domenica 29 maggio 2011

O la va, o la spacca!

La proposta di Jean-Cul arriva inaspettata come un infarto di prima mattina. Vuole sapere se, oltre alla "localizzazione" della rivista, accetteremmo di realizzare anche la versione originale francese.
Non è soddisfatto dei suoi grafici, dice che non capiscono il senso del giornale e non hanno un briciolo di buon gusto o creatività. Però la mia risposta deve essere immediata e, in caso affermativo, ci vedremo per una riunione martedì mattina.
In realtà non me l’aspettavo. Mi crogiolavo nella fanghiglia tiepida di una localizzazione che, sebbene portasse un’infinità di problemi e rotture di palle, poggiava comunque su una base, seppur minima.
E poi con l’ex direttore le cose hanno preso finalmente una piega promettente, come l’arcobaleno che l’altra sera sembrava infondere la speranza in qualcosa di meglio. La rivistina legata agli eventi è ormai cosa sicura, e altri progetti stanno nascendo sotto una stella che appare più luminosa del solito.
Caricarmi sul groppone la responsabilità totale di una rivista, in cui ogni pagina nasce da grandi travagli e innumerevoli ripensamenti, non mi entusiasma così tanto. Ma penso anche a questo anno e mezzo di desolazione e vuoto, alle depressioni a singhiozzo, alle giornate di disperazione, alle speranze sfumate e al futuro incerto e mi dò dello stronzo.
Questa potrebbe essere davvero la fine di un incubo da mezza età, l’inizio di un Rinascimento nel quale non speravo più.
Non riesco a non pensare a quanto tutto questo assomigli all’illusione che Milano sta vivendo in queste ore, alla voglia di rivincita mia e di questa città così maltrattata.
Milano è diventata terribilmente brutta, maleducata, triste e arrogante, ma la sua anima non è questa. Milano è una città multietnica, amorevole nei suoi inverni tristi e nebbiosi che ti abbracciano e ti nascondono, entusiasta e allegra durante le rare giornate pulite e serene, così belle che ti impediscono di odiare questa città dal fascino tossico e sottile.
Non so se il vento è cambiato davvero, o se mai cambierà, ma sento qualcosa nell’aria, nelle facce della gente. Un’elettricità positiva, un orgoglio di essere milanese che per tanto tempo si era nascosto chissà dove.
Allora perché pensarci tanto? Io mi butto. Dico di sì a Jean-Cul, dico che non ci sono problemi, che di giornali come il suo ne possiamo fare quanti ne vogliamo. Ma, francamente, mi sto cagando sotto. Ho una paura fottuta di ritrovarmi inchiodato davanti al computer per dieci ore al giorno o anche più. Anzi, sono attanagliato dal panico, sono stordito e al contempo preso da una stupida euforia. La testa galoppa senza sosta, giorno e notte, organizza collaboratori e fornitori, studia strategie fiscali, elabora tariffe e preventivi, contratti e clausole, in una girandola che a me pare una minacciosa ed enorme pala eolica.
Fanculo, ci provo. Anzi, già pregusto il costosissimo sigaro cubano e la bottiglia di champagne con cui festeggerò la firma del contratto. E se andasse male, che mai potrà succedere di peggio rispetto a ciò che ho sopportato fino a oggi?

giovedì 26 maggio 2011

Vediamo 'sto stupido dove vuole arrivare!

I rapporti con l’editore francese, che per comodità e poco rispetto, chiamerò Jean-Cul, si stanno facendo quanto mai tragicomici.
Lui è un caffèespresso-dipendente dallo sguardo allucinato e le movenze da elefante al festival del domino con effetto a catena. Rovescia l’acqua dai bicchieri o fa cadere telefoni altrui mentre raccoglie una rivista, proprio come se non avesse la percezione esatta delle distanze. Sarà la caffeina o, come dice mia moglie, la cocaina. Niente di più facile.
È il perfetto archetipo dell’indeciso: ciò che ieri andava bene, oggi è da cambiare, quello che è cambiato lo preferiva com’era prima.
All’inizio si doveva semplicemente “localizzare” la rivista, adesso vuole qualche piccola sistemazione in alcuni articoli che non gli piacciono così come sono usciti, però quando li vede, vorrebbe che fossero “graficamente più singolari”. 
La coordinatrice - che si è scusata per il comportamento del traduttore - dice che Jean-Cul sta cercando di marciarci sopra. In fondo, lamentandosi degli scontorni delle foto che andrebbero sistemati, delle pagine più "graficamente singolari", o delle  cromie da calibrare, non fa altro che costruire un restyling pagato sì e no, nascondendosi dietro al paravento che però le font non si cambiano, manteniamo quelle originali.
Non so, ma la mia piccola e stupida testolina non riesce a capire cos’abbia in mente questo Jean-Cul, o meglio, forse comincio a intuirlo seppur vagamente. Un francese che vuole lanciare una rivista che è impossibile definire: di moda, di consigli pratici, di copiature del look di attricette misconosciute. Senza la minima ricerca di marketing, senza lanci pubblicitari, senza avvalersi di qualcuno che abbia una vaga cognizione della moda italiana e il mondo dell’editoria. Senza un restyling degno di questo nome, senza una redazione che sappia scrivere "fa" senza l’accento sulla a, o che sappia come battere una "È" maiuscola accentata senza usare l’apostrofo, o che scrive p/e per dire pimavera/estate.
Tutto questo mi fa arrivare a fine giornata prosciugato di ogni energia, specialmente mentale. In casa è tutto un parlar francese maccheronico come: va da via el cül, tut bòn, tartufòn, Sìlvie Vartàn e roba simile.
Ormai il gioco è diventato così perverso che, come Totò nello sketch su Pasquale, continuo a pensare: “Chissà ‘sto stupido dove vuole arrivare!”.

