venerdì 11 febbraio 2011

Rosetta

Non so perché i miei sogni di questi ultimi giorni siano così vividi e reali e, soprattutto, così cinematografici, coinvolgenti, quasi hollywoodiani.
Ma non ho intenzione di essere analizzato per ciò che sogno; direi che per ora ho messo in piazza più di quello che avrei voluto e perciò non parlerò di questo, ma piuttosto di Rosa.
“La Rosetta”, con l’articolo davanti, abitudine irrinunciabile di noi nordisti, che non è la michétta o rosétta che dir si voglia, cioè un tipo di pane, ma una persona, una mia quasi coetanea.
Figlia di siciliani di scarsa cultura, una certa propensione a delinquere ed esperti in sotterfugi e scappatoie, è l’unica femmina di tre fratelli, uno dei quali ha trascorso buona parte della sua vita in galera e - appena uscito - non ha trovato di meglio che uccidersi in un banale incidente stradale. 
È stato per così tanto tempo in prigione, che nessuno quasi lo ricordava più, uno che, quando il padre era sul letto di morte, è arrivato col cellulare dei carabinieri per salutare il genitore. Non più di un paio d’ore, coi militari che presidiavano strada e cortile, mitra a tracolla.
L’altro fratello non abita più qui, ma ogni giorno accompagna la madre, manda affanculo la sorella, fuma sigarette sotto al portone e guarda tutti come se il mondo intero gli stesse sul cazzo.
Rosetta andava in terza media quando io frequentavo la prima o la seconda. Non era certo una bellezza, forse aveva pure un po’ di baffetti, ma non le mancavano sfacciataggine e un’educazione approssimativa. Pensandoci bene, già pareva una mezza matta. Forse per questo, lungo la strada da scuola a casa, amava cantare a squarciagola canzoncine come: “Vieni con me a Milazzo, mi farai vedere il...” e roba del genere. La trovavo piuttosto strana e un po’ mi metteva anche soggezione, così rallentavo il passo e la lasciavo a una ventina di metri avanti a me, che facesse pure i suoi numeri e cantasse le sue filastrocche. Credo che non ci fossimo nemmeno mai salutati.
È vero che la sua non doveva essere una vita facile. Il padre, benché vestito sempre elegantissimo, con tanto di Borsalino, rappresentava comunque la parte arcaica e chiusa del mondo dal quale proveniva. Uso alle botte sia alla moglie che alla figlia. Facile ad accendersi come un fiammifero, erano proverbiali le scenate di vario genere che si consumavano tra casa, cortile e strada. E i fratelli non dovevano essere molto meglio, visto che la madre doveva rimproverarli quando si dimostravano troppo interessati al seno generoso di Rosetta. La sentivo dire alla portinaia, non senza un certo orgoglio, cose così: “Devo stare attenta, perché Rosetta è ddonna ddonna e si capisce che pure questi sono uomini”.
Ho perso di vista “la Rosetta” per un bel pezzo; ho saputo che si è sposata e che ha avuto un paio di figli, che il marito aveva lo stesso vizio del padre, che non sapeva tenere le mani a posto, che ha avuto diversi esaurimenti, che le hanno tolto i figli, che ha divorziato e che è tornata a vivere a casa della madre.
È in questo periodo che, per forza di cose, la incontro spesso in portineria e lei ha cominciato a salutarmi con un “ciao” che pareva racchiudere tutta la sofferenza di almeno vent’anni di una vita incredibilmente squallida e ruvida. Un ciao che pareva una mano tesa in cerca di un aiuto che non avrei potuto offrirle, un ciao che tremolava di un equilibrio instabile, pericoloso e disperato. 
Quando ha la Luna buona, Rosetta canta. La si sente fin sulla strada, quando il traffico concede un po’ di silenzio, o anche dal cortile, con la voce che rimbalza contro i muri stretti. Canta Biagio Antonacci, Ligabue e altra roba esclusivamente italiana.
Quando invece si sveglia col piede sbagliato sono più i vaffanculo e le sfuriate con la madre ciò che rimbomba all’esterno.
L’altro giorno l’ho incontrata in portineria, mi ero fermato per verificare come mai la serratura del portone non funzionasse bene e, purtroppo, ogni condomino che passava aveva il suo autorevole e inutile parere da esprimere. Finché non è arrivata Rosetta. A vederla da vicino mi fa ancora soggezione. Saranno quegli occhi inespressivi come quelli di uno squalo, o quella tensione enorme, avvertibile, che le scorre sottopelle, o quegli scatti della testa un po’ come fanno le lucertole. Il suo parere è stato che è colpa di “quelli”. Quelli sarebbero tutti e indiscriminatamente gli extracomunitari o, come li chiama lei, “bastardi, figli di puttana, ladri. Dovete morire tutti”. Accompagnando le parole con un eloquente croce fatta con la mano, come fosse un papa benedicente.
Sono scappato di corsa, mentre lei, guardando due nordafricani che passavano proprio in quel momento, sibilava fra i denti: “Guarda che facce, bastardi”.
PS: Naturalmente l'appuntamento di lavoro che avevo per oggi è saltato; rimandato a martedì prossimo.

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