Da parte mia, sono in attesa. I preventivi per gli editori di Genova e Milano sono partiti ma, per ora, ancora niente.
Sono così frustrato e avvilito per aver causato un tale sconquasso alla mia famiglia. Io avrei dovuto provvedere affinché non le mancasse niente, e l’ho fatto per ventotto anni.
Quando i compagni di liceo si dilettavano all’Accademia di Belle Arti di Brera, al Politecnico di Milano, al Dams di Bologna o in qualche facoltà di architettura in giro per l’Italia, io frequentavo un corso serale di fotografia, rischiando, ogni notte, di essere spinto sui binari della metropolitana da qualche tossico in astinenza, o sparato da un poliziotto in borghese dalla pistola troppo facile. Di giorno, invece, facevo l’assistente fotografo alla Fiera Campionaria.
Ogni mattina, alle otto in punto, ero davanti a porta Carlo Magno, di fronte al vecchio stabilimento dell’Alfa Romeo del Portello, o porta Meccanica, o piazza Giulio Cesare; dipendeva da quale fiera dovevamo fotografare.
Arrivavo dalla parte opposta della città, dai confini di Sesto San Giovanni, grigia e triste Stalingrado milanese, in sella alla mia Honda cb 350 four usata.
I titolari erano due fratelli ebrei agli antipodi in tutto e per tutto.
Quando i compagni di liceo si dilettavano all’Accademia di Belle Arti di Brera, al Politecnico di Milano, al Dams di Bologna o in qualche facoltà di architettura in giro per l’Italia, io frequentavo un corso serale di fotografia, rischiando, ogni notte, di essere spinto sui binari della metropolitana da qualche tossico in astinenza, o sparato da un poliziotto in borghese dalla pistola troppo facile. Di giorno, invece, facevo l’assistente fotografo alla Fiera Campionaria.
Ogni mattina, alle otto in punto, ero davanti a porta Carlo Magno, di fronte al vecchio stabilimento dell’Alfa Romeo del Portello, o porta Meccanica, o piazza Giulio Cesare; dipendeva da quale fiera dovevamo fotografare.
Arrivavo dalla parte opposta della città, dai confini di Sesto San Giovanni, grigia e triste Stalingrado milanese, in sella alla mia Honda cb 350 four usata.
I titolari erano due fratelli ebrei agli antipodi in tutto e per tutto.
Uno sempre elegantissimo, in giacca e cravatta, a volte coi gemelli ai polsini, abbronzato, tonico. Portava le bretelle perché, diceva, la cintura sforma la linea del corpo e non è per niente elegante. Da lui ho imparato a non parlare con le persone tenendo le mani in tasca e non appoggiarmi a ogni muro, palo o roba del genere perché segno di maleducazione e sciatteria. Insomma un vero dandy che, per certi versi, mi ricordava un Valentino in versione etero.
L'altro era esattamente l'opposto: più anziano, in sovrappeso, vestito male, sempre col solito maglione e gli stessi pantaloni sformati. Non rinunciava mai alla pausa pranzo e amava prendere in giro bonariamente il suo assistente che, comunque, ci metteva molto del suo. Un giorno si chiacchierava fuori dalla fiera e l'assistente venne fuori con:
"Ieri sono tornato a casa e mi sono cucinato una bella bistecca; era buonissima".
"E come l'hai cucinata? - chiede il fratello grasso - con la salvia?".
"No! - risponde l'assistente - ero da solo!".
Mi pagavano più o meno l'equivalente di venticinque euro a giornata, che però si concludeva al massimo verso le due del pomeriggio. Una cifra che moltiplicata per una quindicina di giorni al mese, mi permetteva una certa indipendenza.
L'unico cruccio che mi è rimasto è di non essere mai riuscito a lavorare durante la fiera dell'intimo. Macchine industriali, presse, attrezzature per dentisti e compagnia bella, ma mai la fiera dell'intimo.
In seguito, mentre gli ex compagni passeggiavano e studiavano fra le calli veneziane o i portici bolognesi, avevo mollato la fiera e lavoravo in un piccolissimo studio grafico in via Ravizza, di fronte al parco omonimo.
Assunto come ragazzo jolly, in verità passavo la maggior parte del tempo in camera oscura a sviluppare strisciate di testi, titoli o logotipi, perché si faceva ancora tutto a mano: carta, forbici, lettere trasferibili, retini, rapidograph e colla.
L’agenzia era minuscola: il titolare, Mario, con baffi stile Magnum P.I.; una segretaria (fidanzata ufficiale del titolare e sua futura rovina); una grafica esecutivista, piccola, riservata, bruttina, sempre triste e una art director, ambiziosa, carina, fumatrice, piena di bracciali che tintinnavano ogni volta che si raccoglieva i capelli a coda di cavallo, segno che si cominciava a fare sul serio.