mercoledì 25 maggio 2011

Gli occhiali

La prima volta che ho dovuto comprarmi gli occhiali per leggere è stato cinque anni fa. Fino ad allora mi sono sempre vantato dei miei dieci decimi, di eredità paterna.
All’inizio è stato anche divertente avere questi occhiali con cui giocherellare a fare l’intellettuale. Sì, sono ancora uno di quegli ignoranti patetici che si sentivano interessanti indossando gli occhiali; come il signor dottore, o il farmacista del paese, o il maestro elementare delle nostre nonne. O, peggio ancora, come i khmer rossi che sterminarono migliaia di cambogiani muniti di occhiali perché considerati dei pericolosi intellettuali.
Poi, quei primi occhiali da 0,50 sono diventati insufficienti; mi incazzavo pensando che i quotidiani facessero a gara per scrivere gli articoli in corpo sei, invece ero io che perdevo la capacità di leggerli.
Ora col mio nuovo paio di occhiali - anzi di lenti, perché la montatura è sempre la stessa - nuovi fiammanti, riesco a leggere anche l’analisi fisico-chimica dell’etichetta dell’acqua minerale.
Questi cinque anni di lavoro davanti al computer mi sono costati una diottria secca. Da 0,50 a 1,50. Tutto quanto solo per impaginare stupidi giornali di poveri stronzi che non fanno altro che cantarsela e suonarsela a vicenda.

martedì 24 maggio 2011

Cominciamo male...

Alle sei e quindici la signora Italia - dirimpettaia ultrasettantenne - è già sveglia. 
Mi sono alzato per il caldo e anche per la rabbia. Non la rabbia di non poter dormire - Voyager di Giacobbo è un ottimo sonnifero: alle dieci di ieri sera già russavo sul divano come una balena spiaggiata - ma quella ancora schiumosa come una birra appena versata che ha cominciato a montare da ieri sera.
Ricevo una mail da chi si occupa della traduzione e l’adattamento dei testi della rivista francese. Ci accusa di aver tagliato “arbitrariamente e a capocchia” i testi degli impaginati, ci spiega che siamo noi a dover adattare le pagine alle traduzioni, anche quando sono esattamente il doppio rispetto agli originali, che non dobbiamo agire meccanicamente ma ragionare e via di seguito.
Onestamente, non mi era mai capitato di imbattermi in tanta arroganza e cialtroneria.
Fare un giornale è un’operazione di alta diplomazia; chi scrive un testo lo ritiene perfetto e intoccabile, chi impagina lo fa come se ogni servizio dovesse essere esposto alla galleria d’arte moderna, il caposervizio e l’art director cercano di arrivare a un compromesso che salvi capra e cavoli, soprattutto per rispetto verso chi si ritroverà il giornale fra le mani.
Spesso le redazioni sono teatro di tragedie, altre volte di commedie dell’assurdo, ma poi, tutti devono piegare la testa per passare sotto le forche caudine della chiusura del numero.
In tutto ciò, l’unico imperatore, l’unico dittatore a cui si deve cieca obbedienza, è il direttore, nessun altro.
Quello che penso è che, se cominciamo così, cominciamo davvero male.

