So già che ciò che sto per scrivere non importerà a nessuno. E so pure che chi segue questo blog lo fa perché, forse, si diverte a leggere i fatti miei.
Ma è anche vero che, per me, questo blog si è trasformato in una terapia. Un po’ come si vede in certi film americani nei quali, solitamente, un gruppo di persone è seduto in cerchio e ognuno a turno racconta di sé: “Ciao, Mi chiamo Roger e sono disperato...”.
E visto che è mia intenzione raggiungere in qualche modo un certo equilibrio psicologico, devo trovare il modo di liberarmi di tutto ciò che m’infastidisce, devo per forza esorcizzare le mie idiosincrasie, e questo blog è al momento l’unico strumento che ho a disposizione.
Ecco quindi che, accantonato per sempre il mafioso pelato, ho bisogno di chiudere il discorso anche verso altre persone e cose di cui ho parlato.
La Repubblica - intesa come quotidiano - è stata per me la prima vera memoria culturale autonoma. Era il 1976, ero in terza media e avevo la mania dei primi numeri. Il numero uno di Capitan America, di Alan Ford, Maxmagnus, l’ultimo numero del Times e via dicendo. Qualcosa di abbastanza tipico negli adolescenti, almeno credo. Così mi rivedo ancora che, all’uscita da scuola, compro questo nuovo quotidiano: nuovo nel formato, nella grafica, nei contenuti, e lo sfoglio mentre torno a casa.
Mi è piaciuto, non so perché, mi ci sono affezionato e l’ho seguito spesso. Non tutti i giorni, ma quando accadeva qualcosa d’importante l’ho sempre comprato. Al liceo lo alternavo a Lotta Continua, Il Male e qualche volta il Manifesto. Non ho mai sopportato invece il Corriere della Sera, ma non ho intenzione di buttarla in politica, perciò accontentatevi di sapere che è un quotidiano che non mi è mai piaciuto.
De la Repubblica ho sopportato - come si sopportano le scappatelle di un’amante - l’infatuazione verso Craxi e il partito Socialista, i flirt con l’ex PCI poi PDS, le simpatie per l’insopportabile e spocchioso D’Alema, le trombonate intellettual-filosofiche di Eugenio Scalfari. Tutto per poter continuare a leggere una serie di firme che altri quotidiani si sognavano: Giorgio Bocca, Pietro Citati, Miriam Mafai, Gianni Brera, Tiziano Terzani, Altan, Natalia Aspesi, Emanuela Audisio, Stefano Rodotà, Vittorio Zucconi, Umberto Eco, Giorgio Odifreddi eccetera.
Ho sopportato la folgorazione sulla via del revisionismo storico di quel voltagabbana presuntuoso, novello Paolo di Tarso, di Giampaolo Pansa (che poi ho scoperto provenire dal Corriere della Sera!).
Ricordo i titoli durante il rapimento Moro, quando frequentavo il liceo Artistico nell’ex convento a fianco della chiesa di San Marco nell’omonima via. Si salivano le scale strette a due a due, aggrappandosi alla sottile ringhiera di ferro, con i giornali sotto al braccio per discutere in classe, organizzare assemblee, manifestazioni e compagnia bella.
Forse per questo oggi mi dà così fastidio assistere al lato più becero e commerciale di questo giornale; alla filosofia di una mano lava l’altra, del favore all’amico e all’amico dell’amico, all’ossequio dell’inserzionista, al trionfo del giornalismo delle mezze calzette.
Ormai è troppo facile per me prendermela con la solita Sara Chiappori. Una che scrive ogni articolo allo stesso modo, usando sempre il medesimo schema, con tutti quegli aggettivi sempre fuori luogo e ridondanti, pulitina e precisina come la secchiona del liceo, che poi non ha niente di meglio da fare che andare a cercarsi su internet come un adolescente infoiato. Ho dato una scorsa alle statistiche del blog: in meno di un anno le chiavi di ricerca riferite a Sara Chiappori sono oltre cinquanta, seconde solo a Uomo in Mare. E chi volete che vada mai a cercare una giornalista che scrive una marchetta alla settimana nella cronaca locale se non lei stessa?
