Non ho mai amato le rimpatriate, specialmente quando i rapporti non sono stati né così intensi e tanto meno profondi. Pensavo che, dopo trent’anni, fosse solo un’occasione per spettegolare vicendevolmente sulle ingiurie del tempo, i successi professionali o magari i fallimenti augurati a chi ci stava sullo stomaco. Probabilmente è così, o lo è per me, schiavo della timidezza e dei preconcetti. Ma, come è vero che il primo amore non si può dimenticare, non è possibile scordare i compagni di viaggio della nostra adolescenza. E ciò che, a freddo, mi ha fatto più riflettere, è l’istantaneo riannodarsi di un dialogo che credevo ormai inevitabilmente perduto. È stato incredibile parlare con questi strani esseri che, fra rughe e calvizie, conservano solo un lontano ricordo di quello che furono, come fosse passata non più di una breve notte. Come fra un giorno di scuola e il successivo. Nessuna vergogna, nessuna soggezione. Ho l’impressione di amarli tutti, indistintamente, compresi quelli che non sopportavo. Forse è solo amore per la gioventù, principalmente la mia, e rimpianto di non aver sfruttato al cento per cento il tempo dell’inconsapevole libertà. Ma non sono veri amici, sono compagni di viaggio, persone con le quali si è condiviso un percorso importante durato quattro anni, niente di più.
Mi domando solo il perché di questa improvvisa bontà, di questo amore che per tanto tempo ha sonnecchiato dentro di me senza che me ne accorgessi. Che sia l’avanzare dell’età? La situazione così delicata del mio lavoro? Il senso di incompiutezza che a volte mi assale feroce? L’immaginifica seconda giovinezza dei quarant’anni passati da un pezzo? Che ne so, so che spesso sono assalito da un senso acuto di insofferenza verso me stesso, che mi agita come un fuoco di sant’antonio. Sono sempre stato un ingenuo, un sempliciotto facile da ingannare, travestito da scorbutico e incostante. Aria da duro per nascondere l’insicurezza.
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