lunedì 23 maggio 2011

Inferno, purgatorio, paradiso

Non so se essere felice oppure no. Non della mia vita personale, quella va a gonfie vele, o almeno, fila senza grossi guai, il che è sicuramente già una bella cosa.
Parlo del lavoro. Quello che c’è, quello che non c’è, quello che potrebbe esserci.
Sono alcuni giorni che non mi stacco dal computer prima delle sette e mezzo di sera, che lavoro anche di sabato, che rispondo al telefono all’ex direttore di domenica. Ieri, fra la una e la una e venti, mi ha chiamato almeno quattro volte, facendomi pranzare a singhiozzo. 
Qualche anno fa non avrei nemmeno risposto al telefono, oggi mi sento come nella bella recensione di The Company Men su Mymovies (http://www.mymovies.it/film/2010/thecompanymen/): 
“John Welles esplora l’impotenza della perdita del lavoro, mentre esamina come la rabbia, la paura e l’umiltà forzata possono sostituire la sicurezza dei ‘normali’”. 
Ecco, è l’ultima frase quella che mi ha colpito nel profondo, "l’umiltà forzata", che sostituisce, in chi è alla ricerca di un lavoro, la sicurezza del “normale”.
La giusta definizione per chi, come me, è alla disperata ricerca della propria normalità, dell’illusione di essere parte di una grande macchina, un piccolo ingranaggio con una sua collocazione ben precisa, un suo compito minimo ma funzionale, e la scoperta improvvisa che la macchina funziona anche senza la mia rotellina, che comunque va avanti e che quel piccolo ingranaggio può essere sostituito senza problemi, senza intoppi.
In queste ultime settimane di improvvisa operosità sento montare dentro l’orgoglio di essere nuovamente una parte della macchina, la sera sono così soddisfatto della mia stanchezza che è come se fosse sempre natale. 
Ma c’è un ma. Intanto è robetta. La rivista di barche per ricconi sfondati sarà nelle mie mani per un solo numero ancora, poi il mistero rimane fitto. Quella che si occupa di eventi e per la quale l’ex direttore ha firmato un contratto (ma io no), economicamente è ancora ben poca cosa, e dall’editore francese e la localizzazione della sua rivista, non è ancora ben chiaro cosa ne sarà in futuro.
Tanto rumore per nulla insomma. O meglio, tanto lavoro, ma nessuna certezza. Intendiamoci, rispetto al vuoto cosmico dell’ultimo anno, è una calda coperta di lana in una notte gelida, ma non è certo ancora la certezza di avere un tetto sulla testa.
Questo blog si chiama Uomo in Mare; forse avrei dovuto chiamarlo all’Inferno e Ritorno, ma mi sembrava, così facendo, di essere fin troppo ottimista e allora, per scaramanzia, ho mantenuto il nome originario che nacque prima ancora della tempesta lavorativa. Diciamo che, per ora, questo viaggio all’inferno - senza nemmeno la compagnia di un Virgilio - si sta forse avviando verso il purgatorio, ma si trova ancora molto lontano anche dalla sola idea del paradiso.

giovedì 19 maggio 2011

Senti che bel vento...

Quando C. era piccolo, guardavamo spesso il cartone animato intitolato La leggenda del Vento del Nord. La storia, a volte un po’ pallosa, dei fratellini Anna e Leo che, con l’aiuto del loro piccolo amico indiano Watuna, riescono a sconfiggere il terribile Vento del Nord, che ha assunto le sembianze del perfido Attanasio e non intende rinunciare così facilmente al suo potere...
A parte questo, pare che si cominci a lavorare con l’editore francese.
Per ora si tratta di realizzare la “localizzazione” della rivista originale, apportando qualche miglioria in corsa. Continuando con la metafora sportiva, sarebbe un po’ come pretendere di cambiare le gomme alla moto mentre corre a 300 all’ora.
È chiaro che è un modo come un altro per risparmiare i soldi di un progetto grafico organico e completo, ma non mi lamento. Se tutto funzionerà come deve, si andrà avanti, altrimenti pazienza.
Devo dire che questa novità estremamente piacevole, unita agli speciali in collaborazione con l’ex direttore, apre una prospettiva leggermente più rosea. Non ci risolve la vita, ma forse il vento comincia a cambiare anche per noi.

lunedì 16 maggio 2011

Il futuro è quel che è...