Io ero molto giovane, tanta voglia di fare, di imparare. Sognavo una carriera da art director, una delle figure più carismatiche e affascinanti della Milano da bere socialista degli anni ‘80.
Mi lasciavano provare senza tante restrizioni e allora, fatto il mio dovere in camera oscura, mi davo da fare: qualche esecutivo, qualche bozzetto, qualche idea di layout. Fino al giorno in cui un cliente scelse la mia proposta per una pagina istituzionale. Ero così felice! Così accecato dalla gioia e dall’ingenuità da non accorgermi di aver offeso l’orgoglio e la vanità di grafica e art director.
Da quel giorno, Mario mi guardò con un occhio diverso, come di chi si è appena accorto di aver scovato per due soldi un quadro di pregio al mercatino della domenica. Anche se però rimanevo pur sempre l’addetto alla camera oscura.
Un lavoro di merda, quasi sempre al buio, fra esalazioni di acidi, ore e ore trascorse in compagnia di me stesso, dell’oscurità e del silenzio. Era diventato il mio regno, in cui nessuno osava avventurarsi e nel quale, tra una stampa e l’altra, avevo tempo per pensare e sognare.
Poi, dopo un anno o poco più, cominciò il declino inarrestabile. I pochi clienti si fecero ancora più rari: prima se ne andò l’art director, sostituita da un tizio di quelli "comunisti così!", democraticamente presuntuoso nella sua incapacità. Gran barbone alla Marx, e poca puntualità. Ora lavora in rai, democraticamente raccomandato dal cugino dirigente.
Di lì a poco se ne andarono sia lui, che aveva democraticamente capito che aria tirava, sia la grafica bruttina.
Per me non era così facile; non avevo ancora abbastanza esperienza e, soprattutto, nessun portfolio per potermi proporre in agenzie migliori, perciò dovetti subire la nuova art director: una vegetariana seguace di Sai Baba che si faceva chiamare Nishav Do, o qualcosa del genere. Ci siamo odiati dal primo momento. Non sopportavo la sua ridicola religione, le sue nenie irritanti, il tè, le tisane, il credere in concetti così assurdi e illogici, il suo essere così insensibilmente e ottusamente ostile nei miei confronti, la sua infinita presunzione umana e professionale, il suo sentirsi infinitamente superiore verso chiunque non fosse stato illuminato dalla sua stupida religione. Eppure, una delle massime più conosciute del suo maestro celebra la non violenza, l’amore, il rispetto: "Ama tutti, servi tutti - Aiuta sempre, non ferire mai". Le stesse cose del cristianesimo, salvo che poi quasi tutti si comportano come nel famoso proverbio: "Sabato al bordello, domenica a messa". O qualcosa del genere.
Qualche anno dopo, quel cialtrone di Sai Baba fu accusato di essere un volgare prestigiatore da fiera di paese, di molestare sessualmente gli adepti e di aver avuto un ruolo non ancora chiarito in un omicidio plurimo commesso presso il suo ashram nel 1993.
Andava un po’ meglio con Bantù, l’amica di Nishav Do, un’irsuta mezza rasta, mezza drogata, ma con un bel paio di tette sode e un carattere più incline al sorriso e la tolleranza.
In tutto ciò, il punto fermo è che rimasi sempre il ragazzo jolly, quello della camera oscura, malgrado avessi una mano quasi fatata nel realizzare i layout preferiti dai pochi clienti rimasti.
In fondo non me ne importava molto, la mia grande passione rimaneva la fotografia; come se non ne avessi avuto ancora abbastanza di tutte le ore passate in camera oscura.
Il declino non si arrestava e, ben presto, rimasi l’unico dipendente dell’agenzia. Toccava tutto a me: la camera oscura, i layout, gli esecutivi, l’assistente fotografo per il titolare che, nel frattempo, cercava disperatamente di diversificare la sua attività. Provò con la politica, spedendo a Roma la fidanzata in cerca di chissà quali appoggi. Invece, lei se la spassava con una specie di attivista comunista che, la sera e durante i fine settimana, subaffittava lo studio per vendere le enciclopedia della Utet.
Veramente un mezzo industrialotto della Lomellina che voleva buttarsi in politica venne a fare dei manifesti elettorali, ma alle elezioni fu sonoramente trombato, perciò, anche la politica andò a farsi benedire.
