Stavo riflettendo su quanto i nostri ricordi siano influenzati dalle loro rappresentazioni.
Lo so, una riflessione di questo tipo è, in parte, figlia della mia professione, del mio modo di pensare per immagini, per colori e forme.
Mi spiego meglio: per esempio, i miei genitori li ricordo al cinquanta per cento in bianco e nero e, per il restante cinquanta, a colori.
Foto nove per quattordici centimetri, di quel bianco e nero intenso, brillante, dettagliato e con i bordi frastagliati. Mio padre con gli sci sulla neve, mia madre con la gonna al ginocchio e il maglioncino scuro, ancora mio padre nel ritratto posato che si faceva dal fotografo, i bambini del cortile della casa di ringhiera ritratti dal padrone del negozio di ferramenta con l'hobby della fotografia, il matrimonio con pochi parenti e i loro vestiti strani che, in bianco e nero, sembrano tutti dello stesso colore. Anche i loghi della Fanta, della Coca-Cola e del Martini che si intravedono nel locale dove si è svolto il pranzo di nozze, non appaiono nei loro colori brillanti, ma in toni di grigio di diverse intensità, molto meno appariscenti, sguaiati e invadenti di quanto siano oggi.
Mia nonna è quasi tutta in bianco e nero. Nelle foto da giovane, in cui a vent'anni si appariva come un quarantenne odierno, con quei vestiti alla charleston, strani e un po' brutti, che sui corpi dei contadini vestiti a festa sembravano tende con le frange. Mia nonna in vacanza a Casamicciola che si fa fotografare vicino a un pattino su cui è seduta mia madre da piccola. Mia nonna che ha attraversato quasi cento anni con la forza di uno shuttle al rientro nell'atmosfera: dritto come un fuso, incandescente come una palla di fuoco, malconcio e annerito ma integro nella sua struttura. Due guerre: austriaci sul Piave, tedeschi sul Tagliamento, i bombardamenti a Milano e tutto buttato alle spalle con una spolveratina al cappotto, via la polvere e qualche calcinaccio, e avanti verso il futuro, senza paura.
Poi arrivo io, prima in bianco e nero, al mare, in braccio a mio padre, sulla mia automobilina a pedali, poi al parco Lambro nei colori sfalsati e brillanti come un libro per bambini della Kodak Instamatic, alla festa per il mio compleanno, mentre con un arco e la freccia con la ventosa minaccio mia nonna che mangia la torta. Io, a carnevale, vestito da indiano, in casacca e pantaloni turchesi e un gran copricapo di piume colorate in testa. In colonia nel luglio del 1969, qualche giorno prima dello sbarco sulla Luna dell'Apollo 11, mentre nella pineta di fronte al mare, supplico i miei genitori di riportarmi a casa.
Le foto dei matrimoni di parenti vari con tutti quei vestiti blu e le camice bianche, i vestitini di pizzo delle bambine, i pantaloncini all'inglese dei bambini.
Poi il liceo, la riscoperta del bianco e nero, della concezione artistica della fotografia, dello sviluppo e la stampa fatte in bagno, il fascino dell'apparire dell'immagine sulla carta e, quando sovraesposta, l'imbrunire inevitabile come di un sole che ha compiuto il suo ciclo giornaliero. Gli amici, le ragazze, la scuola, Milano, tornano magicamente in bianco e nero, appesantendo a volte, quel clima di piombo degli anni '70, che poi così di piombo, a pensarci bene, non era, ma questo l'ho già detto. E ora i miei figli, rigorosamente nati, e cresciuti a colori. I colori brillanti, nitidi e precisi delle Kodachrome e Ektachrome prima e il digitale di oggi: alieno, freddo, manipolabile e intangibile.
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