Se c’è qualcosa di cui forse devo rimproverarmi è l’aver sempre pensato troppo al futuro.
Cosa farò da grande? Come sarà il mondo domani? Che cosa troverò dopo la scuola? Come sarà, se ci sarà, la mia famiglia, la mia vita, il mio futuro?
Appena potrò permettermelo voglio una grande libreria, in una casa fatta come dico io. Appena ci siamo sistemati col lavoro faremo questo e quest’altro. Quando i bambini saranno più grandi, allora li porteremo in quel posto e anche in quell’altro, dove ci siamo divertiti tanto da giovani.
Tanti domani, tanti progetti, tante fantasticherie, tante speranze.
Il risultato? Che spesso ci si dimentica di vivere il presente.
Da piccolo, la fretta di crescere non era mai abbastanza. Non bastava dire di avere otto o dieci anni: si diceva otto anni e mezzo, o quasi undici, in una fretta di mangiarsi il futuro, prenderlo per la camicia, rallentarlo, illudersi di raggiungerlo.
I quattordici anni per il motorino, i sedici per il patentino, i diciotto per l’automobile, sposarsi per raggiungere l’indipendenza di una vita propria, di una vera famiglia. Chiedersi a che età si diventa uomini per non essere considerati più ragazzi.
Ho sempre pensato al futuro come se fossi immortale, un super eroe della Marvel, che so, un Thor, un Silver Surfer, come se il tempo non passasse per me. Come se l’unica cosa veramente importante fosse ciò che deve ancora accadere e non quello che vivo adesso, ora.
Forse è per questo che, come dice Berlusconi, non mi piace quello che vedo quando mi guardo allo specchio.
Solo ieri ero un ragazzetto insicuro che non sapeva cosa sarebbe stato della propria vita, e oggi, chi è quella faccia coi capelli brizzolati e la barba sale e pepe che mi sta guardando?
Chi mi ha rubato tutto il tempo che sta fra questi estremi? Quello che è successo lo so, ma preso com’ero dal luccicante futuro, ho come l’impressione di non aver sfruttato come si deve un passato spesso remoto.

sabato 14 maggio 2011

Aspettando in riva al fiume

Ieri mattina appuntamento all'istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani. 
Vogliono che renda una dichiarazione sui miei rapporti col mafioso pelato: tipo di lavoro, rapporto di subordinazione e compagnia bella. Il loro intento sarebbe quello di dimostrare che, benché svolgessi il mio lavoro da casa con una certa autonomia, in verità il mio fosse un rapporto subordinato, essendo sempre disponibile secondo gli orari dell’azienda, comprese le chiusure estive e dovendo comunque rapportarmi con la redazione a ogni ora del giorno eccetera eccetera.
È strano come quando gli interessi si spostino dall’associato all’associazione, cambino anche le modalità di tutela. 
Quando ho disperatamente cercato di far valere i miei diritti (sacrosanti) sulle gabbie sorgenti che ho creato e usato per il mio lavoro, le richieste probatorie erano praticamente impossibili da esaudire, mentre ora che è l’Istituto ad andare al recupero di contributi e balle varie, tutto sembra così facile e trasparente.
Per quel che mi costa, ho fornito la mia bella dichiarazione. 
Non è che abbiano dovuto fare chissà quale opera di convinzione, basta e avanza il mio dente avvelenato, anche se il veleno va ormai diluendosi sempre più nell’oblio.
La cosa che invece mi ha meravigliato, è stata apprendere che molti dei fuoriusciti - volenti o nolenti - dall’azienda, spesso si sono rifiutati di fornire qualsiasi dichiarazione. Il motivo è, direi, più che evidente: la paura di incorrere in rappresaglie da parte di chi si vanta di nutrire numerose conoscenze nell’ambiente. Credo abbia avuto il sopravvento la paura di essere sputtanati sul mercato, il terrore che, e qui non possono che tornare alla mente i toni e le intimidazioni non definibili in altro modo se non mafiose, che l’emerito presidente dell’azienda porrebbe in atto verso chiunque osi anche solo esprimere quella che altro non è se non la verità nuda e cruda.
Tutte quelle lamentele, quelle recriminazioni e maldicenze che dovevo ascoltare dalla redazione durante le telefonate di lavoro, sono improvvisamente sparite come un ghiacciolo ad agosto. 
Nessuno parla, nessuno ha il coraggio di sputtanare situazioni incrostate dalle innumerevoli leggi che permettono a gente come il mafioso pelato di sfruttare, spremere e buttare nell’immondizia gente che vorrebbe solo lavorare in pace.
Per quel che mi riguarda, ho sempre pagato personalmente, e molto salate, tutte le prese di posizione, ma non per questo penso si debba tacere di fronte alla prepotenza, al ricatto, all’intimidazione. 
Ho fornito la mia dichiarazione senza reticenze e denunciato una situazione che è diventata regola nel mondo del lavoro. Le conseguenze non potranno certo essere peggiori di quelle che ho dovuto sopportare fino ad ora. Non sono uno stupido, so che è stata fatta tabula rasa intorno a me e il mio lavoro, ma come mi sono sempre guadagnato da vivere con le mie sole forze, credo che anche questa volta terrò la schiena dritta.
Se andrà bene, potrò recuperare tutti quei contributi pensionistici che ho sempre versato in prima persona, se va male, farò infuriare ancora di più quel piccolo ometto presuntuoso, e questo non voglio perdermelo per tutto l’oro del mondo.