Poi fu la volta di un altro strano individuo, che acquistava sistemi hi-fi in Polonia per rivenderli in Italia. Era l’epoca in cui il dollaro valeva poco e niente e la Polonia comunista mica da ridere e, visto che pagava in dollari e rivendeva in lire, gli affari gli andavano piuttosto bene. Ma non a Mario, che veniva imbrogliato allegramente.
Tutto questo passava sotto i miei occhi come uno strano teatrino di umanità varia, compresa la ragazza che veniva a fare le pulizie: una rossa minuta che indossava sempre una minigonna di jeans. Quando puliva il soppalco, a volte riuscivo a spiarle le mutandine.
In fondo tutta questa situazione era alquanto bizzarra, e Mario, coinvolto in questo turbinio, riusciva quasi a farmi pena. Specialmente quando cercava di barcamenarsi fra i creditori che lo seguivano fin dentro lo studio. Come la padrona della profumeria che reclamava il saldo dei conti in sospeso di quella che, nel frattempo, era ormai l’ex fidanzata.
Mario era di un’ingenuità davvero incredibile: si domandava perché mai, da alcuni mesi non ricevesse più la copia di Playmen di Adelina Tattilo, amica di Bettino Craxi, che fece fortuna con fumetti e riviste erotiche. L’ingenuo non sospettava che dopo aver scoperto quali erano i giorni di consegna, ero io quello che la faceva invariabilmente sparire.
Penso che, sotto sotto, si fosse anche affezionato a me, visto che ero l’unico rimasto ad ascoltare le storie della guerra in Grecia e Albania, o dell'enorme tumore che avevano asportato alla moglie, che suo padre raccontava ogni qual volta capitava in studio, o perché, fra tutti quanti, ero l’unico a essergli rimasto più o meno fedele.
Tutto questo è durato, credo, per un paio d’anni, fino a che, senza più una lira, Mario chiuse definitivamente lo studio, cedendolo a quei pirati che nel giro di qualche mese lo avevano mandato in rovina e io mi sono ritrovato punto e a capo.
In seguito, mentre gli ex compagni passeggiavano e studiavano fra le calli veneziane o i portici bolognesi, avevo mollato la fiera e lavoravo in un piccolissimo studio grafico in via Ravizza, di fronte al parco omonimo.
Assunto come ragazzo jolly, in verità passavo la maggior parte del tempo in camera oscura a sviluppare strisciate di testi, titoli o logotipi, perché si faceva ancora tutto a mano: carta, forbici, lettere trasferibili, retini, rapidograph e colla.
L’agenzia era minuscola: il titolare, Mario, con baffi stile Magnum P.I.; una segretaria (fidanzata ufficiale del titolare e sua futura rovina); una grafica esecutivista, piccola, riservata, bruttina, sempre triste e una art director, ambiziosa, carina, fumatrice, piena di bracciali che tintinnavano ogni volta che si raccoglieva i capelli a coda di cavallo, segno che si cominciava a fare sul serio.
Io ero molto giovane, tanta voglia di fare, di imparare. Sognavo una carriera da art director, una delle figure più carismatiche e affascinanti della Milano da bere socialista degli anni ‘80.
Mi lasciavano provare senza tante restrizioni e allora, fatto il mio dovere in camera oscura, mi davo da fare: qualche esecutivo, qualche bozzetto, qualche idea di layout. Fino al giorno in cui un cliente scelse la mia proposta per una pagina istituzionale. Ero così felice! Così accecato dalla gioia e dall’ingenuità da non accorgermi di aver offeso l’orgoglio e la vanità di grafica e art director.
Da quel giorno, Mario mi guardò con un occhio diverso, come di chi si è appena accorto di aver scovato per due soldi un quadro di pregio al mercatino della domenica. Anche se però rimanevo pur sempre l’addetto alla camera oscura.
Un lavoro di merda, quasi sempre al buio, fra esalazioni di acidi, ore e ore trascorse in compagnia di me stesso, dell’oscurità e del silenzio. Era diventato il mio regno, in cui nessuno osava avventurarsi e nel quale, tra una stampa e l’altra, avevo tempo per pensare e sognare.
Poi, dopo un anno o poco più, cominciò il declino inarrestabile. I pochi clienti si fecero ancora più rari: prima se ne andò l’art director, sostituita da un tizio di quelli "comunisti così!", democraticamente presuntuoso nella sua incapacità. Gran barbone alla Marx, e poca puntualità. Ora lavora in rai, democraticamente raccomandato dal cugino dirigente.
Di lì a poco se ne andarono sia lui, che aveva democraticamente capito che aria tirava, sia la grafica bruttina.
