazziti.
È durato una decina d’anni. Troppo poco per permettermi di affermare la mia personalità, per consolidare la situazione lavorativa.
Poi è arrivata tangentopoli e la crisi finanziaria, la prima guerra del golfo e le difficoltà di rimanere a galla dopo aver appena imparato a nuotare.
In questo caso non si è trattato di anticipo, ma di ritardo. Come diceva Jannacci, se me lo dicevi prima... se solo arrivavi prima...
Oggi non so se devo parlare di anticipi o ritardi, di combinazioni, di sfiga, di karma o, più semplicemente, dare dello stronzo a me stesso.
So che la rassegnazione che mi sta prendendo non è una cosa buona, non è positiva. Forse si sta trasformando in quell’altra brutta parola: accettazione.

giovedì 9 dicembre 2010

Le case che parlano

Chissà, forse è un sintomo della vecchiaia. Si torna un po’ bambini. O forse è che non sono mai cresciuto veramente, ma tutte le case che ho abitato mi hanno sempre parlato.
Quella dei miei genitori per esempio. Proprio davanti alla portafinestra della cucina, sul pavimento, c’è una grossa vite nera, inclusa come un fossile in una mattonella del pavimento. Chissà come ci è finita; forse durante la lavorazione, quarant’anni fa e, per uno strano scherzo del destino, proprio quella mattonella è finita nella nostra cucina. Ogni tanto andavo a guardarla, come una curiosità da museo o da wunderkammer, felice di ritrovarla sempre lì e domandandomi ogni volta come diavolo fosse finita proprio nella nostra mattonella. Con il passare degli anni è diventata una presenza rassicurante, un punto fermo, un’abitudine. So che c’è, che sarà sempre lì ogni volta che andrò a cercarla e questo mi rende felice.
Nel salotto invece, proprio vicino alla finestra, a ridosso della parete, c’è una mattonella del pavimento di marmo che d’inverno diventa calda. L’ho scoperto perché ci si accovacciava sempre il mio cane, che stupido non era. Può sembrare un mistero, ma più semplicemente si tratta del tubo del riscaldamento che passa proprio lì. Però è divertente far sentire ai miei figli quel calore misterioso che sale dal pavimento e vedere i loro occhi meravigliati da un fenomeno all’apparenza così inspiegabile.

domenica 5 dicembre 2010

Massima

Diffidate degli uomini piccoli, spesso sono solo dei piccoli uomini.
Vogliono sempre dimostrare ciò che nessuno ha mai chiesto loro.

giovedì 2 dicembre 2010

L'abito fa il monaco?

Comincio proprio a scocciarmi che il mio piccolo sovrappeso (novantacinque chili per un metro e ottanta non credo mi rendano un’attrazione da circo), sia diventato un argomento di conversazione come il tempo o la partita di domenica scorsa.
Ieri, per esempio, chiama con skype un vecchio collega di mia moglie, in pensione da qualche anno. È in partenza per le maldive; come si diceva una volta: “Bisogna davvero vederle prima che l’oceano se le inghiotta”. È uno a cui piace spendere in cose belle e costose: tv bang & olufsen, iphone, indumenti in cachemire. Ha un paio di maglioni che non mette più, uno di missoni e l’altro in cachemire, chiede se li vogliamo per mio figlio, “Mica per tuo marito, non ci entra di sicuro. Ma adesso quanto pesa?”.
Ma guarda un po', il solito argomento di conversazione. Non glielo dico, sono cazzi miei, io non ti chiedo quanto ce l’hai lungo o se ti tira ancora.
L’altro giorno, il direttore, che mi telefona esclusivamente durante il pranzo e la cena, mi chiede cosa sto mangiando. “Due barrette ai cereali” rispondo io. Lui si fa molto interessato, so che la moglie lo tiene a stecchetto e so anche che è uno a cui non piace ingrassare.
“Ah, quelle barrettine della kellogg’s, e come sono? Poi non ti viene fame? Ma sei dimagrito?”.
Che noia dover parlare sempre di queste cose, doversi ogni volta sottoporre a una radiografia malcelata da parte di tutti quanti, come passare attraverso dei maledetti body scanner che ti riducono ai minimi termini.
E riparlando del direttore, salta fuori che il catalogo, che all’inizio avrebbe dovuto rendere un tot di euro cash e poi invece qualche euro in più ma fatturato, oggi è calato nuovamente alla cifra cash, ma fatturata. Fra un po’ andrà a finire che dovrò pagare io.

mercoledì 1 dicembre 2010

L'alfa e l'omega

Mia moglie dice che ogni cosa deve avere il suo epilogo, la sua fine. Come la neve che cadeva questa mattina, come il mezzo toscano che fumo dopo pranzo, come i momenti belli e quelli brutti, come la nostra esistenza che viviamo da immortali perché la morte non deve apparire.
Così, dice lei, anche questa fase buia e drammatica dovrà avere il suo omega, un termine, un’inversione. E questo è certo. Tutto sta nel capire se sarà un epilogo a lieto fine, o qualcosa di ancor più drammatico, così imprevedibile da non essere nemmeno lontanamente immaginato.
Voglio credere allora che, come passerà l’inverno, anche questo immeritato purgatorio possa finire, in bene o in male, ma finire una volta per tutte.