giovedì 12 maggio 2011

Il paradosso del mentitore

Avrò anche compiuto quarantanove anni - e qui potrei citare la logora storiella di ottimisti e pessimisti. Sapete, il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Beh, c’è poco da essere ottimisti, perché a questa età, il bicchiere tende sicuramente al mezzo vuoto - ma il mondo lo capisco sempre meno.
Dell’editore francese avevo parlato in “Chapeu” e in “Grazie dio”. In quest’ultimo post, con la solita megalomania, mi ero addirittura lanciato in un coccodrillo commemorativo sulla perdita del lavoro. E il lavoro era perso, non c’è ombra di dubbio, perché quando qualcuno ti dice testualmente:
“...la decisione è stata presa ieri pomeriggio. Purtroppo devo comunicarti che abbiamo affidato il lavoro ad un’altra agenzia”.
Mi pare che ci sia poco da sperare o da recriminare.
Invece no, siamo noi a non aver capito, perché proprio ieri pomeriggio, mentre ero sdraiato sulla poltrona del dentista con in bocca due specilli, una matrice e il trapano, ha chiamato l’assistente dell’editore per chiederci se fossimo disponibili a impaginare un numero dell’edizione italiana del giornale. 
In pratica si tratterebbe di lavorare sugli impaginati francesi sostituendo esclusivamente il testo e una certa percentuale di fotografie.
“Ma scusi, non avevate deciso di affidare il lavoro ad un’altra agenzia?”. Non siamo riusciti a trattenerci dal dire.
“Sono mortificata - fa lei - ma l’editore è molto indeciso e piuttosto insicuro, so di non aver fatto una bella figura, ma le assicuro che in effetti non c’è ancora niente di definitivo, tutto è ancora da decidere”.
Beh, allora ci hanno preso per il culo la prima volta, oppure la prima volta hanno detto la verità e ci stanno prendendo per il culo adesso.
Mi spiego meglio, potrebbe essere che effettivamente un’altra agenzia stia lavorando al restyling mentre, nel frattempo, l’editore vuole testare il mercato italiano con un numero della rivista che è solo la traduzione dell’edizione francese...
Mi sembra uno di quei paradossi filosofici, tipo quello del mentitore, quello di Epimenide di Creta - cretese egli stesso - che enuncia: “Tutti i cretesi sono bugiardi” con le conseguenze che ben potete immaginare da voi.
Ma perché tutto deve essere così complicato? Perché nessuno riesce a dire la verità? 
Siamo davvero diventati così meschini, mentitori per interesse, compiacenza o vigliaccheria?
Venerdì vedrò nuovamente l’editore francese e, statene certi, non sarò certo io a mentire, anzi, dirò pane al pane e vino al vino e vada come vada.

PS: grazie a tutti per i vostri auguri, siete così riservati e discreti che a volte dimentico che non sto scrivendo sul diario che tengo sotto al letto.

mercoledì 11 maggio 2011

49 motivi per essere felici

Oggi compio quarantanove anni. 
Non lo dico per avere auguri, o quelle solite, stupide frasette con trenta punti escamativi, anzi, non c’è nemmeno una ragione precisa per la quale lo dico.
Vedrò di godere quest’ultimo anno che mi separa dai cinquanta con un certo disincanto. 
In fondo mi consolo pensando di essere un coetaneo di quello stronzetto di Tom Cruise, o dei Beatles se non si fossero sciolti.
Quarantanove anni: la stessa età in cui mio padre ha avuto il primo infarto, gli stessi di quella specie di ranocchietta palestrata di Demi Moore.
Li festeggio proprio nel giorno in cui, secondo un vecchio pazzo di nome Raffaele Bendandi, Roma srà colpita da un terremoto devastante. Boh, staremo a vedere.

