Il mio corpo ormai rattrappito in posizione seduta, le braccia tese in avanti, la schiena leggermente curva, come un piccolo Leopardi del pc, si oppone al movimento, al salire e scendere scale e marciapiedi. Suda sotto l’aria gelida di queste mattine di marzo, ansima come un vecchio cane se il passo si allunga, si ribella all’idea di percorrere a piedi più di una fermata di metropolitana.
Mi sento come un prigioniero di Auschwitz appena liberato dall’armata rossa. Incredulo di fronte alla libertà, incapace di riappropriarsene. Il mio cuore, che in questi anni ha sopportato paziente uno stile di vita velenoso e indolente, fatica a riprendere il giusto ritmo, come un motorino ingolfato. Spero sia forte come quello di mio padre che, prima di cedere ha sopportato tre infarti e infiniti pacchetti di nazionali senza filtro. Ma quanto potrò ancora chiedergli prima che si ribelli e mi spedisca all’altro mondo?
Se in tutto questo può esserci qualcosa di buono, credo sia proprio questa nuova possibilità di riappropriarmi del mondo, quello che sta fuori dalla mia finestra, e del mio corpo in animazione sospesa da troppo tempo.
Di tutte le cose immaginate e mai realizzate per mancanza di tempo, della voglia di progettare ancora nuove forme di creatività e gridarle a questo mondo ostile che si rifiuta di ascoltare.
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