Per me non era così facile; non avevo ancora abbastanza esperienza e, soprattutto, nessun portfolio per potermi proporre in agenzie migliori, perciò dovetti subire la nuova art director: una vegetariana seguace di Sai Baba che si faceva chiamare Nishav Do, o qualcosa del genere. Ci siamo odiati dal primo momento. Non sopportavo la sua ridicola religione, le sue nenie irritanti, il tè, le tisane, il credere in concetti così assurdi e illogici, il suo essere così insensibilmente e ottusamente ostile nei miei confronti, la sua infinita presunzione umana e professionale, il suo sentirsi infinitamente superiore verso chiunque non fosse stato illuminato dalla sua stupida religione. Eppure, una delle massime più conosciute del suo maestro celebra la non violenza, l’amore, il rispetto: "Ama tutti, servi tutti - Aiuta sempre, non ferire mai". Le stesse cose del cristianesimo, salvo che poi quasi tutti si comportano come nel famoso proverbio: "Sabato al bordello, domenica a messa". O qualcosa del genere.
Qualche anno dopo, quel cialtrone di Sai Baba fu accusato di essere un volgare prestigiatore da fiera di paese, di molestare sessualmente gli adepti e di aver avuto un ruolo non ancora chiarito in un omicidio plurimo commesso presso il suo ashram nel 1993.
Andava un po’ meglio con Bantù, l’amica di Nishav Do, un’irsuta mezza rasta, mezza drogata, ma con un bel paio di tette sode e un carattere più incline al sorriso e la tolleranza.
In tutto ciò, il punto fermo è che rimasi sempre il ragazzo jolly, quello della camera oscura, malgrado avessi una mano quasi fatata nel realizzare i layout preferiti dai pochi clienti rimasti.
In fondo non me ne importava molto, la mia grande passione rimaneva la fotografia; come se non ne avessi avuto ancora abbastanza di tutte le ore passate in camera oscura.
Il declino non si arrestava e, ben presto, rimasi l’unico dipendente dell’agenzia. Toccava tutto a me: la camera oscura, i layout, gli esecutivi, l’assistente fotografo per il titolare che, nel frattempo, cercava disperatamente di diversificare la sua attività. Provò con la politica, spedendo a Roma la fidanzata in cerca di chissà quali appoggi. Invece, lei se la spassava con una specie di attivista comunista che, la sera e durante i fine settimana, subaffittava lo studio per vendere le enciclopedia della Utet.
Veramente un mezzo industrialotto della Lomellina che voleva buttarsi in politica venne a fare dei manifesti elettorali, ma alle elezioni fu sonoramente trombato, perciò, anche la politica andò a farsi benedire.
Poi fu la volta di un altro strano individuo, che acquistava sistemi hi-fi in Polonia per rivenderli in Italia. Era l’epoca in cui il dollaro valeva poco e niente e la Polonia comunista mica da ridere e, visto che pagava in dollari e rivendeva in lire, gli affari gli andavano piuttosto bene. Ma non a Mario, che veniva imbrogliato allegramente.
Tutto questo passava sotto i miei occhi come uno strano teatrino di umanità varia, compresa la ragazza che veniva a fare le pulizie: una rossa minuta che indossava sempre una minigonna di jeans. Quando puliva il soppalco, a volte riuscivo a spiarle le mutandine.
In fondo tutta questa situazione era alquanto bizzarra, e Mario, coinvolto in questo turbinio, riusciva quasi a farmi pena. Specialmente quando cercava di barcamenarsi fra i creditori che lo seguivano fin dentro lo studio. Come la padrona della profumeria che reclamava il saldo dei conti in sospeso di quella che, nel frattempo, era ormai l’ex fidanzata.
Mario era di un’ingenuità davvero incredibile: si domandava perché mai, da alcuni mesi non ricevesse più la copia di Playmen di Adelina Tattilo, amica di Bettino Craxi, che fece fortuna con fumetti e riviste erotiche. L’ingenuo non sospettava che dopo aver scoperto quali erano i giorni di consegna, ero io quello che la faceva invariabilmente sparire.
Penso che, sotto sotto, si fosse anche affezionato a me, visto che ero l’unico rimasto ad ascoltare le storie della guerra in Grecia e Albania, o dell'enorme tumore che avevano asportato alla moglie, che suo padre raccontava ogni qual volta capitava in studio, o perché, fra tutti quanti, ero l’unico a essergli rimasto più o meno fedele.
Tutto questo è durato, credo, per un paio d’anni, fino a che, senza più una lira, Mario chiuse definitivamente lo studio, cedendolo a quei pirati che nel giro di qualche mese lo avevano mandato in rovina e io mi sono ritrovato punto e a capo.
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