martedì 10 maggio 2011

Uomini e caporali

Ecco le differenze fra gli esseri umani. Ciò che ci rende diversi l’uno dall’altro. L’ex direttore vive per il lavoro. Non riesce a godere della seppur lauta pensione, senza sentirsi “nella merda” perché non riesce a accumulare lavori su lavori grazie ai fasti degli anni passati. Alle otto e trenta di mattina è già attivo su skype, alle otto e trenta di sera telefona per sollecitare il lavoro. Non esiste sabato, né domenica. Non solo per lui, ma per tutti quelli che con lui collaborano.
Domenica scorsa, festa della mamma; per quello che può valere una festa da fiorai e pasticceri. Ma tutti hanno una mamma e credo che nessuno possa esimersi dal farle almeno gli auguri e pranzarci insieme. Almeno così è per i miei figli e, mio malgrado, anche per me. Non è una giornata di gran riposo, soprattutto dopo aver imbastito un progetto grafico in due giorni e, una volta tanto, aver ricevuto i complimenti dell’editore. I ragazzi si devono fare la doccia, tutti quanti aiutiamo in cucina, ad apparecchiare, scrivere e disegnare bigliettini, cucinare crostate. Alle dodici e trenta chiama l’ex direttore:
“Allora, hai pronto qualcosa per me?” chiede come se fosse un normalissimo giorno lavorativo.
“Veramente ho aiutato i ragazzi con la festa della mamma - rispondo - sai, oggi mi tocca sorbirmi pure la mia, per questo non ho ancora acceso il computer...”
Lui dice di non preoccuparmi, di procedere tranquillamente e se per caso impagino qualcosa, di chiamarlo pure in serata.
“Sì, come no! - mi verrebbe da rispondere - adesso per settecento euro mi metto a lavorare pure di notte o nei festivi!”. Ma invece applico l’infinita pazienza che ho dovuto imparare - volente o nolente - durante questo periodo e abbozzo, prometto, accampo scuse fumose.
Penso di essermela cavata, che abbia capito, che almeno per oggi non rompa più le scatole.
Ore ventuno e quindici, squilla il cellulare, è lui, lo lascio squillare, non ho nessuna voglia di rispondere, di riaccendere il computer, di inventare scuse.
Io non sono così, le mie ambizioni sono più “socialmente responsabili” nel senso che mi basta mantenere la famiglia, togliermi qualche soddisfazione ogni tanto e, soprattutto, avere tempo da dedicare ai miei figli e a me stesso.
Che senso ha, passare la propria vita davanti a un monitor di computer per arrivare, la sera, a non aver più occhi per leggere il titolo sulla copertina di un libro? Per stramazzare addormentati sul divano quando non sono ancora le nove? E risvegliarsi come zombie, con la tv che sbraita, alle cinque meno un quarto, con in mente il lavoro da finire?

lunedì 9 maggio 2011

Meglio di un calcio nel culo

Forse per farsi perdonare la perdita della rivista di barche per ricconi sfondati, o forse per quelle strane combinazioni che non riusciremo mai a prevedere, l'ex direttore mi ha dato incarico per un altro progetto del quale, dice lui, ha già firmato il contratto.
Non so nemmeno se si possa definire una rivista perché le uscite sono strettamente legate a eventi ben precisi come, per esempio, il Motor Show di Bologna, lo Smau di Milano, il Salone Nautico a Genova e compagnia bella. Il tutto per una decina scarsa di numeri all'anno, ma non è detto: dipende tutto dalla raccolta pubblicitaria.
Dunque, incarico ricevuto mercoledì scorso, venerdì ho dovuto consegnare il progetto grafico e sabato una decina di pagine fatte e finite.
Lamentarsene sarebbe da ingrati, ma mi domando chi al mondo potrebbe mettere insieme il progetto grafico di un giornale in due giorni e le prime pagine in tre, se non un disperato come me.
Naturalmente di pagare il progetto grafico non se n'è accennato, mentre, per ogni numero del giornale di circa 35 pagine effettive, riuscirò forse a prendere settecento euro. Non c'è da stare allegri, ma confesso di essere comunque felice di riuscire, forse, a tirarci fuori le spese alimentari per la famiglia.
Oggi bisogna accontentarsi così. Domani si vedrà.

giovedì 5 maggio 2011

La maledizione voodoo

Avevo questa rivista di barche per ricconi sfondati che mi aveva passato l’ex direttore. Poca roba, quattro numeri all’anno per meno di cinquemila euro netti in totale. Non mi avrebbe cambiato la vita ma, come si dice, tutto fa brodo e quindi era il modo giusto per ricominciare.
Ne ho impaginato un numero e, visto che le gabbie, dopo anni di rimaneggiamenti e distrazioni, erano ormai un disastro quasi ingestibile, ho rifatto le pagine mastro come si deve, senza prendere un centesimo in più. Poco male, mi sono detto, servirà per lavorare meglio, più velocemente e con maggiore precisione.
Se non fosse che, proprio ieri, l’ex direttore mi ha comunicato che l’editore ha deciso di affidarne la realizzazione all’agenzia che cura già la sua immagine e che, per questo, la impaginerà praticamente gratis o a prezzo di costo. Dice che la flessione pubblicitaria gli impedisce di coprire le spese e a stento riesce a pagare la stampa.
Faremo ancora un numero e poi ciao ciao, se ne andrà affanculo anche questo lavoro. E pensare che sono oltre vent’anni che l’ex direttore aveva questo cliente; ne parlava che sua figlia ancora non camminava e oggi ha diciannove anni.
Inoltre, al colmo dell’umiliazione, mi ha detto che un ex grafico della Rizzoli con il quale abbiamo lavorato entrambi, lui come suo direttore e io come collaboratore esterno, guadagna alla grande come fotografo, roba da oltre settantamila euro all’anno.
È proprio vero che il mondo va a cazzo di cane. Ho sempre pensato che questo F. fosse un emerito coglione e questo era anche il parere della redazione tutta. Un cretino che si vestiva come l’opinione comune pensa si debba vestire un creativo - ne ho già parlato -; che andava a ballare latinoamericano con la moglie, altrettanto cretina; uno che per fare un servizio da quattro pagine ci impiegava una settimana, totalmente disimpegnato da tutto ciò che è sociale o solidale o umanitario, insomma un vuoto vanesio presuntuoso quanto stupido.
Inutile dire che queste cose mi fanno montare un’invidia che non dico, mi fanno pensare che, crisi o non crisi, ci sono persone che lavorano e anche bene, che comunque il mercato si muove e che io, non so perché, ne sono tagliato fuori.
Vacillano anche le mie convinzioni antisuperstiziose; sono quasi convinto di essere vittima di un terribile malocchio, una maledizione per qualcosa di innominabile che devo aver commesso nelle vite passate, un castigo divino per le infinite bestemmie, un voodoo praticato per errore da qualche santone caraibico che mi deve aver colpito per sbaglio. Non c’è altra spiegazione.

