La proposta di Jean-Cul arriva inaspettata come un infarto di prima mattina. Vuole sapere se, oltre alla "localizzazione" della rivista, accetteremmo di realizzare anche la versione originale francese.
Non è soddisfatto dei suoi grafici, dice che non capiscono il senso del giornale e non hanno un briciolo di buon gusto o creatività. Però la mia risposta deve essere immediata e, in caso affermativo, ci vedremo per una riunione martedì mattina.
In realtà non me l’aspettavo. Mi crogiolavo nella fanghiglia tiepida di una localizzazione che, sebbene portasse un’infinità di problemi e rotture di palle, poggiava comunque su una base, seppur minima.
E poi con l’ex direttore le cose hanno preso finalmente una piega promettente, come l’arcobaleno che l’altra sera sembrava infondere la speranza in qualcosa di meglio. La rivistina legata agli eventi è ormai cosa sicura, e altri progetti stanno nascendo sotto una stella che appare più luminosa del solito.
Caricarmi sul groppone la responsabilità totale di una rivista, in cui ogni pagina nasce da grandi travagli e innumerevoli ripensamenti, non mi entusiasma così tanto. Ma penso anche a questo anno e mezzo di desolazione e vuoto, alle depressioni a singhiozzo, alle giornate di disperazione, alle speranze sfumate e al futuro incerto e mi dò dello stronzo.
Questa potrebbe essere davvero la fine di un incubo da mezza età, l’inizio di un Rinascimento nel quale non speravo più.
Non riesco a non pensare a quanto tutto questo assomigli all’illusione che Milano sta vivendo in queste ore, alla voglia di rivincita mia e di questa città così maltrattata.
Milano è diventata terribilmente brutta, maleducata, triste e arrogante, ma la sua anima non è questa. Milano è una città multietnica, amorevole nei suoi inverni tristi e nebbiosi che ti abbracciano e ti nascondono, entusiasta e allegra durante le rare giornate pulite e serene, così belle che ti impediscono di odiare questa città dal fascino tossico e sottile.
Non so se il vento è cambiato davvero, o se mai cambierà, ma sento qualcosa nell’aria, nelle facce della gente. Un’elettricità positiva, un orgoglio di essere milanese che per tanto tempo si era nascosto chissà dove.
Allora perché pensarci tanto? Io mi butto. Dico di sì a Jean-Cul, dico che non ci sono problemi, che di giornali come il suo ne possiamo fare quanti ne vogliamo. Ma, francamente, mi sto cagando sotto. Ho una paura fottuta di ritrovarmi inchiodato davanti al computer per dieci ore al giorno o anche più. Anzi, sono attanagliato dal panico, sono stordito e al contempo preso da una stupida euforia. La testa galoppa senza sosta, giorno e notte, organizza collaboratori e fornitori, studia strategie fiscali, elabora tariffe e preventivi, contratti e clausole, in una girandola che a me pare una minacciosa ed enorme pala eolica.
Fanculo, ci provo. Anzi, già pregusto il costosissimo sigaro cubano e la bottiglia di champagne con cui festeggerò la firma del contratto. E se andasse male, che mai potrà succedere di peggio rispetto a ciò che ho sopportato fino a oggi?
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