Bene, finalmente... proprio oggi che abbiamo un incontro con l’agenzia che ci rimbalza da prima di natale. È una formalità e lo sappiamo bene. Ci ricevono solo perché siamo presentati da un loro grosso cliente. Ci devono ricevere, anche se di noi non gl’importa nulla.
Il nome dell’agenzia è la solita combinazione di lettere e numeri. Pronunciato secondo lo spelling inglese assume significati molto profondi e intriganti, anche se per chi, come me, lo mastica poco, rimane pur sempre una specie di password alfanumerica.
Ma non voglio apparire spocchioso o snob verso l’idea di qualche brillante manager, figuriamoci. Semmai sono io ad essere fuori da questo tipo di logiche, io ad essermi posto fuori dal tempo.
Come faceva quella pubblicità insopportabile? “Perché io vivo col mio tempo... con il progresso, la performance”(1). Beh, ammettiamolo, queste cose un po’ mi schifano. Se essere snob significa utilizzare termini italiani equivalenti invece di quelli americani, allora un po’ snob lo sono davvero.
Lasciamo stare il fatto che anch’io ho ceduto all’anglicismo quando ho rinominato la mia struttura, illudendomi che bastasse questo per ravvivare la mia vita professionale. E poi era anche per fare un omaggio a un maestro del cinema e a tendenze trasversali in cui mi sono sempre riconosciuto, ma questo per ora non c’entra niente.
Niente a che vedere, tanto per fare un esempio, con quei giochetti di parole infantili tipo: "T4-2", che si potrebbe leggere Tea for two.
Ci riceve un ragazzino in giacca e cravatta che forse non raggiunge i trent’anni. Sono meravigliato. Mi aspettavo uno di quei tromboni sui cinquanta sessanta e invece sono io a sentirmi vecchio e superato. Non ho nemmeno, non dico un completo, ma neppure una giacca, solo una delle quattro camice che mi ha regalato mia madre, un paio di jeans e delle nike di cinque anni fa come minimo. Il vecchio montgomery che si ricorda la prima presidenza del consiglio Craxi, mi fa sudare, mentre mia moglie, che in casa non tace un momento e alla quale, proprio per questo, ho affidato l’incarico di responsabile clienti, non apre bocca.
Comunque non riesco a rendermi antipatico questo ragazzino, perché non lo è. Sarà perché è un account - che poi starebbe per venditore, o responsabile clienti. A questa stregua, mio padre, che era un commesso viaggiatore per un’azienda tessile, si sarebbe potuto definire tissue account, ma lasciamo perdere.
Come sempre in tutti gli ultimi colloqui che abbiamo avuto, parte il solito pippone aziendale:
“Nella vostra struttura quanti siete?” Chiede lui.
“Per ora due - rispondo - ma in base alle esigenze che si presentano, siamo in grado di attivare una rete di professionalità che ci permettono di esaudire le più svariate... bla bla bla”.
Lo dico come si ripete la lezioncina imparata a memoria, con convinzione nel tono della voce e nel linguaggio del corpo, ma il primo ad annoiarsi al solito vecchio disco rotto sono proprio io.
“Ah, - dice lui - capisco, noi al momento siamo qualcuno più di centoquaranta”.
Nel frattempo i miei coglioni sono scesi nelle calze e ascolto con pazienza e un certo stoicismo questo ragazzino che decanta le mille facce della sua azienda, usando un tale numero di termini specialistici di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Gli squilla l’iPhone, ma educatamente lo spegne. Mi auguro che il vecchio e patetico nokia non si metta a suonare all’improvviso con quella suoneria da vecchio telefono a rotella per risparmiarmi l’umiliazione di tirarlo fuori dalla tasca.
Poi ci accompagna a fare un giro per l’agenzia che, manco a dirlo, alloggia in una vecchia fonderia ristrutturata. Fingiamo interesse e ammirazione, forse i medesimi che simula lui stesso, ma abbiamo già ben compreso tutti quanti che di noi non saprebbero che farsene.