martedì 3 maggio 2011

Gli uomini della compagnia e il culo di Pippa

Se solo mia nonna sapesse che a ogni appuntamento dal dentista, ne corrisponde un altro in libreria, non so immaginare cosa direbbe.
Lei, che credo non abbia letto nemmeno un libro in vita sua ma che, per mandare avanti la famiglia, è stata la prima calzolaia, se non d’Italia, certamente di Milano, forse avrebbe sbottato come il padre di R. durante l’ennesima visita a una chiesa di Mosca: “Ostia! Basta chiese! Vista una, viste tutte!”.
Ieri è stata la volta di Don Delillo, scrittore che amo a prescindere, con La stella di Ratner; un salasso da 24 euro a favore di Einaudi, e quindi del nano maledetto.
Non importa, come dicono a sinistra ogni volta che bisogna votare: turiamoci il naso. Solo che a forza di turarci il naso, non sentiamo più né puzze, né profumi, e questo non va bene.
E forse proprio per questo, per il gusto cioè di farmi del male, questa sera abbiamo visto The Company Men, un bel film di John Wells nel quale è rappresentata l’improvvisa discesa all’inferno e la difficoltà nei rapporti familiari e di amicizia di Bobby Walker, brillante e benestante manager con tanto di Porsche, improvvisamente licenziato dall’azienda per cui lavora.
Si troverà ad affrontare ciò che io stesso ho provato e continuo a provare tutt’ora sulla mia pelle, fino ad accettare un lavoro da falegname edile offerto dal cognato. Il superficiale Bobby imparerà così ciò che significa dover rinunciare a tutti quei privilegi che riteneva ormai consolidati, alle partite a golf, ai bei vestiti, ai ristoranti da 500 dollari. Imparerà a capire i veri valori dell’amicizia, dell’amore e della dignità del lavoro.
Naturalmente Bobby è un trentasettenne e può permettersi la fatica fisica e l’idea di dover ridefinire in qualche modo la propria vita, quindi le affinità tra la sua situazione e la mia finiscono bruscamente prima ancora di cominciare.
Inoltre, nel finale, Bobby riesce a risollevarsi e trovare un lavoro adatto alle proprie capacità, anche se con uno stipendio pressoché dimezzato. Un lieto fine forse un po’ troppo rosa per situazioni che, nella maggior parte dei casi, hanno ben altri esiti.
Semmai dovrei immedesimarmi più nel suo collega Phil Woodward, anche lui licenziato, che alla soglia dei sessant’anni, tintosi i capelli grigi, tenta di rivendersi in un mercato che non considera chi è al di sopra dei trent’anni e finisce per suicidarsi con i gas di scarico della propria auto.
Cosa c’entra tutto questo col culo di Pippa? Niente, solo che nel titolo del post ci stava così bene...