Adesso si è aggiunto questo Gabriele Galimberti a cui “D”, il supplemento femminile di Repubblica, ha pagato un viaggio intorno al mondo durante il quale, questo brillante giornalista, incontra degli emeriti sconosciuti spacciati per creativi, artisti eccetera, ponendo loro domande di una banalità stupefacente come ad esempio: “Se non qui, dove vorresti essere? Che cos’hai di urgente da dire al mondo? Primo pensiero appena sveglia?”. Roba forte, insomma.
Ma la cosa che mi ha colpito di più, è che questo acuto inviato porta lo stesso cognome di Umberto Galimberti, il colto filosofo e psicoanalista che da anni tiene una rubrica sul medesimo giornale.
E che sono, tutti omonimi?
O piuttosto, anche loro, “utilizzatori finali” del solito sistema delle baronie?
E tutta quella sfilza di artisti, architetti, stilisti, event manager, designer emergenti o già emersi - un po’ come gli stronzi nell’acqua - non sono forse anche loro beneficiari di favori, debiti e inciuci vari?
E Cinzia Sasso? Giornalista di Repubblica che abitava da ventidue anni in un appartamento di proprietà del Pio Albergo Trivulzio, in Corso di Porta Romana 116, pagando due noccioline di affitto, ovvero 572 euro al mese più 3.480,00 euro di spese condominiali?
E che ora sa solo gridare al complotto e alla macchina del fango di Berlusconi. Chi ti ha agevolato? Chi ti ha introdotto in questa ruota della fortuna che al posto di aiutare i vecchi e gli indigenti procurava case a ricchi, famosi, figli di e giornalisti, a prezzi ridicoli?
E Saviano? Che interviene spesso e volentieri su Repubblica per dirci che l’acqua è calda? “In Campania c’è la camorra; la camorra è un’organizzazione internazionale; la camorra ha ormai permeato anche il nord Italia; la politica è scesa, e ancora scende a patti con le mafie e la criminalità organizzata; le stragi sono di stato; Berlusconi è cattivo”. Ma cosa pensa, che a parte lui e Fabio Fazio, il resto degli italiani vivono sulla Luna?
Mi convinco sempre più che, al di là delle belle parole, tutto gira allo stesso modo: favori agli amici e agli amici degli amici, clientelismo, baronie, raccomandazioni, ossequio agli inserzionisti e montagne di marchette nascoste nelle pagine della cosiddetta cultura, degli spettacoli, nei dorsi locali. Mi piacerebbe sapere come definiscono tutto questo sistema di valori i giornalisti di sinistra quando sono loro stessi a farne uso e a sguazzarci dentro.
L’unica cosa che mi consola è che qualche settimana fa hanno svuotato il negozio in via della Spiga di Scavia. Cinque milioni di euro il bottino. Ricordate? Il papino di Maria Elisabetta Scavia, la rampolla che scrive libri pruriginoso-storici, anche lei in un'ottima posizione nelle chiavi di ricerca del blog.
Come si dice? Chi è senza peccato...
mercoledì 23 febbraio 2011
Chi è senza peccato...
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Sei un grande.
RispondiEliminaGrazie, mi imbarazzi...
RispondiEliminaStavo appunto cercando chi fosse Gabriele Galimberti e salta fuori questo blog... Allora non son l'unico che ha notato questa similitudine nei cognomi con il piu' celebre Umberto Galimberti...
RispondiEliminaSul n.805 di D de la Repubblica,il sig.re Gabriele si vanta di aver presentato un progetto e che stranamente gli sia stato approvato:18 mesi in giro per il mondo a fare foto ed interviste. Non sara' diventato ricco,ma quel cognome gli e' valso da lasciapassare per un (forse) suo voglino da crisi di mezz'eta...
Beh ormai e' gia' avanti:s'e' creato il suo angolino che anno dopo anno diventera' piu' grande.
Ma se al prossimo lavoro, un suo futuro committente avesse letto l'articolo suddetto,forse non avrebbe la strada spianata come avrebbe pensato 18 mesi or sono.
Alberto
Che devo dire? È passato un anno e mezzo da questo post e, se possibile, le cose sono peggiorate ancora di più...
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