A casa, o in studio, che poi è la stessa cosa, mi aspettano le ultime due pagine del lavoro per l’ex direttore, quello fatto sulla fiducia, o meglio, sulla speranza che possa interessare a qualche casa editrice a cui tenterà di piazzarlo. Mi convinco sempre più che ormai stiamo vivendo nel mondo parallelo degli esclusi, dei disoccupati, dei reietti, degli esiliati. Sembra lo stesso in cui si dibattono tutti quanti, ma nel nostro, il fatto che tutto vada sistematicamente storto, è una legge fisica impossibile da confutare.
(1) Faccio finta di non saperlo, ma lo diceva Claudia Schiffer in una pubblicità l’Oreal.
Lasciamo stare il fatto che anch’io ho ceduto all’anglicismo quando ho rinominato la mia struttura, illudendomi che bastasse questo per ravvivare la mia vita professionale. E poi era anche per fare un omaggio a un maestro del cinema e a tendenze trasversali in cui mi sono sempre riconosciuto, ma questo per ora non c’entra niente.
Niente a che vedere, tanto per fare un esempio, con quei giochetti di parole infantili tipo: "T4-2", che si potrebbe leggere Tea for two.
Ci riceve un ragazzino in giacca e cravatta che forse non raggiunge i trent’anni. Sono meravigliato. Mi aspettavo uno di quei tromboni sui cinquanta sessanta e invece sono io a sentirmi vecchio e superato. Non ho nemmeno, non dico un completo, ma neppure una giacca, solo una delle quattro camice che mi ha regalato mia madre, un paio di jeans e delle nike di cinque anni fa come minimo. Il vecchio montgomery che si ricorda la prima presidenza del consiglio Craxi, mi fa sudare, mentre mia moglie, che in casa non tace un momento e alla quale, proprio per questo, ho affidato l’incarico di responsabile clienti, non apre bocca.
Comunque non riesco a rendermi antipatico questo ragazzino, perché non lo è. Sarà perché è un account - che poi starebbe per venditore, o responsabile clienti. A questa stregua, mio padre, che era un commesso viaggiatore per un’azienda tessile, si sarebbe potuto definire tissue account, ma lasciamo perdere.
Come sempre in tutti gli ultimi colloqui che abbiamo avuto, parte il solito pippone aziendale:
“Nella vostra struttura quanti siete?” Chiede lui.
“Per ora due - rispondo - ma in base alle esigenze che si presentano, siamo in grado di attivare una rete di professionalità che ci permettono di esaudire le più svariate... bla bla bla”.
Lo dico come si ripete la lezioncina imparata a memoria, con convinzione nel tono della voce e nel linguaggio del corpo, ma il primo ad annoiarsi al solito vecchio disco rotto sono proprio io.
“Ah, - dice lui - capisco, noi al momento siamo qualcuno più di centoquaranta”.
Nel frattempo i miei coglioni sono scesi nelle calze e ascolto con pazienza e un certo stoicismo questo ragazzino che decanta le mille facce della sua azienda, usando un tale numero di termini specialistici di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Gli squilla l’iPhone, ma educatamente lo spegne. Mi auguro che il vecchio e patetico nokia non si metta a suonare all’improvviso con quella suoneria da vecchio telefono a rotella per risparmiarmi l’umiliazione di tirarlo fuori dalla tasca.
Poi ci accompagna a fare un giro per l’agenzia che, manco a dirlo, alloggia in una vecchia fonderia ristrutturata. Fingiamo interesse e ammirazione, forse i medesimi che simula lui stesso, ma abbiamo già ben compreso tutti quanti che di noi non saprebbero che farsene.
A casa, o in studio, che poi è la stessa cosa, mi aspettano le ultime due pagine del lavoro per l’ex direttore, quello fatto sulla fiducia, o meglio, sulla speranza che possa interessare a qualche casa editrice a cui tenterà di piazzarlo. Mi convinco sempre più che ormai stiamo vivendo nel mondo parallelo degli esclusi, dei disoccupati, dei reietti, degli esiliati. Sembra lo stesso in cui si dibattono tutti quanti, ma nel nostro, il fatto che tutto vada sistematicamente storto, è una legge fisica impossibile da confutare.
(1) Faccio finta di non saperlo, ma lo diceva Claudia Schiffer in una pubblicità l’Oreal.
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