lunedì 2 maggio 2011

Tornerò a votare

Mancano meno di due settimane alle elezioni amministrative ed eccoli, gli zombie, gli scarafaggi col cilindro, i parassiti, i morti viventi che ci hanno portato via tutto - libertà, allegria, futuro - eccoli, puntuali ad ogni appuntamento elettorale, che intasano la cassetta della posta, i tergicristalli delle auto in sosta e ogni spazio utile su cui si posa l’occhio appena fuori casa.
Eccoli, con le loro foto da prima comunione, chi posato e serio sul solito fondale azzurro, chi falsamente sorridente come una iena che attende la morte della sua preda, chi in giacca e cravatta, chi con le maniche rimboccate come se dovesse davvero fare qualcosa che non ha mai fatto in vita sua, cioè lavorare.
C’è chi non esita a fregiarsi del logo e, probabilmente ad utilizzare i fondi, del Comune di Milano, come quello che si definisce, ahimé, “Un poliziotto in Comune”, cosa che suscita una certa apprensione.
Lui non si accontenta del solito volantino formato busta, no, per uno come lui serve una brochurina formato mezzo A4, piena di fotografie di un sessantenne invecchiato male, in divisa da poliziotto e l’aria tra l’ammiccante e il minaccioso.
Ma più delle foto, a far davvero paura, è il contenuto del libretto, inviato a mia moglie in virtù “della napoletanità che ci accomuna”.
Ecco qualche esempio:

“Vi ricordate? Avevo scritto: stop alle bande giovanili ubriache di birra il sabato sera. Fatto”.
“Vi ricordate? Avevo promesso: farò quanto servirà per consentire ai Cittadini di Milano di tornare in Piazza nelle tiepide sere di maggio ...dopo il rosario. Fatto”.
“Unico caso in Italia a Milano abbiamo introdotto il ‘Patto di legalità e socialità’ nei campi nomadi per garantire il rispetto delle norme di convivenza civile! E questi sono i risultati: 405 sgomberi di insediamenti e campi nomadi abusivi, 2.600 costruzioni illecite abbattute, 6.500 nomadi allontanati da Milano”.

Minchia, signor tenente!
C’è poi quell’altro, sempre al servizio di un sindaco sciagurato, che si propone come un prosciutto, o un mobilificio brianzolo, con lo slogan “Professionalità e competenza” che è un po’ come dire “Qualità e cortesia” oppure “Comfort e convenienza” che mi ricordano tanto gli esordi di Berlusconi con Telemilano 58. A proposito, come mai su YouTube si trovano sigle e programmi Rai che risalgono ai primi anni sessanta, ma niente, assolutamente niente, che ricordi gli esordi televisivi del cavaliere?
Ma chissenefrega, per tornare al candidato “Professionalità e competenza”, dirigente, tra l’altro, di un reparto dell’ospedale di Niguarda Cà Granda, va ricordato almeno in parte il brillante curriculum che snocciola in così poco spazio:
Maturità classica presso l’Istituto Gonzaga, antipatica quanto prestigiosa istituzione privata della Milano bene, di cui si vanta di essere un componente direttivo dell’Associazione ex allievi. Un modo come un altro per non disperdere conoscenze importanti e influenti, in poche parole e, alla faccia di ciò che pensa l’esimio Gustavo Zagrebelski, una delle tante caste che se la cantano e se la suonano alle nostre spalle.
Ma non basta, Canino - così si chiama, perché nasconderlo? - si laurea in Medicina e chirurgia con specializzazione in ginecologia e istologia patologica, con tanto di master in sessuologia. È inoltre presidente dell’associazione cattolica operatori sanitari della diocesi di Milano, segretario della società lombarda di ostetricia e ginecologia e fiduciario per la Lombardia del sindacato medico FESMED. Più altre varie cariche nel Pdl e in associazioni, compreso ‘sto cazzo di Rotary Club, che non ho ancora capito a che cavolo serve, anche se ho il dubbio che sia un po’ come una specie di P2 che, con la scusa delle opere di volontariato e amenità simili, non fa altro che raccogliere l’ennesima casta degli affari. Ma a scanso di equivoci, qui lo dico e qui lo nego, potrei anche sbagliarmi...
E poi tutti gli altri peones della politica che, improvvisamente, si accorgono di essere nostri carissimi amici, concittadini, compaesani e compagnia bella, compreso il solito consigliere comunale che a natale mi invita sempre a mangiare una fetta di panettone in qualche prestigioso albergo milanese e che, questa volta, ha il piacere di invitarmi in un albergo in zona Centrale per “...uno scambio di idee in vista della prossima scadenza elettorale...” alla presenza addirittura dell’onorevole Mariastella Gelmini.
Sì, è proprio lui, l’unico che risponde alle mie email, quello che promette sempre di interessarsi al mio caso, ma che riesce sempre a non ricevermi.
Penso che gli scriverò anche questa volta. Per me è ormai diventato un gioco, un gioco in cui lui fa la parte del gatto e io del topo e che, in tutta onestà, mi diverte non poco.
Alla luce di tutto questo, credo che questa volta sia davvero giunto il momento di tornare a votare dopo anni di disinteresse e disillusione totali. Non tanto perché ho riacquistato fiducia nella politica, anzi, ma per evitare almeno che gente come questa occupi posti dai quali possa dirmi cosa fare o non fare, come vivere, quali valori insegnare ai miei figli.